Il Maestro e Margherita: la ri-scrittura del mito. Prima parte

Tra i tanti aspetti che rendono il celebre romanzo Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, pubblicato postumo, ventisei anni dopo la morte dell’autore, un’opera tra le più importanti, originali e sorprendenti del Novecento, e forse l’ultima grande opera della storia della letteratura, spicca l’eccezionale processo di ri-scrittura di due dei miti più caratterizzanti della storia dell’uomo: il mito faustiano e il mito cristiano. Il primo rivive nella vicenda di coloro che danno il titolo al romanzo, il Maestro e Margherita appunto, il secondo nella vicenda del procuratore della Giudea, l’«egemone» Ponzio Pilato, raccontata proprio dal Maestro nel suo libro stroncato senza pietà dalla critica moscovita. A questi due nuclei narrativi se ne aggiunge un terzo, costituito dalle esilaranti malefatte di Woland-Satana e, soprattutto, del suo seguito, formato dal claunesco felino Behemot, dall’ex maestro di cappella Korov’ev-Fagotto, dal zannesco assassino Azazello e dalla bella e sfregiata strega Hella.

Iniziamo dal mito cristiano. Siamo nel vivo della Passione: Gesù, tradito da Giuda, viene arrestato e, dopo il colloquio con il sommo sacerdote Caifa, condotto da Ponzio Pilato. Ma, attenzione, Bulgakov rielabora in profondità il racconto evangelico, si spinge oltre, raggiungendo vette di originalità difficilmente eguagliabili. Gesù diviene un vagabondo senza fissa dimora, originario della città di Gamala, di nome Yehōšua’ Ha-Nozri, orfano, che dei genitori non conserva neppure un vago ricordo. Al suo seguito non ha dodici apostoli, ma il solo, misero, meschino Levi Matteo, un ex pubblicano che lo segue dappertutto e non fa che scrivere di continuo su una pergamena, il cui contenuto viene apertamente sconfessato da Yehōšua’: «c’è uno che mi segue, mi segue con una pergamena di capra e scrive in continuazione. Ma una volta ho dato un’occhiata a questa pergamena e sono inorridito. Io non ho detto assolutamente nulla di quello che sta scritto lì» (traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2014, p.20). È necessario puntualizzare che non si tratta di una fantasia letteraria del Maestro, di una sua invenzione artistica, ma di quello che, nell’universo dell’opera di Bulgakov, è la vera Storia. È così che sono andate realmente le cose, è così che le racconta Woland allo sciagurato Berlioz e a Bezdomnyj.

Ma al centro di questo romanzo nel romanzo non si trova, come ci si potrebbe aspettare, Yehōšua’, bensì Ponzio Pilato, il primo attore del dramma storico, presentato come un uomo distrutto dall’emicrania cronica e incapace di provare affetto per gli uomini, legato sentimentalmente solo al suo cane, Bangà. Questa volta in perfetta corrispondenza con il racconto evangelico, Ponzio Pilato domanda a Yehōšua’ cos’è la verità. Questa la risposta: «La verità innanzitutto è che ti fa male la testa, e ti fa tanto male che vilmente pensi alla morte. Non solo non hai la forza di parlare con me, ma fai persino fatica a guardarmi. E adesso senza volerlo io sono il tuo boia, il che mi addolora. Tu non riesci a pensare a niente e sogni soltanto che arrivi il tuo cane, evidentemente l’unica creatura a cui tu sia affezionato. Ma i tuoi tormenti finiranno, il mal di testa passerà» (22). E così avviene, Yehōšua’ guarisce Ponzio Pilato, e lo redarguisce: «Il guaio è […] che tu sei troppo chiuso e hai perso definitivamente la fede negli uomini. Ma non si può, convienine, riporre tutto il proprio affetto in un cane. La tua vita è povera» (23). Al contrario, Yehōšua’ ha una fiducia sconfinata negli uomini, secondo lui sono tutti buoni, tutti. Ponzio Pilato, turbato dal sospetto di eternità che lo ha colto durante il colloquio con Yehōšua’, non vorrebbe condannare a morte il prigioniero, colui che è riuscito a guarirlo dall’insopportabile emicrania, ma deve sottostare alla volontà di Caifa e del sinedrio, che decide di liberare il criminale Bar-Rabban invece dell’innocuo predicatore vagabondo Yehōšua’. «Tutto era finito, e non c’era più nulla da dire. Ha-Nozri se ne andava per sempre, e più nessuno ormai poteva guarire i dolori tremendi, perfidi del procuratore; contro di essi non c’era altro rimedio che la morte» (33).

