Il primo risultato poetico di questa svolta si trova nel capitolo successivo, il diciannovesimo, che contiene la celebre canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.
XIX. Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch’avete.
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un’anima che ‘nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ‘v’ è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati».
Madonna è disiata in sommo cielo:
or voi di sua virtù farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria.
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.
Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser pò sì adorna e sì pura?».
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ‘ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben pò far natura;
per essemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch’ella li mova,
escono spirti d’amore inflammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ‘l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ‘ve non pote alcun mirarla fiso.
Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ‘ve giugni tu dichi pregando:
«Insegnatemi gir, ch’io son mandata
a quella di cui laude so’ adornata».
E se non vuoli andar sì come vana,
non restare ove sia gente villana:
ingegnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu dei.
Quanto Dante fosse legato a questa canzone – forse il suo componimento più significativo, insieme con Amor che ne la mente mi ragiona – lo dimostrano le citazioni nel De vulgari eloquentia e nella Commedia. Nel canto XXIV del Purgatorio Dante incontra il collega Bonagiunta da Lucca e tra i due avviene il seguente scambio di battute:
«Ma di’ s’i’ veggio colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch’avete intelletto d’amore.»
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.»
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stl novo ch’i’ odo.» (vv. 49-57)
Bonagiunta riconosce Dante caposcuola di un nuovo stile poetico, un nuovo stile in cui l’amore assume una dimensione spirituale, mistica (non a caso Dante dichiara a Bonagiunta di scrivere solo quando gli parla Amore) che è di fatto manifestazione di un profondo anelito alla divinità, all’immortalità, a quel soprannaturale verso cui si crede ciecamente. E il nuovo significato veicolato dalla canzone è perfettamente intuibile dalla cornice narrativa nella quale Dante l’ha inserita. È il momento in cui la Vita nuova assume la dignità di testo sacro, di Vangelo del Beatricianesimo.
Nel ventitreesimo capitolo della Vita nuova Dante racconta il presagio della morte di Beatrice.
XXIII. Appresso ciò per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendome dolere quasi intollerabilemente, a me giunse uno pensero lo quale era de la mia donna. E quando ei pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggiero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai». E poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; e altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade, che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’essere villana, però che tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata! Or vieni a me, ché molto ti disidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la camera erano s’accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e diceanmi: «Non dormire più», e «Non ti sconfortare». E parlandomi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch’io volea dicere: «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato. E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi pottero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d’Amore mi rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «Proccuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io, essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi a loro: «Io vi diroe quello ch’i’ hoe avuto». Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi, sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m’era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa e di novella etate, ordinata sì come manifesta la infrascritta divisione.
Donna pietosa e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
ch’era là ‘v’io chiamava spesso Morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte.
E altre donne, che si fuoro accorte
di me per quella che meco piangia,
fecer lei partir via,
e appressarsi per farmi sentire.
Qual dicea: «Non dormire»,
e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?»
Allor lassai la nova fantasia,
chiamando il nome de la donna mia.
Era la voce mia sì dolorosa
e rotta sì da l’angoscia del pianto,
ch’io solo intesi il nome nel mio core;
e con tutta la vista vergognosa
ch’era nel viso mio giunta cotanto,
mi fece verso lor volgere Amore.
Elli era tale a veder mio colore,
che facea ragionar di morte altrui:
«Deh, consoliam costui»
pregava l’una l’altra umilemente;
e dicevan sovente:
«Che vedestù, che tu non hai valore?».
E quando un poco confortato fui,
io dissi: «Donne, dicerollo a vui.
Mentr’io pensava la mia frale vita,
e vedea ‘l suo durar com’è leggiero,
piansemi Amor nel core, ove dimora;
per che l’anima mia fu sì smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
– Ben converrà che la mia donna mora. –
Io presi tanto smarrimento allora,
ch’io chiusi li occhi vilmente gravati,
e furon sì smagati
li spirti miei, che ciascun giva errando;
e poscia imaginando,
di caunoscenza e di verità fora,
visi di donne m’apparver crucciati,
che mi dicean pur: – Morra’ti, morra’ti. –
Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano imaginare ov’io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole e apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l’are,
e la terra tremare;
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: – Che fai? non sai novella?
morta è la donna tua, ch’era sì bella. –
Levava li occhi miei bagnati in pianti,
e vedea, che parean pioggia di manna,
li angeli che tornavan suso in cielo,
e una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti: Osanna;
e s’altro avesser detto, a voi dire’lo.
Allor diceva Amor: – Più nol ti celo;
vieni a veder nostra donna che giace. –
Lo imaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;
e quand’io l’avea scorta,
vedea che donne la covrian d’un velo;
ed avea seco umilità verace,
che parea che dicesse: – Io sono in pace. –
Io divenia nel dolor sì umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata,
ch’io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno;
tu dei omai esser cosa gentile,
poi che tu se’ ne la mia donna stata,
e dei aver pietate e non disdegno.
Vedi che sì desideroso vegno
d’esser de’ tuoi, ch’io ti somiglio in fede.
Vieni, ché ‘l cor te chiede. –
Poi mi partia, consumato ogne duolo;
e quand’io era solo,
dicea, guardando verso l’alto regno:
– Beato, anima bella, chi te vede! –
Voi mi chiamaste allor, vostra merzede».
Nel capitolo successivo, il ventiquattresimo, troviamo Beatrice preceduta dalla donna di Cavalcanti, Giovanna, detta Primavera. Dante, ispirato da Amore, comprende che questa donna è chiamata Primavera perché «prima verrà», ovvero destinata a precedere Beatrice nella sua apparizione. Anche il nome Giovanna dà lo stesso risultato, in quanto Giovanni Battista è colui che precedette Cristo. Dante sottolinea dunque, ancora una volta, il significato di Beatrice come «figura» di Cristo, come suo corrispettivo portatore della salvezza eterna. Dopo una riflessione sull’amore, e sul diritto del poeta di rappresentarlo come una persona reale, in carne ed ossa (venticinquesimo capitolo), Dante torna a «ripigliare lo stilo de la loda».
