La mia natura è simile a una macchina per svalutare continuamente la vita.
Insieme con l’Ulisse di Joyce, la Recherche di Proust, Il processo di Kafka e La montagna incantata di Mann, L’uomo senza qualità di Musil compone la cinquina dei romanzi più importanti della prima metà del XX secolo, capolavori ineguagliabili che hanno segnato indelebilmente la storia della letteratura. Soffermandoci sulla monumentale opera incompiuta dello scrittore austriaco, oggetto quest’oggi del nostro interesse, essa si caratterizza, tra le altre cose, per la particolarissima forma saggistica, frutto dell’assoluta prevalenza della dimensione riflessiva sulla dimensione narrativa, ridotta all’osso, appesa a un filo. Laureato in ingegneria a Vienna e in filosofia a Berlino, Musil nell’Uomo senza qualità tenta di conciliare i due mondi, il mondo scientifico e il mondo umanistico, nello sforzo controcorrente, in un’epoca dominata dal pensiero nietzschiano, «di avvicinarsi quanto più possibile allo stadio utopico della esattezza» [1]. Ambientato in Kakania, la monarchia austro-ungarica alla vigilia della sua dissoluzione, e in particolar modo nella capitale, la mai citata Vienna, il romanzo ruota attorno ad Ulrich, l’uomo senza qualità. Matematico trentaduenne, scapolo, Ulrich ha deciso di prendersi un anno di vacanza dalla vita, ma viene ingaggiato dall’Azione parallela, il comitato riunito per organizzare i festeggiamenti in onore del settantesimo anniversario dell’ascesa al trono di Francesco Giuseppe, di cui diviene segretario. La ricerca da parte dell’Azione parallela di un’idea che renda memorabile la ricorrenza – che dovrebbe cadere nel 1918, anno consacrato alla storia per ben altro motivo – è il sottilissimo filo narrativo che lega le tre parti che compongono il romanzo; ricerca vana, fallimentare in partenza, e destinata ad essere spazzata via dalla «sciagura di massa» annunciata in conclusione del libro, la Prima guerra mondiale, conclusione che rende L’uomo senza qualità il più compiuto dei romanzi incompiuti. A predire il primo dei due più grandi disastri della storia del genere umano è Ulrich, e forse anche grazie a quel «senso di possibilità» di cui è dotato e che costituisce uno dei concetti chiave dell’opera:
il senso di possibilità può essere definito […] come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere e di non considerare ciò che è più importante di ciò che non è. […] Questi individui della possibilità vivono, come si suol dire, in una trama più sottile, fatta di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi [2].
Un ulteriore approfondimento riguardo questo alternativo approccio esistenziale, dotato di una fortissima carica eversiva, rispetto ovviamente al convenzionale «senso della realtà», lo fornisce lo stesso Ulrich, in una conversazione con la cugina Diotima, la bellissima Diotima, nel cui scintillante salotto si riunisce il comitato dell’Azione parallela:
Gli ho detto [ad Arnheim, il celebre scrittore-industriale alter ego dell’uomo senza qualità] che ciò che viene realizzato mi attrae sempre meno di ciò che non viene realizzato, e con questo non intendo soltanto le cose future, bensì anche quelle passate, mancate. Mi pare che la nostra storia sia sempre la stessa, ogni volta che di un’idea abbiamo realizzato una piccola parte, per la gioia che proviamo lasciamo incompiuto tutto il resto, che è molto più grande. In genere le imponenti istituzioni sono abbozzi di idee sciupate; come del resto anche certe importanti personalità (318).
Ulrich assume un atteggiamento controcorrente rispetto alla propria epoca e a tutte le ideologie, o presunte tali, che la caratterizzano. E il terreno principale in cui si combatte questo scontro è forse rappresentato dalla morale, tra i temi dominanti del romanzo. Ulrich simpatizza per l’assassino Moosbrugger, giungendo in conclusione del libro alla formulazione di una nuova, originalissima definizione della morale: «La morale non era per lui né dominio né sapienza intellettuale, ma l’insieme infinito delle possibilità di vivere. […] La morale è fantasia» (1116-1117). Torna dunque quel fondamentale e fondante «senso di possibilità», peraltro nella sua forma più compiuta in quanto perfettamente corrispondente alla morale.
