Giuseppe Antonio Borgese, il padre dei crepuscolari

Giuseppe Antonio Borgese fu tra i maggiori protagonisti della scena letteraria italiana primonovecentesca. Originario della Sicilia, e precisamente di Polizzi Generosa (Palermo), dove nacque nel 1882, si trasferì presto a Firenze, a diciotto anni, al termine degli studi superiori. Nel capoluogo toscano si laureò nel 1903, con una tesi sulla Storia della critica romantica in Italia, apprezzatissima da Benedetto Croce, a tal punto che fu pubblicata due anni dopo dall’editore Laterza. Durante il soggiorno fiorentino, Borgese collaborò con riviste di grande rilievo, come «Leonardo» ed «Il Regno», e nel 1904 fondò il giornale «Hermes», che diresse per i due anni successivi.

Nel 1909 diede alle stampe le corrispondenze di La nuova Germania, e raccolse le recensioni realizzate fino ad allora nella serie di volumi La vita e il libro (1910-1913). Da questi testi emerge chiaramente tutta la brillantezza critica dell’autore siciliano, capace di ricostruire con grande efficacia i caratteri degli scrittori esaminati, ma soprattutto capace di cogliere ed evidenziare con grande sensibilità le tematiche portanti delle loro opere. In questo senso, basti ricordare che fu proprio Borgese, dalle colonne del quotidiano «La Stampa» il 1° settembre del 1910, recensendo componimenti di Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves, a coniare quell’espressione fortunata di poesia “crepuscolare” con la quale ancora oggi designiamo i versi di poeti come Gozzano e Corazzini, tanto per citare i due nomi più illustri di tale, magnifica tendenza lirica.

Borgese manifestò grande attenzione anche verso i problemi relativi all’estetica ed alla teoria della letteratura, dimostrando una poliedricità di pensiero rara, non tanto per l’epoca, quanto per i nostri giorni. In questo campo, dopo un’iniziale adesione alle teorie crociane, presto messe da parte, l’intellettuale propose un ritorno a De Sanctis, critico e filosofo che basò le sue riflessioni su quel rapporto tra arte e società, dunque tra arte ed impegno civile e morale che Borgese riteneva dovesse essere alla base di una letteratura di qualità.

Oltre che pregevole recensore ed acuto studioso, Borgese fu inoltre un notevole romanziere. Celebre, e letterariamente essenziale, la sua opera d’esordio, Rubè (1921). Il romanzo possiede caratteristiche narrative che lo rendono uno dei capisaldi del Novecento. Occorre infatti inserire, senza alcun tipo di reticenza, Rubè accanto ad opere dello stesso genere letterario scritte da autori ben più quotati, come Pirandello, Svevo e Moravia, in quel decennio, conclusosi con la pubblicazione, avvenuta nel 1929, dell’opera Gli indifferenti, che rappresenta un punto di svolta relativamente al tema della crisi dell’individuo, oramai disgregato e privo di punti di riferimento.

Le vicende del protagonista del romanzo di Borgese, Filippo Rubè, un inetto incapace di vivere, nel senso più elevato ed attivo del termine, ben oltre la grossolana logica dello spiro ergo sum, vengono inserite all’interno di una società corrotta, ipocrita, fragile, che vive il dramma della Prima guerra mondiale. Una società vacua, anticamera della nostra.

È necessario menzionare almeno un ulteriore, considerevole romanzo scritto da Borgese, pubblicato nel 1923, dal titolo piuttosto emblematico: I vivi e i morti.

Politicamente, lo scrittore e critico si distinse per scelte coraggiose e controcorrente, che lo portarono dapprima a schierarsi in opposizione all’irredentismo ed al nazionalismo dilaganti ad inizio secolo, poi a contrastare l’ideologia fascista. Nel 1931 Borgese si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò nelle Università di California e di Chicago. In lingua inglese scrisse diversi saggi, come Goliath, the march of fascism, ovvero Golia, marcia del fascismo, pubblicato negli States nel 1937, in Italia nel 1946, e come The City of Man (1940), composto insieme a Thomas Mann e Lewis Mumford.