XXVI. Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
In questo capitolo Dante realizza quella che si impone, nella Vita nuova, come la più compiuta raffigurazione dell’ideale femminile. Ancora una volta, il poeta sottolinea il carattere miracoloso, sovrannaturale dell’apparizione della donna, come dimostra il frequente utilizzo del verbo «pare» (presente nella prima, nella seconda e nella quarta strofa, indirettamente nella terza, tramite l’equivalente «mostrarsi»), che non è da intendere nell’accezione di sembrare, ma di apparire, e apparire in piena evidenza. Il tutto è inserito in un’atmosfera astratta, sospesa, prettamente spirituale, che non si concretizza in un’immagine, ma resta fissata in una dimensione metafisica.
Il ventottesimo capitolo è dedicato alla preannunciata e temuta, ma, in fin dei conti, inevitabile e risanatrice morte di Beatrice. Morte che viene semplicemente annunciata, e dalla quale non si sviluppa nessun episodio narrativo. La dipartita della «gentilissima» fornisce piuttosto lo spunto per la spiegazione relativa al rapporto strettissimo esistente tra Beatrice e il numero nove.
XXIX. Io dico che, secondo l’usanza d’Arabia, l’anima sua nobilissima si partio ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l’usanza di Siria, ella si partio nel nono mese de l’anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l’usanza nostra, ella si partio in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e, secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace.
Dante fornisce due spiegazioni dell’intimo rapporto tra il numero nove e Beatrice: 1) alla nascita di lei i nove cieli (suddivisione che Dante mutua dalla visione aristotelico-tolemaica dell’universo, e che ritroviamo nella Commedia) erano in perfetta armonia; 2) Beatrice stessa, simbolicamente, fu un nove, ovvero un miracolo, perché tre, il numero trinitario, è radice di nove. Insistendo puntualmente, ossessivamente sulla simbologia del numero nove, Dante spiega l’origine e la natura divina del suo amore per Beatrice, e decide di farlo non a caso subito dopo la morte della «gentilissima», sottolineandone l’assoluta indipendenza da ogni legame terreno. Dante è ben al di là del corpo, della dimensione terrena e terrestre.
Nel trentesimo capitolo della Vita nuova, Dante dichiara apertamente che l’opera è dedicata a Cavalvanti, e sottolinea come la stessa Firenze – sfondo invisibile, ma onnipresente – muti dopo la morte di Beatrice: «dispogliata da ogni dignitade» diviene una «desolata cittade». Nel trentacinquesimo capitolo avviene l’incontro tra Dante e una «gentile donna giovane e bella molto», che mostra una particolare pietà verso il poeta. Dante, intravedendo in lei una possibilità di conforto, inizia a rivolgersi alla «gentile donna» in poesia. Il poeta è consapevole del rischio che corre, il rischio di essere sviato, distolto dal vero, autentico oggetto del suo amore, prova rabbia, vergogna, quasi odio verso se stesso (trentasettesimo capitolo), ma solo una visione di Beatrice, che Dante rivede bambina e vestita di rosso, esattamente come nella sua prima apparizione, riesce a spezzare questo pericoloso e colpevole legame (trentanovesimo capitolo). La visione riconduce il poeta sulla retta via. L’invocazione ai pellegrini che si recano a Roma durante la settimana santa (quarantesimo capitolo), permette a Dante di aggiungere un nuovo tassello alla perfetta corrispondenza tra Beatrice e Cristo, prima della grandiosa visione della «gentilissima» in cielo, «Oltre la spera che più larga gira», con la quale si conclude la Vita nuova, prima della profezia finale della Commedia.
XLI. Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandasse loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più onorevolemente adempiesse li loro prieghi. E dissi allora uno sonetto, lo quale narra del mio stato, e manda’lo a loro co lo precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a intender. Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d’alcuno suo effetto. Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora ‘spirito peregrino’, acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s’abbia a quelle benedette anime sì come l’occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch’io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico ‘donne mie care’, a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo. La seconda parte comincia quivi: intelligenza nova; la terza quivi: Quand’elli è giunto; la quarta quivi: Vedela tal; la quinta quivi: So io che parla. Potrebbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puotesi passare con questa divisa, e però non m’intrametto di più dividerlo.
Oltre la spera che più larga gira
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Dante contempla Beatrice nella gloria del paradiso; oltrepassa i nove cieli e approda all’Empireo, la sede dei beati. E ad elevarlo fino al limite estremo dell’universo è quella «intelligenza nova», ovvero una capacità di comprensione eccezionale, raggiunta proprio grazie all’amore per Beatrice. L’intera schiera di beati onora la «gentilissima», e il poeta contempla estasiato, stupefatto dall’ineffabile splendore che ella emana. Il sonetto si conclude con l’incapacità di Dante di intendere ciò che lo spirito gli riferisce, talmente complesso è il suo ragionamento. Intende solo che l’oggetto del discorso è Beatrice.
La Vita nuova è un libro profetico, e come tale si conclude con una profezia, la profezia della Commedia. Ormai la «mirabile visione» non viene neppure più descritta; a ben altro genere, a ben altra forma deve ricorrere Dante «per poter più degnamente trattare» di Beatrice, ora «benedetta», perché il destino del poeta è «dicer di lei quello che mai non fu detto d’alcuna».
XLII. Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.
Apostolo di Beatrice, Dante otterrà dalla sua devozione per lei tutto: un viaggio nell’aldilà che terminerà nella visione di Dio e nella gloria eterna.