Sul Golgotha, Yehōšua’ e i due ladroni, crocifissi, vengono arsi vivi dal sole, dall’implacabile sole di Gerusalemme. Dei tre, il più fortunato è proprio Ha-Nozri, che perde subito conoscenza. Il suo corpo martoriato è ricoperto di mosche e tafani, un’immagine particolarmente cruenta e spietata, ma che dà l’esatta misura delle atroci sofferenze patite da Yehōšua’ in quel memorabile giorno: «Il più fortunato era stato Yehōšua’! Già nella prima ora avevano cominciato e coglierlo degli svenimenti, dopo di che aveva perso i sensi, abbandonando il capo col turbante disfatto. Le mosche e i tafani perciò l’avevano completamente ricoperto, così che il suo viso era sparito sotto una nera massa brulicante. All’inguine, all’addome e sotto le ascelle erano posati dei grassi tafani e gli succhiavano il giallo corpo nudo» (194). Ponzio Pilato, privato del suo salvatore, non può fare altro che accelerare il trapasso di Yehōšua’, abbreviarne le atroci sofferenze, ed è proprio quello che fa, che ordina ai suoi uomini collocati ai piedi delle croci. Ecco che Bulgakov trasforma due dei gesti più crudeli nella storia in manifestazioni di eccezionale misericordia: la spugna disseta e la punta della lancia libera dal dolore.

«Obbedendo ai segni dell’uomo incappucciato, uno dei boia prese una lancia, e un altro portò al palo un secchio e una spugna. Il primo boia levò la lancia e batté prima sull’uno, poi sull’altro braccio di Yehōšua’, teso e legato con corde alla traversina del palo. Il corpo dalle costole sporgenti sussultò. Il boia passò la punta della lancia sull’addome. Allora Yehōšua’ levò il capo, e le mosche si alzarono ronzando e scoprirono il volto dell’appeso, gonfio di punture, con gli occhi enfiati: un volto irriconoscibile.
Scollate le palpebre, Ha-Nozri guardò in basso. I suoi occhi, di solito limpidi, erano torbidi, adesso.
– Ha-Nozri! – disse il boia.
Ha-Nozri mosse le labbra tumefatte e rispose con rauca voce da brigante: – Cosa vuoi? Perché sei venuto da me?
– Bevi! – disse il boia, e la spugna imbevuta d’acqua si sollevò sulla punta della lancia fino alle labbra di Yehōšua’! Questi ebbe un lampo di gioia negli occhi, premette il viso alla spugna e cominciò a succhiarne avidamente l’acqua. Dal palo vicino giunse la voce di Dismas:
– Ingiustizia! Sono un ladrone come lui.
Dismas si tese, ma non poté muoversi, le sue braccia erano legate da anelli di corda in tre punti della traversina. Risucchiò il ventre, conficcò le unghie nelle estremità della traversina, teneva la testa girata verso il palo di Yehōšua’: l’odio ardeva negli occhi di Dismas.
Una nuvola di polvere coprì lo spiazzo, la luce calò di colpo. Quando la polvere volò via, il centurione gridò:
– Silenzio sul secondo palo!
Dismas tacque. Yehōšua’ si staccò dalla spugna e sforzandosi di rendere dolce e persuasiva la sua voce, ma senza riuscirci, chiese rauco al carnefice: – Dagli da bere.
Si andava facendo sempre più buio. Il nembo aveva già invaso metà del cielo, correndo verso Yerūšālayim, delle bianche nubi fumanti volavano davanti al nuvolone ebbro di umori neri e di fuoco. Lampeggiò e tuonò proprio sopra la collina. Il boia tolse la spugna dalla lancia.
– Glorifica il magnanimo egemone! – sussurrò solennemente e piano piano trafisse Yehōšua’ al cuore. Questi sussultò, mormorò:
– Egemone…
Il sangue corse lungo il ventre, la mascella inferiore ebbe uno spasimo, e il capo ricadde.
Al secondo tuono il boia già dava da bere a Dismas, poi con le stesse parole: – Glorifica l’egemone! – uccise anche lui.
Hestas, privo di senno, gridò impaurito non appena il boia gli fu vicino, ma quando la spugna toccò le sue labbra, ringhiò qualcosa e vi affondò i denti. Dopo qualche secondo anche il suo corpo si afflosciò per quanto lo consentivano le corde» (194-195).