Ulrich è un uomo-contro, un malpensante – il più riuscito malpensante nella storia della letteratura, oserei dire -, contrario al perbenismo borghese che domina la società kakanese d’inizio secolo, ma anche a tutte quelle correnti di pensiero pseudo-alternative che vi si oppongono: lo spiritualismo di Diotima ed Arnheim, che vagheggiano «supremi amplessi delle anime», il nietzschianesimo dell’amico d’infanzia Walter e di sua moglie Clarisse – figura tra le più complesse e affascinanti del romanzo -, l’antisemitismo della fragile Gerda e del suo fidanzato Hans Sepp. A tutto questo Ulrich si oppone, ricorrendo all’arma probabilmente più efficace: l’ironia. Eccone un esempio, tratto ancora una volta dalle conversazioni tra il protagonista e la cugina:
Quando lei parlava della bellezza, lui parlava del tessuto adiposo che sorregge la pelle. Quando lei parlava d’amore, lui parlava della curva che indica l’annuale e automatico incremento e decremento delle nascite. Quando lei parlava dei grandi artisti, lui poneva in rilievo la catena di plagi che lega tra loro quelle figure. E accadeva sempre così, Diotima iniziava il discorso come se Dio, al settimo giorno, avesse riposto quella parola che è l’uomo nella conchiglia del mondo e lui allora le ricordava che l’essere umano è un mucchio di puntini sullo strato più superficiale di un piccolissimo globo (323-324).
Ulrich è il perfetto ironista che riconduce tutto alla sua reale dimensione, una dimensione irrilevante, insignificante; egli, come scrive Muzzioli, è «una sonda demistificante perfetta che porta alla luce i paradossi contraddittori di quella società che si vorrebbe tutta d’un pezzo; quella che egli constata invece è l’epoca della confusione» [3]. E Musil gli facilita il lavoro: il cantore dell’anima e dello spirito Paul Arnheim in realtà non è altro che un industriale infiltratosi nel salotto di Diotima per entrare in possesso dei giacimenti di petrolio in Galizia; il nietzschiano Walter non è che un presunto genio mancato a cui la moglie mentalmente instabile si nega sessualmente; gli antisemiti guidati da Hans Sepp si riuniscono a casa di un direttore di banca ebreo. Ulrich è un uomo troppo intelligente e, soprattutto, troppo pratico per non rivolgere la propria ironia anche contro se stesso, e per non sentire che dietro un atteggiamento ostinatamente contrario al proprio tempo si cela in realtà un profondo dramma individuale. «La mia natura è simile a una macchina per svalutare continuamente la vita», confessa sconsolato a se stesso e alla sorella Agathe. Parole che ricordano quelle di Carlo Michelstaedter, l’uomo storico forse più vicino al grandioso personaggio musiliano – per la poderosa fisicità e l’amore per la matematica -, allorquando scrive, in una lettera del 2 settembre 1909 indirizzata all’amico Enrico Mreule: «Ho riso di tutto e ho vissuto per sport. Ed ora che ho conosciuto cosa era la mia sicurezza ed ho preoccupato il futuro, che cosa mi resta se non il riso maligno, e il dolore bruto per la brutalità irriducibile della forza che mi tiene in vita? peggiore questo dolore che tutto il dolore che ho provato quando vedevo per la prima volta. Solo una reazione avrei potuto avere – così pensavo nella mia speranza, solo una reazione mi resta ora: d’andarmene, di distruggere questo corpo che vuol vivere» [4]. E a riprova della vicinanza tra Ulrich e Michelstaedter si legga questa dichiarazione del personaggio musiliano, che, sempre alla sorella Agathe – figura capitale del romanzo perché, grazie alla sua apparizione quasi miracolosa, permette ad Ulrich di denudarsi, completamente -, confessa di aver disimparato a prendere sul serio la vita:
