Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.Eugenio Montale, Non chiederci la parola
Ossi di seppia (1925), il primo e probabilmente più celebre volume di versi del premio Nobel per la letteratura Eugenio Montale (1896-1981), si caratterizza per un’originale reinterpretazione della tradizione lirica italiana.
La parola nella sua solitudine non può guadagnare la totalità, l’infinito, ma deve necessariamente relazionarsi con la realtà. La parola si incaglia nel fitto ed eterogeneo arabesco esistenziale, ma rappresenta il solo strumento attraverso il quale decifrare l’orfico enigma della vita. In questo modo il poeta ligure prende le distanze dagli insegnamenti simbolisti che riguardano l’analogia. Egli nei suoi componimenti non intende insinuare o ingannare, ma denotare con precisione, quasi nel dettaglio gli oggetti che nomina, definendoli con concretezza. Basta leggere la poesia I limoni, vera e propria dichiarazione programmatica della poetica di Montale, posta volutamente in apertura degli Ossi di seppia, per comprendere ciò che abbiamo appena detto, e riscontrare una sottile vena polemica diretta alla lirica tradizionale, illustre, diciamo pure ufficiale, ovvero quella di coloro che Montale definisce, proprio nel primo verso, «i poeti laureati». Questi ultimi utilizzano parole vaghe, soluzioni fumose per rivelare realtà altrettanto indefinite. Al contrario, Montale aspira ad una poetica che, riprendendo una felice intuizione di Luciano Anceschi, potremmo definire “delle cose”. Il premio Nobel si può in questo senso accostare ad autori come Pascoli e Gozzano. Come loro Montale pone l’attenzione sulle componenti più quotidiane e familiari della vita di un uomo. I suoi versi sono così attraversati da un tono crepuscolare. Non solo, il poeta ligure concede anche ampio spazio alla natura, le cui immagini valgono come segni contenenti, in modo ovviamente del tutto criptato, il destino umano. Un destino avido di felicità e ricco di sofferenze, che non concede sicurezze, né vane illusioni e al quale, ed è forse questo l’aspetto peggiore, è impossibile sottrarsi.
L’uomo contemporaneo è incapace di comprendere sia la realtà storica che quella metafisica. Da qui, il suo sentimento di distacco, che si aggrava fino a divenire rarefatto immobilismo. Inutili i tentativi di giungere alle verità della natura, ripiegata su ed in se stessa. Si tratta di una condizione complicata ed estremamente dolorosa, e la poesia non può far altro che muoversi tra i rapporti che legano le cose sperando di imbattersi, un giorno, in un pertugio nel quale insinuarsi e sbirciare l’autentica realtà.
Montale conferisce effettività anche alle nozioni ed alle emozioni più indistinte, e questa è una delle caratteristiche fondamentali della sua poetica. Nonostante il premio Nobel consideri le cose alla stregua di segni, non si allontana mai dalla loro dimensione definita, ed è ciò che lo contraddistingue dai simbolisti francesi e da Ungaretti, con il quale condivide l’invidiabile riconoscimento di più grande poeta italiano del Novecento.
Abbiamo visto come l’uomo contemporaneo di Montale provi sentimenti avversi ed inquietanti come il distacco e l’immobilismo. Il poeta ligure conia una formula celebre per definire con estrema e cruda efficacia questo tremendo stato esistenziale dell’individuo: il «male di vivere». Un malessere assolutamente concreto, ispirato da figure tangibili, dunque reali. Il «male di vivere» non è un’invenzione lirica scevra di sostanza, fluttuante e vaporosa. No, il malessere di cui parla Montale ha un peso, vive nelle cose e nel petto del poeta aggravandone le esistenze. Il «male di vivere» di Eugenio Montale rientra in quella florida tradizione di disagi esistenziali che conta nelle sue file, tra gli altri, lo spleen di Baudelaire e la nausea di Sartre.
Tra gli autori privilegiati dal poeta ligure troviamo Dante, ed è proprio ispirandosi alla Comedìa che Montale sviluppa il suo concetto di allegoria, corrispondente ai segni cui abbiamo accennato sopra. Tuttavia, se l’allegoria dantesca può essere compresa e spiegata in relazione a Dio e al suo disegno universale, l’allegoria montaliana vive difficoltosamente, quasi affannosamente in se stessa, non riuscendo a raggiungere verità assolute. Se in Dante vi è la Provvidenza, con i suoi piani stabiliti, certi, incontrovertibili, in Montale troviamo la cosiddetta «divina Indifferenza», come scrive lui stesso nel sesto verso della poesia Spesso il male di vivere ho incontrato. L’indifferenza è definita divina perché riguarda proprio la divinità, distante dalla povertà umana e del mondo.
Montale è fautore di una poesia sostanzialmente discorsiva, che implica la presenza del lettore-interlocutore. Il poeta si rivolge ad esso, parla con lui instaurando una relazione di comprensione e corrispondenza, ma soprattutto di sincera e commossa solidarietà. Nonostante questo rapporto intimo tra la lirica e chi ne usufruisce, il poeta rifiuta il ruolo pomposo ed altisonante di “poeta vate”, la poesia infatti non insegna, non forma, non nobilita (pensiero questo, espresso con grande incisività nel componimento Non chiederci la parola).
È già stato detto, ma è bene ribadirlo, per Montale l’uomo non può scoprire la verità esistenziale, decifrare gli enigmi e svelare i misteri della vita. Una conoscenza totale è dunque impossibile, e per questo Montale lo si può considerare uno dei primi autori italiani del XX secolo assertore di una concezione del mondo totalmente negativa, pessimistica. Malgrado ciò la poesia continua a svolgere la sua funzione indagatrice, studiando l’uomo contemporaneo e divenendo una «testimonianza» (termine utilizzato nella lirica Piccolo testamento, precisamente al nono verso).