L’immagine di Yehōšua’ si è impressa indelebilmente nella memoria e nell’anima di Ponzio Pilato, che rivede il «filosofo vagante» in sogno.

«Verso mezzanotte il sonno ebbe finalmente pietà dell’egemone. Sbadigliando convulsamente, il prcuratore si slacciò e tolse il mantello, si sfilò la cintura che gli cingeva la tunica e il largo pugnale d’acciacio nel fodero, lo posò sulla scranna vicino al letto, si levò i sandali e si distese. Bangà subito saltò sul letto e gli si accovacciò accanto, testa contro testa, e il prcuratore, posata una mano sul collo del cane, finalmente chiuse gli occhi. Solo allora si addormentò anche il cane.
Il letto era in penombra, una colonna lo riparava dalla luce lunare, ma dai gradini della terrazza al letto si stendeva un nastro di luna. E non appena il procuratore perse contatto con ciò che gli stava intorno nella realtà, subito s’incamminò per quella strada luminosa e andò dritto verso la luna. Rise addirittura di felicità nel sonno, tanto ogni cosa aveva avuto un esito meraviglioso e irripetibile su quella strada azzurra e trasparente. Camminava in compagnia di Bangà, e accanto a lui camminava il filosofo vagante. Disputavano di qualcosa di molto complesso e importante, e nessuno dei due riusciva a convincere l’altro. Non erano d’accordo su nulla, e ciò rendeva la loro disputa particolarmente interessante e inesauribile. Ovviamente l’esecuzione di quel giorno era stato un banalissimo malinteso – perché il filosofo che aveva inventato una cosa così assurda e inverosimile come la teoria che tutti gli uomini sono buoni camminava al suo fianco, di conseguenza era vivo. E, naturalmente, era assolutamente atroce anche solo pensare di poter giustiziare un uomo del genere. L’esecuzione non c’era stata! Non c’era stata! Ecco dov’era l’incanto di quel viaggio su per la scala di luna.
C’era tutto il tempo che si voleva, e il temporale sarebbe cominciato solo verso sera, e la viltà, senza dubbio, era uno dei vizi più terribili. Così diceva Yehōšua’ Ha-Nozri. No, filosofo, non sono d’accordo con te: è il vizio più terribile.
Ecco, per esempio, non era stato vile l’attuale procuratore della Giudea, allora tribuno della legione, quando, nella Valle delle Vergini, i germani inferociti per poco non avevano sbranato Muribellum, il Gigante. Ma permetti, filosofo! Forse tu, con la tua intelligenza, puoi ammettere l’idea che per colpa di un uomo che ha commesso un crimine contro Cesare il procuratore della Giudea possa rovinarsi la carriera?
– Sì, sì, – gemeva e singhiozzava nel sonno Pilato.
S’intende che può rovinarsela. La mattina ancora non l’avrebbe fatto, ma ora, di notte, dopo aver ponderato bene tutto, era pronto a rovinarsela. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvare dal supplizio il folle sognatore e medico che non aveva nessunissima colpa!
– Ora staremo sempre insieme, – gli diceva nel sonno il cencioso filosofo vagabondo, capitato chissà come sulla strada del cavaliere dalla Lancia d’Oro. – Saremo inseparabili! Ricorderanno me, e subito ricorderanno anche te! Me, un trovatello, figlio di ignoti genitori, e te figlio del re astrologo e della figlia del mugnaio, la bella Pila.
“Sì, ma tu non dimenticarmi, ricordati di me, il figlio dell’astrologo”, pregava in sogno Pilato. E ottenuto in sogno un cenno di assenso dal mendicante di En-Sarid che gli camminava al fianco, il crudele procuratore della Giudea piangeva e rideva di gioia nel sonno» (343-345).

