Guido Guinizzelli, la cultura al potere

Non c’è forse modo migliore per sottolineare l’importanza di Guido Guinizzelli nella storia della letteratura italiana che ricordando le parole di Dante nel XXVI canto del Purgatorio, laddove incontra proprio il poeta bolognese:

«Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai» (vv. 94-102).

Eppure con lo stesso appellativo di «padre» Guinizzelli si era rivolto a Guittone d’Arezzo, salvo poi cambiare indirizzo poetico, volgendosi alla dolcezza e alla leggiadria (i termini utilizzati da Dante hanno una valenza tecnica, riferita alla forma poetica, e non impressionistica, è bene ricordarlo sempre), imponendosi così come il precursore di quella nuova maniera di poetare definita da Dante «dolce stil novo», nel canto XXIV del Purgatorio e per bocca del rimatore Bonagiunta da Lucca. E di questa nuova maniera di fare poesia, agli antipodi dell’astruso e vacuo, secondo Dante, stile guittoniano, Guinizzelli scrive il “manifesto”, la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, dei suoi venti componimenti che ci sono pervenuti senza dubbio il più celebre.

Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

Il tema dominante è quello della «gentilezza», ovvero della nobiltà, e già questo semplice dato, espresso sin dal primo verso della canzone, sottolinea l’importanza storico-sociologica oltreché letteraria del componimento. Tale tema è centrale nella cultura cortese (si ricordi in particolare il trattato De Amore di Andrea Cappellano), dove si afferma che la nobiltà non è strettamente, indissolubilmente legata alla nascita, al sangue, alla famiglia, ma dipende innanzitutto dal valore della persona. Una tesi che evidenzia l’anelito di una piccola aristocrazia priva di feudi ad appartenere e a farsi riconoscere dalla classe feudale. Guinizzelli riprende lo stesso concetto e lo traspone in un contesto storico completamente diverso. Nella società urbana della seconda metà del XIII secolo la classe dirigente, di cui il poeta è un illustre esponente, mira all’egemonia cittadina scalzando la nobiltà comunale. Si elabora così una nuova concezione della nobiltà, analogamente a quanto accaduto nella cultura cortese: la nobiltà non è ereditaria, per essere «gentili» non basta discendere da una famiglia di sangue nobile, ma sono necessarie intelligenza e cultura, ricorrendo ancora a Dante, è necessaria l’«altezza d’ingegno», felicissima espressione utilizzata nel canto X dell’Inferno.

Guinizzelli, e basti ancora il primo verso della canzone, individua il fondamento della «gentilezza» nell’amore: l’amore dimora nel cuore gentile, amore e «gentilezza» sono inscindibili, formano una cosa sola, senza l’uno non può esserci l’altro, in un legame che ha l’implacabilità propria della legge matematica. Una analoga identificazione esatta la si trova tra amore e poesia, e ciò conferma come la «gentilezza» sia legata alle facoltà intellettuali. È la cultura a formare la nuova élite cittadina, è la cultura che si impone come discriminante della nobiltà: la cultura nobilita l’uomo, in una concezione che noi oggi facciamo fatica anche solo ad immaginarci.

A conferma di ciò, l’imponente ricorso di Guinizzelli all’ambito filosofico-scientifico, una novità assoluta per l’epoca, dalla portata rivoluzionaria (e proprio di questo il sopracitato Bonagiunta accuserà Guinizzelli, imputandogli un eccessivo ricorso alla filosofia, nel sonetto Voi ch’avete mutato la mainera): l’amore trova posto nella «gentilezza» naturalmente come il calore nella luce del fuoco (vv. 8-10); il fuoco d’amore si accende nel cuore «gentile» come le virtù nella pietra preziosa, in cui la «stella» trasmette il proprio valore solo dopo che il sole l’ha purificata (vv. 11-17; in particolar modo tutta questa seconda stanza è fondata sulle nozioni di potenza ed atto di derivazione aristotelica); l’amore risiede nel cuore «gentile» per la stessa ragione per cui il fuoco risiede in cima alla torcia (vv. 21-22) eccetera.

Non mancano poi riferimenti propriamente teologici, nelle due stanze che concludono la canzone. Come «la ’ntelligenzïa del cielo», le schiere angeliche, probabilmente, intendendo Dio gli obbediscono, così l’amante obbedisce per sempre alla donna non appena quest’ultima splende ai suoi occhi. L’amore acquista così un valore religioso, la donna diviene un essere sovrannaturale, trascendentale. Ciò porta però ad un conflitto con la religione, e il poeta immagina, nell’ultima stanza, una sorta di resa dei conti con Dio al momento della sua ascesa in cielo. Dio lo accusa di un paragone profano, al limite dell’eresia, tra ciò che vi è di più sacro – egli stesso – e un amore vano – terreno -. Il poeta si salva con quello che Contini definisce uno «spiritoso epigramma»: la mia donna aveva l’aspetto di un angelo del tuo regno, per questo non ho commesso nessun peccato amandola. Guinizzelli ricorre al riso, alla battuta di spirito, ma non supera il conflitto. Lo supereranno Dante, facendo di Beatrice la figura di Cristo, e creando di fatto una nuova religione, il Beatricianesimo [1], e Cavalcanti, che invece la religione non la prenderà affatto in considerazione, come ogni altro aspetto del mondo esterno, del resto [2].

NOTE

[1] Per un approfondimento rimando agli articoli Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Prima parteVita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Seconda parte.

[2] Per un approfondimento rimando all’articolo Guido Cavalcanti, il lato oscuro dell’amore.

In copertina: Dante Gabriel Rossetti, Lady Lilith – Study for the head, 1872-1873.

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