Con il presente lavoro si è tentato di approfondire – per quanto permesso dalle modeste capacità dell’autore – aspetti del pensiero e dell’attività filosofico-letteraria di Carlo Michelstaedter scarsamente considerati, o quantomeno considerati solo superficialmente, dalla critica. E come in ogni altro lavoro dedicato al goriziano – l’argomento non fa alcuna differenza -, anche qui è emersa con forza quella che forse è la sua principale caratteristica: l’essere un uomo contro. Armato di una penna e di una conoscenza tanto vasta da far arrossire di certo il sottoscritto, ma anche più di un docente universitario, Michelstaedter dichiara guerra alla propria epoca. Contro tutti i suoi valori – siano essi sociali (la borghesia), politici, filosofici (Croce, Nietzsche) e letterari (D’Annunzio) – egli è in trincea. Ma c’è un dato che bisogna tenere sempre ben presente: dell’esito fallimentare di questa sua campagna il goriziano è perfettamente consapevole, sin dall’inizio – si ricordi l’avvio («Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno» [287]) della sua opera organicamente maggiore, La persuasione e la rettorica -. Michelstaedter è un uomo troppo pratico per potersi illudere, anche solo per un istante, del contrario. Egli sa bene che un individuo ostile al proprio tempo, un «malpensante», come si definisce Leopardi nei Paralipomeni della Batracomiomachia, incapace di cedere ai compromessi (e fortunatamente – parlo in questo caso da egoista, lo confesso – al compromesso della tesi di laurea ha ceduto), è destinato alla sconfitta.
Qualcuno di voi si domanderà che cosa ci dia la misura del fallimento e della sconfitta del goriziano, quale dato ci permetta di considerare tale la sua esperienza filosofico-letteraria ed esistenziale in generale. No, non mi riferisco al suicidio [288]. La questione è molto più semplice: basta ricordarsi cosa è avvenuto in questi centosette anni che ci separano dalla morte di Michelstaedter; basta guardare cosa siamo noi stessi. Tutto è andato esattamente, matematicamente al rovescio rispetto a quanto auspicato dal goriziano, rispetto a quanto, prima di lui, auspicato da Socrate, Cristo, Leopardi e Tolstoj, tanto per fare alcuni nomi. Ha trionfato la «rettorica», ecco tutto, su tutti i fronti e senza colpo ferire peraltro. E noi che Michelstaedter lo leggiamo, noi che di Michelstaedter scribacchiamo, limitandoci a questo, limitandoci a fare «teoria», non facciamo altro che confermarlo. Del resto, anche questa è «rettorica».
Vorrei chiarire inoltre un’altra questione. In un paio di casi nel presente lavoro si è fatto riferimento al nichilismo. Michelstaedter – secondo il mio modesto punto di vista – non è un nichilista, almeno non nelle intenzioni. Ma nichilistico è l’esito del suo pensiero – come lasciano intendere le due conclusioni del Dialogo della salute, ma anche il Dialogo tra Diogene e Napoleone e numerosi appunti [289] -, e non potrebbe essere altrimenti. Perché inevitabilmente nichilistico è l’esito di ogni pensiero – peraltro così intransigente e severo come quello michelstaedteriano – in guerra con il proprio tempo.
Prima di concludere, un’amara constatazione. Dopo aver terminato una tesi di laurea su Carlo Michelstaedter si prova un certo malcontento. Concluso il lavoro ci si rende improvvisamente conto della propria piccolezza, o meglio, della propria nullità, perché, seppur inconsciamente, si è portati a confrontare la propria tesi di laurea con quella del goriziano. E mentre lo studio di Michelstaedter si impone come una delle opere più grandi ed importanti della storia della letteratura e della filosofia italiana – e non solo -, per quanto mosso dall’ammirazione, il nostro studio su Michelstaedter finisce per risultare nient’altro che l’ennesimo – anche se infinitesimale – laccio con il quale la «rettorica» avvince colui che alla sua resistenza aveva consacrato la vita e l’opera.
[287] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35.
[288] Del suicidio di Michelstaedter ho deciso deliberatamente di non fornire – eccetto il vago accenno al leopardiano Bruto minore – nessuna interpretazione. In tutti questi anni ne sono state fornite molte, e delle più fantasiose, che bastano a soddisfare tutti i gusti.
[289] Uno su tutti, senza data, ma risalente, secondo Chiavacci, al principio del 1909: «Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa d’essere coscienza. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia. […]
La coscienza non arriva mai a possedersi perché nel momento in cui è in condizione di farlo cessa d’essere coscienza. Così avviene che essa non giunge mai all’assoluto, alla vera essenza». Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 779.
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Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole
Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice
Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento
Conclusione
Bibliografia