Borgese rientrò in Italia solamente al termine del secondo conflitto mondiale, quando gli sembrò che il paese, scacciati gli spettri devastanti della dittatura fascista, potesse tornare ad essere finalmente di nuovo, davvero libero. Dopo la nomina al Premio Nobel per la pace, che ottenne per il progetto del “Committee to Frame a World Constitution”, e l’elevato riconoscimento del Premio Marzotto per la critica, Giuseppe Antonio Borgese si spense a Fiesole, il 4 dicembre del 1952.

Anche solamente da questa esigua e piuttosto scarna biografia, che ha l’obiettivo di delineare in termini brevi, eppure il più efficacemente possibile, i tratti principali di una personalità notevole e complessa, è possibile comprendere quanto Borgese fu, e tutt’ora resta, un personaggio fondamentale nella storia della letteratura italiana. Come abbiamo potuto vedere, egli fu un uomo che non ebbe mai timore di opporsi al pensiero comune, soprattutto in politica, un critico letterario brillante ed uno scrittore di tutto rispetto. I suoi romanzi infatti, ed in particolare Rubè, appartengono di diritto all’eccellenza romanzesca dell’epoca, sullo stesso piano dei vari Pirandello, Svevo e Moravia.

Di Borgese propongo un testo prezioso, la Prefazione a Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India di Guido Gozzano, una raccolta di prose sul soggiorno indico del poeta torinese, pubblicata nel 1917, l’anno successivo alla sua precoce morte. In questo testo le riflessioni illuminanti del critico si alternano con i ricordi intimi dell’amico. Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei sottolineare solamente la particolare rilevanza del terzo paragrafo, in particolar modo dell’inizio e della fine, dove Borgese evidenzia la discendenza leopardiana di Gozzano e, in conclusione, la sua primaria importanza nella letteratura italiana primonovecentesca «per avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del riferire l’esperienza interna qual’è, del collocare il valore poetico nell’accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell’emozione e la lealtà della parola».