«Volevo solo esprimere la mia incapacità di avere un rapporto sereno e motivato con me stesso», ripeté sorridendo. «Se devo partecipare a un’esperienza, questa deve far parte di un contesto, dev’essere subordinata a un’idea. L’esperienza in quanto tale preferirei in realtà averla già alle spalle, nel ricordo; invece il dispendio di sentimento che essa richiede mentre è in atto lo trovo spiacevole e ridicolmente inopportuno. È così, se cerco di descrivermi in modo spietato. E l’idea più naturale e più elementare, almeno quando si è giovani, è appunto credersi quel maledetto uomo nuovo che il mondo stava aspettando. Ma non dura oltre i trent’anni!». Rifletté un attimo e poi proseguì: «No! È così difficile parlare di sé: in realtà dovrei proprio dire che non sono mai stato dominato a lungo da una stessa idea. Non l’ho mai trovata. Un’idea andrebbe amata come una donna. Essere felici di ritornare da lei. E averla sempre dentro di sé! E cercarla ovunque al di fuori di sé. Idee di tal genere non le ho mai trovate. Sono sempre rimasto in un rapporto da uomo a uomo con le cosiddette grandi idee, forse anche con quelle che a ragione sono così chiamate. Non mi ritenevo nato per sottomettermi a esse, mi facevano venir voglia di abbatterle e rimpiazzarle con altre. Già, forse è stata proprio questa gelosia che mi ha condotto alla scienza, le cui leggi vengono cercate in comune e mai ritenute inviolabili!». S’interruppe di nuovo e rise di sé o del proprio racconto. «Ma comunque sia», continuò serio, «proprio per questo mio essere legato a tutte le idee o a nessuna, ho disimparato a prendere sul serio la vita. In realtà mi emozionava molto più leggerla in un romanzo, dove è sostenuta da una concezione; quando la devo vivere in tutti i suoi particolari, la trovo sempre antica, antiquata, prolissa, e superata nel contenuto intellettuale. Non credo che dipenda da me. Infatti oggi la maggior parte degli uomini è così. È vero che molti fingono di provare un’incontenibile gioia di vivere, così come ai bambini delle elementari si insegna a saltare allegri in mezzo ai fiorellini, ma in questo c’è sempre una certa forzatura, e loro lo sentono. In realtà sono capaci di ammazzarsi l’un l’altro a sangue freddo, come di vivere d’amore e d’accordo. Il nostro tempo si guarda bene dal prendere sul serio gli avvenimenti e le avventure di cui pullula. Quando accadono provocano emozioni. Poi generano subito nuovi avvenimenti, una specie di rappresaglia, di obbligo a ripetere l’alfabeto dalla B alla Z, solo perché si è detto A. Ma questi avvenimenti della nostra vita hanno meno vita di un libro perché sono privi di un senso coerente» (981-982).
Ulrich approda all’insensatezza, più volte nel corso del romanzo fa riferimento al nulla, e la stessa cosa avviene a Michelstaedter, che nel più nichilistico dei suoi appunti scrive, sancendo il fallimento della propria esperienza filosofica e quindi esistenziale: «Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa d’essere coscienza. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia» [5]. Michelstaedter si uccide, sparandosi due colpi di pistola in testa, in Ulrich sopravvive invece un’illusione, l’illusione del Regno millenario, ispirata dai mistici, ma, in ogni caso, spazzata via dalla profezia della «prossima sciagura di massa» e dalla silenziosa e solitaria fuga di Agathe che concludono il romanzo.
NOTE
[1] Micaela Latini, Robert Musil: romanzo e utopia, in Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Irene Castiglia, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 10.
[2] Robert Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 42. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Francesco Muzzioli, L’allegoria, Lithos Editrice, Roma 2016, p. 313.
[4] Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 407. Per un approfondimento sul filosofo goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[5] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 779.