Leopardi compone le Operette morali negli otto anni che vanno dal 1824 al 1832, queste vedranno la pubblicazione in maniera compiuta solo nel 1835 a Napoli. Il poeta sviluppa i temi dello Zibaldone, tipici della produzione matura del letterato marchigiano, creando un costrutto narrativo che si divide in ventiquattro componimenti in prosa. In questo periodo piuttosto difficile abbandona la poesia per dedicarsi alla stesura di quest’opera, ciò prende vigore dalla deludente esperienza del soggiorno romano.
Con questi scritti Leopardi esplora tutte le possibilità d’espressione, con toni metafisici o farseschi, razionali o meglio ancora lirici, e soprattutto sperimente l’ironia. Per quanto mi riguarda questa è l’opera centrale nel ventaglio delle realizzazioni “leopardiane”, e senza le Operette morali non avrebbe senso leggere o parlare in questa maniera del poeta di Recanati. L’espediente narrativo principale è il dialogo, un dialogo che si svolge tra gli interlocutori più svariati, i personaggi sono mitici, come nel dialogo tra Ercole ed Atlante, storici come nel caso del dialogo tra Cristoforo Colombo e Gutierrez, oppure fantastici, e questo è il caso del dialogo tra Federico Ruysch e le sue mummie. È proprio quest’ultimo dialogo che oggi vi propongo, poiché in questa operetta si concretizza molto del suo pensiero più profondo e vertiginoso. Dicono che Leopardi fosse un materialista che odiava la materia, ovvero tutto ciò che è immanente, proprio perché ciò che esiste è dolore, e nel suo caso è noia, proprio questo dialogo è pieno di illusioni, fuga, frattura.
Leopardi ci racconta come gli antichi credessero che alla fine di ogni ciclo universale i morti si sarebbero levati per cantare una loro canzone, siano essi sepolti in mare o in terra. A parlare con le mummie si trova Federico Ruysch, il grande naturalista del primo ottocento, che Leopardi rappresenta in maniera farsesca. Qui esce fuori la grande capacità ironica di Leopardi, che dalla critica è stato dipinto sempre come una specie di Calibano funereo, ed al contrario trova nella sua immensa profondità di spirito lo spazio di manovra, per ghignare al mondo e a tutto ciò che È. Questo sarà anche il rapporto che avrà con il moderno, che sprezzerà come conciliabolo di morte e putrida decadenza.
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch:
“Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall’antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.”
Ruysch fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell’uscio. “Diamine.! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant’è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l’uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
Entrando. Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar, e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima? Io m’immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga dell’uscio, e vi ammazzo tutti.”
Morto Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch Dunque che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto Poco fa sulla mezza notte appunto, si e compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.
Ruysch E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d’ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un’altra volta. Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
Morto Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch Mi dispiace veramente: perché m’immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
Morto Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della morte.
Morto Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch Come non ve n’accorgeste?
Morto Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre.
Ruysch Ma l’addormentarsi è cosa naturale.
Morto E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.
Ruysch Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.
Cosi colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte?
Morto Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n’accorge?
Ruysch A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
Morto Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario.
Ruysch E tanto quelli che intorno alla natura dell’anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch’io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
Morto Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l’uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull’appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non e più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.
Ruysch Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell’anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché stimando che il morire consista in una separazione dell’anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che constituiscono l’una e l’altra una sola persona, si possano separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto Dimmi: lo spirito e forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n’abbia a essere schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l’anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v’ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell’entrarvi, ella vi si sente conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché dunque sentirà spiccarsi all’uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l’entrata e l’uscita dell’anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
Morto Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell’ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell’uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell’uomo sono capaci di piacere anche presso all’estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza e piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, e piacere per se medesima. Sicché il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l’uomo da maggior patimento. Per me, se bene nell’ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
Gli altri morti Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.
Ruysch Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
Morto Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un’ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
Gli altri morti A noi successe il medesimo.
Ruysch Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d’essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m’intendete? Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a letto.”