Giuda paga a caro prezzo il suo tradimento. Giuda, questo dongiovanni avido di denaro, viene ucciso a colpi di pugnale, e per ordine di Ponzio Pilato, come confessa egli stesso al meschino Levi Matteo.

«- Che hai? – gli chiese Pilato.
– Nulla, – rispose Levi Matteo e fece un movimento, come se avesse inghiottito qualcosa. Il suo collo scarno, nudo, sporco si gonfiò e s’infossò di nuovo.
– Che hai, rispondi, – ripeté Pilato.
– Sono stanco, – rispose Levi e guardò cupo il pavimento.
– Siediti, – disse Pilato e indicò la scranna.
Levi diede un’occhiata diffidente al procuratore, si avvicinò alla scranna, sbirciò timoroso i braccioli dorati e si sedette non sulla scranna, bensì accanto, per terra.
– Spiegami, perché non ti sei seduto sulla scranna? – domandò Pilato.
– Sono sporco, l’infangherei, – disse Levi, guardando a terra.
– Adesso ti daranno da mangiare.
– Non ho fame, – rispose Levi.
– Perché mentire? – domandò piano Pilato, – è tutto il giorno che non mangi, se non di più. E va bene, non mangiare. Ti ho chiamato perché tu mi mostrassi il coltello che portavi con te.
– I soldati me l’hanno requisito quando mi hanno condotto qui, – rispose Levi e aggiunse tetro: – Restituitemelo, devo riportarlo al proprietario, l’ho rubato.
– Perché?
– Per tagliare le corde, – rispose Levi.
– Marco! – gridò il procuratore, e il centurione avanzò fra le colonne. – Dammi il suo coltello.
Il centurione estrasse da uno dei due foderi della cintura un sudicio coltello da pane e lo porse al procuratore, poi se ne andò da solo.
– E dove hai preso il coltello?
– Nella panetteria vicino alla porta di Hebron, subito a sinistra entrando in città.
Pilato esaminò la lama larga, ne provò il taglio con un dito, chissà perché, poi disse:
– Per il coltello non preoccuparti, sarà restituito alla bottega. Ora però mi serve una seconda cosa: mostrami la pergamena che porti con te e dove sono trascritte le parole di Yehōšua’.
Levi guardò Pilato con odio ed ebbe un sorriso così cattivo che il suo volto si abbrutì completamente.
– Vuoi togliermela? Anche l’ultima cosa che possiedo? – domandò.
– Non ti ho detto “dammi”, – rispose Pilato, – ho detto “mostrami”.
Levi si frugò in seno e ne trasse il rotolo di pergamena. Pilato lo prese, lo svolse, lo distese fra le lampade e, sforzando gli occhi, prese a studiarne gli illegibili segni a inchiostro. Era difficile decifrare quelle righe sbilenche, e Pilato corrugava la fronte e si chinava sulla pergamena, seguiva col dito le righe. Riuscì tuttavia a capire che lo scritto consisteva in una catena sconnessa di aforismi, date, annotazioni pratiche e frammenti poetici. Pilato lesse qua e là: “La morte non esiste… Ieri abbiamo mangiato dei dolci bakkurot primaverili…”.
Facendo smorfie per lo sforzo, Pilato strizzava gli occhi, leggeva: “Vedremo il fiume limpido dell’acqua della vita… L’umanità guarderà il sole attraverso un diafano cristallo…”.
Qui Pilato trasalì. Nelle ultime righe della pergamena aveva decifrato le parole: “…vizio più grande… la viltà”.