È bene che il lettore, chiuso questo libro del nostro caro morto Guido Gozzano, indugi un poco prima di giungere ad una conclusione sul suo significato e sul suo valore.
Udrà allora molti suoni fievoli e sordi comporsi in una triste armonia seduttrice; vedrà molte macchie di colore, che parevano buttate a caso, connettersi pei margini e formar quadro. Le tinte, elementari e franche, parevano, finché leggevamo, giustaposte. Il ricordo le modula, così come fa la distanza per certe tele del Segantini o del Previati.
Da principio non si vede altro ordine e legge che quelli della curiosità esotica. Si pensa a un De Amicis meno colto e ardito, a un Barzini meno esperto e potente. L’Italia deve molto a questa strana categoria di scrittori, tutta italiana. Dopo secoli di piè di casa, di provincialismo non senza odore d’aglio, ecco l’Italia nuova e avida di novità, un po’ giapponese per l’ansietà d’avvenire, un po’ americana per il disdegno delle catene tradizionali. V’è già un accenno di futurismo in questo viaggiare per viaggiare, così diverso dai viaggi intimi e psicologici dei romantici, in queste esplorazioni del settentrione e dell’Oriente, delle capitali brumose e dei fronti di battaglia. Sciami di circumnavigatori e di grandi reporters, ritornando in patria, non contribuivano soltanto a introdurvi il whisky and soda e il rasoio automatico; ma anche un certo numero d’impressioni fresche e d’idee elastiche, utili per mettere bene a fuoco l’obbiettivo dell’attenzione nostra; ed anche un certo numero di parole giovani, d’immagini acri, di temerità sintattiche, delle quali la tecnica sperimentale delle nuove scuole poetiche ha fatto un’orgia, ma che daranno qualche buon frutto nella poesia di domani. Lo stesso d’Annunzio dell’inno ad Ermes, il d’Annunzio di Corrado Brando e degli Ulissidi, si ricollega, almeno in parte, a questa tendenza, ch’era già preannunziata nel Carducci innografo della locomotiva.
Il Gozzano del viaggio in India desume le occasioni e i metodi da questa scuola. Ma, dentro di sé, è assai più romantico e sentimentale, con molto maggiori affinità ai viaggiatori sterniani. In India cercava soprattutto se stesso, il se stesso fisico e morale: un po’ di buona salute, un po’ di quiete e d’oblio promessigli dalla dottrina vagamente intravveduta del nirvana, e forse un ampliamento del suo dolce orizzonte canavesano. Cercava anche le farfalle — ch’egli adorava, egli così magro e fragile e occhiuto, egli così simile a una povera farfalla dall’ali bruciate — : le farfalle sotto archi anche più grandi che quello di Tito.
I suoi tentativi d’interessarsi alle cose esterne, quali sono realmente, non mancano: ma scissi, deboli, abbandonati ben presto quasi col gesto pallido e febbrile con cui l’incurabile rifiuta la pozione accostata alle labbra in una velleità di speranza. Né la salsedine può rifabbricargli i polmoni, né le lontananze esotiche possono nutrirgli l’anima che ha ormai compiuto il suo ciclo e si consuma in sé medesima. Non ignora certo Kipling, eppure non lo ricorda mai, perfino temendo la vicinanza di quell’imperiale britannico appetito di esistere; e i suoi occhi, già colmi di penombra, non sostengono le policromie fragorose che Gauguin cercava pei mari australi. Ammira gl’inglesi conquistatori e organizzatori, senza che questa ammirazione oltrepassi l’accento giornalistico e tocchi la soglia della storia. Ha appreso lì per lì, non senza sazietà e noia, le alcune cose che ci riferisce; e a lui, così vicino al gelo dell’eternità, la storia non è ormai che una lacrimevole commedia di equivoci in uno scenario orpellato. E tale gli era parsa, anche prima, immutabilmente; e non v’è nulla che neghi il carduccianesimo epico quanto L’Amica di Nonna Speranza: obbiezione nichilistica pronunciata con tanto più radicale decisione quanto più semplice e cordiale vi è la modestia del discorso. Perciò quasi non gli costa fatica la lealtà di confessare che, prima di sbarcare in India, confondeva i Parsi coi Paria. Nessuna dissimulazione d’ignoranza, nessuna pretesa di sapienza. Le cose che guarda sono spesso «buffe ed assurde». «Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest’automobile e noi che sostiamo su questo pendio come dinanzi ad un aereodromo, a un ippodromo occidentale…» Tra l’incomprensibile passato e l’impossibile avvenire egli vacilla in un’ondulazione inconsistente — che è il ritmo lirico di queste sue prose — come uno che vada innanzi, su una passerella tarlata, certo in cuor suo che da un istante all’altro cadrà nell’abisso.
Poi tornò in Italia. E vennero i giorni di questa immensa rappresentazione storica. Bisognava credere nella realtà della storia, o sparire. Ma egli, Gozzano, già da tanto tempo amava le farfalle, il simbolico animale della rinunzia nel fuoco trasfiguratore. Già da tanto tempo aveva detto addio alle donne, agli amici, alle immagini care. Partì silenzioso — per un viaggio più lungo — verso il mitico buio Occidente, questa volta, ove tramonta il desiderio.