In risposta all’irreversibile crisi in atto nel quale sono sprofondati l’uomo e l’intera società, Montale rimette la sua fiducia nelle mani di una sorta di razionalismo privo di speranza che, pur con la consapevolezza dell’impossibilità di giungere ad una formula che sveli l’essenza delle cose, si affida alla ragione, non cedendo mai allo sconforto, all’autocommiserazione o a soluzioni metafisiche tanto esaltanti quanto misere e fondamentalmente inutili.
A livello formale Montale rifiuta le rivoluzionarie trovate stilistiche formulate dalla dirompente avanguardia futurista, utilizzando sempre soluzioni razionali, conformi all’intelletto ed alla decenza umana. Certo, il poeta ligure si serve del verso libero, non allontanandosi però mai del tutto dalle forme metriche tradizionali, cui dedica ampio spazio. Non solo “contaminazione” metrica, ma anche linguistica. Termini comuni si alternano con altri più elevati, desueti e propriamente letterari. Montale tende comunque sempre ad un equilibrio formale piuttosto pacato, che può essere visto come una manifestazione di difesa contro il disordine che imperversa all’esterno. Equilibrio tuttavia fragile, come sottolinea lo stesso poeta, inserendo di tanto in tanto modeste violazioni (come ad esempio le rime imperfette).
Abbiamo iniziato il discorso sulla poetica di Eugenio Montale riferendoci alla sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia (1925). Perché questo titolo? L’immagine rievoca il carattere desertico e modesto dell’ispirazione del poeta, che si muove tra attimi fugaci, tutti concentrati nel paesaggio ligure sospeso tra l’ampiezza del mare e le colline. Un paesaggio scarno, secco, arso, luminoso, accecante, afflitto ed angosciato. Montale osserva ed ascolta con attenzione tutto quel che si muove in esso, senza però riuscire a decifrarne il mistero. Vita e morte, gioia e dolore. Le cose svelano solamente l’andare e venire dei fondamentali stati esistenziali e dei preminenti sentimenti spirituali. Nient’altro. E ricordare non aiuta. Al contrario di quanto sostenuto da Ungaretti infatti, in Montale la memoria non reca sollievo, non funge da rimedio e conforto.
Il volume di poesie successivo ad Ossi di seppia è Le occasioni (1939), che rappresentano gli istanti più rilevanti della vita di un uomo. Gli istanti che potrebbero indurre ad un mutamento il corso monotono dell’esistenza. L’uso del condizionale non è un caso, perché per il poeta non può avvenire alcun mutamento. Non c’è una svolta, e allora non gli resta che consegnare nelle mani delicate di altre figure, soprattutto femminili, la sua debole, fragile speranza. Dal rapporto poeta-natura caratteristico degli Ossi di seppia, si passa ora alla relazione con l’individuo. Tuttavia, neanche relazionandosi con i suoi simili il poeta giunge all’esattezza.
Alle Occasioni segue la raccolta La bufera e altro (1956). Il titolo si riferisce alla tragica esperienza bellica. E la guerra è una straordinaria, ed al tempo stesso terribile dimostrazione e conferma del pessimismo montaliano. Il poeta perde oramai del tutto la fiducia nella storia.
Rispetto ad Ossi di seppia, negli ultimi due volumi di versi citati, si assiste ad un cambiamento sia tematico che formale. La sintassi, più complicata, sostiene significati foschi, inestricabili. L’oggetto da segno diviene talismano, e come tale gli viene affidata la funzione mediatrice fra il tangibile e l’imperscrutabile. Un tentativo estremo di opporsi alle forze avverse che tiranneggiano crudeli il reale. Un tentativo comunque vano. Montale inoltre si rivolge ora a figure femminili che rappresentano gli ideali riceventi dei versi. Da sottolineare il fatto che il poeta celebra le donne solamente in seguito alla loro morte. Questo a dimostrazione del miracoloso carattere ambivalente della donna, umano e trascendentale, diciamo pure terrestre e celestiale. Un nuovo ed evidente richiamo a Dante, nella fattispecie alla donna-angelo dello «stil novo» che raggiunge la perfezione con la magnifica Beatrice.
Tra le ultime raccolte del poeta ligure troviamo Xenia (1966), che contiene versi dedicati alla moglie scomparsa, Drusilla Tanzi presente con il nomignolo di Mosca, e Satura (1971), volume nel quale si allenta la presa metafisica dell’autore, che si scaglia con veemenza contro la società contemporanea rea di aver perduto tutti i valori, ma anche, e soprattutto, rispettabilità ed attendibilità. Montale utilizza fortemente l’arma sottile ed affilata dell’ironia e del sarcasmo, utilizzando uno stile tendenzialmente aforistico ed epigrammatico. Infine, i volumi di versi conclusivi del poeta ligure, Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977), tendono ad una forma diaristica che pone la lirica ad un livello di resoconto di ciò che accade nella quotidianità.
Concludo questo discorso relativo alla poetica di Eugenio Montale, riproponendo la motivazione con la quale l’Accademia Svedese gli conferì, nel 1975, il Premio Nobel per la letteratura: «Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni.»
Eugenio Montale, straordinario cantore della disillusione, la cui produzione immortale brilla oggi, e brillerà domani, con la stessa, identica intensità con la quale brillò ieri.