Pilato arrotolò la pergamena e con un gesto brusco la porse a Levi.
– Prendi, – disse, e dopo una pausa aggiunse: – A quanto vedo sei un uomo di lettere, e non dovresti andartene in giro da solo, vestito come un mendico, senza un tetto. A Cesarea ho una grande biblioteca, io sono molto ricco e voglio prenderti al mio servizio. Riordinerai e conserverai i papiri, sarai sazio e ben vestito.
Levi si alzò e rispose: – No, non voglio.
– Perché? – chiese il procuratore rabbuiandosi, – non ti piaccio, hai paura di me?
Lo stesso sorriso cattivo deformò il viso di Levi, ed egli disse:
– No, perché tu avrai paura di me. Non ti sarà così facile guardarmi in faccia dopo averlo ucciso.
– Taci, – rispose Pilato, – prendi questo denaro.
Levi scosse negativamente il capo, e il procuratore continuò:
– So che ti consideri un discepolo di Yehōšua’, ma ti dico che non hai imparato nulla di quello che lui ti ha insegnato. Perché se così non fosse, accetteresti senz’altro qualcosa da me. Sappi che prima di morire ha detto che non accusava nessuno. – Pilato alzò significativamente il dito, il viso di Pilato era contratto da un tic. – E lui stesso avrebbe senza dubbio accettato qualcosa. Tu sei crudele, mentre lui non era crudele. Dove andrai?
Levi si avvicinò d’un tratto al tavolo, vi si appoggiò con entrambe le mani, e guardando con occhi ardenti il procuratore gli sussurrò:
– Tu, egemone, sappi che a Yerūšālayim ammazzerò un uomo. Voglio dirtelo perché tu sappia che ci sarà altro sangue.
– Anch’io so che ce ne sarà ancora, – rispose Pilato, – le tue parole non mi hanno sorpreso. Tu, naturalmente, vuoi uccidere me?
– Non riuscirei mai a uccidere te, – rispose Levi, scoprendo i denti in un sorriso, – non sono tanto stupido da contarci, ma ammazzerò Giuda di Qerīyot, a questo dedicherò la vita che mi resta.
Allora gli occhi del procuratore si riempirono di delizia, ed egli attirò a sé col dito Levi Matteo, dicendogli:
– Non riuscirai a farlo, non devi scomodarti. Giuda è stato già ucciso stanotte.
Levi si allontanò di scatto dal tavolo, guardandosi intorno con occhi selvaggi, e gridò:
– Chi è stato?
– Non essere geloso, – rispose Pilato digrignando i denti, e si fregò le mani, – temo avesse altri ammiratori, oltre a te.
– Chi è stato? – ripeté Levi in un sussurro.
Pilato gli rispose:
– Sono stato io.
Levi aprì la bocca, guardò selvaggiamente il procuratore, e questi disse:
– Questo naturalmente non è molto, e tuttavia l’ho fatto io. E aggiunse: – Be’, adesso accetterai qualcosa?
Levi rifletté, si addolcì un po’ e infine disse:
– Ordina che mi diano un pezzetto di pergamena nuova» (353-356).

La conclusione della vicenda di ponzio Pilato è indissolubilmente legata alla conclusione della vicenda del suo narratore, il Maestro, di cui ci occuperemo nella seconda parte, spostando quindi l’attenzione dal mito cristiano al mito faustiano, e concludendo con il loro incontro.

In copertina: illustrazione di Andrey Kharshak.

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