***

Anche allora, in India, aveva sperato questa pace. Sapeva delle dottrine orientali, vagamente. Ma era troppo stanco e sfiduciato per un pellegrinaggio ascetico; e, in fondo, soffriva troppo per imporsi penitenze. Nella terra ove fu rinnegata «la ruota delle cose» e fu celebrato il silenzio, udiva invece il frastuono di una barbarica idolatrica polifonìa. E doveva oscuramente riconoscere d’essere troppo artista perché gli riuscisse facile la condanna dei sensi.
Un odore di sensualità esotica circola qua e là per queste pagine. Ma ha qualcosa di chiuso, di stantìo, ed è come punteggiato da acredini di preziosa putrefazione. «Mi sono avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto: strani frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere e da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee che ho dinanzi; petali di lacca policroma, polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell’interno iridescenti come le tinte intraviste nei toraci aperti delle bestie macellate; il fascino dà l’incubo della peste e del malefizio, e nell’afa pomeridiana emana un odore fetido insostenibile». Senza ambizioni metafisiche, per associazioni forzose e istintive cui vediamo seguire sul suo viso un pallore madido, una contrazione di agonizzante, appanna anche altre volte il desiderio della vita con l’alito della corruzione. Ecco la danza della Devadasis, ed ecco le due misere cortigiane francesi che vorrebbero prostituirsi al Gran Mogol, morto trecent’anni prima. Ecco nudità intravvedute, così perfette che il poeta s’esalta, riconoscendosi puro e immune di lascivia: ed ecco lo stridulo ricordo di Madame Angot.
La volontà di vivere era già quasi esausta, e il desiderio di morire tardava ancora. Lo vedo tutto freddoloso e rattrappito, povero caro fanciullo esangue, davanti al focherello malcerto della sua vita, come già lo vidi, in una giornata di nevischio, davanti ali camino della salle à manger, in un alberghetto di montagna, ove, prima che in India, era venuto a cercare un po’ di salute.

***

Lo ricordo ancora altrimenti, come lo vidi in un giorno d’agosto 1913, in riva al mare ligure. La memoria del bene che mi volle e della stima ch’ebbe per me (gli parevo un luminare di scienza: caro, umile, timoroso fanciullo che temeva i compiti e riveriva i professori e i primi della classe!) è fra le cose buone e nobili che m’ha date la vita. Era venuto per vedermi e parlarmi. Aveva ancora il volto abbronzato dal lungo viaggio, con una maschera illusoria di floridezza. Parlava piano, fissando la lontananza e il queto Occidente che s’oscurava, con uno sguardo leopardiano. Progenie di Leopardi, aveva varcato la siepe, aveva navigato verso l’infinito. Era freddo, deluso, risoluto.
Credeva nelle farfalle, per la sua gioia; nella pellicola cinematografica, pel suo pane; in qualche amico. Anche, soprattutto nella poesia; ma in una poesia fatta sibi et paucis, stampata in pochi esemplari non venali, condotta fino all’ultima nudità d’espressione, ridotta a sé medesima: senza risonanza pratica e senza gloria. Mi parlò delle poesie, candide e ignude, che aveva scritte in India: e che non conosco.
In questo volume non mancano echi di canto. Vi è il Tai-Mahal coi suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto (un po’ di quel «soprannaturale» che sperava di trovare in India); vi è Giaipur («nessuna cosa è più inutile di questa grande città color di rosa» — «mi ricorderò di Giaipur…»); e quella pagina dei frutti e dei fiori; e il conquistador di Goa (p. 54). E v’è «la demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti», e, sulla fine, il gracidìo conclusivo dei corvi: «l’altro romore che è la nota acustica dell’India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare o dei torrenti: il gracidìo dei corvi così monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio: inno alla putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l’orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai!». E v’è, soprattutto, quell’occulta accentuazione lirica che sorregge tutta questa prosa piana; ma l’una e gli altri, la musica occulta e gli echi percettibili, indipendenti dalla volontà dello scrittore, permeati nella quieta e modesta prosa quasi suo malgrado. Giacché non amava più (non aveva forse mai amato) questi intarsî equivoci, e spregiava, senza indignazioni oratorie, le cose brillanti da bazar. Qui voleva dare notazioni semplici e opache, diarî di curiosità forestiere, per molti lettori: un po’ di buona cinematografia, se si vuole. La poesia doveva essere altrove, nella sua anima e nel suo cassetto, per il poeta e per pochi cari. Doveva essere, ormai, tanto più schiva quanto più veritiera: una nudità pudica che non si mostra in piazza, una lealtà che non ricorre all’enfasi, perché non le giova di persuadere le folle.
Ho già detto pocanzi la parola lealtà per Gozzano. E non mi dolgo della ripetizione. Soprattutto per questo egli è e rimane un maestro: per avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del riferire l’esperienza interna qual’è, del collocare il valore poetico nell’accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell’emozione e la lealtà della parola.

Parigi, aprile 1917.

G. A. Borgese.

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