Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter – Terza parte, capitolo terzo

Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento

Come abbiamo visto nel primo capitolo di questa terza ed ultima parte, parlando della distinzione tra parola scritta e parola parlata, per Michelstaedter «Ogni cosa scritta già ferma arbitrariamente i concetti, mentre solo nell’incontro di due individui nasce e s’afferma il valore individuale» [279]. Come ha rilevato Muzzioli [280], è quanto avviene tra Rico e Nino nel Dialogo della salute.

Proprio in apertura del Dialogo della salute, il socratico Rico sottolinea i benefici della comunicazione.

Rico. Bene! io ammiro come ciò che dici tu assomigli così a ciò ch’io vedo, che mentre parli parmi quasi parlar io per tua bocca: e come uno per ciò che con le mani o con l’orecchio avverte si fa più sicuro di ciò che appare all’occhio, così io trovo nelle tue parole la riprova di ciò ch’io ho sempre creduto capire pur non essendo sicuro del mio possesso. – Ma per Dio, ora che ho assaporato questa gioia io non ti lascerò finché non avrò vuota la coppa. Poiché che mi giova ch’esso sia in parte sicuro del mio possesso se non è in tutto? Per piccola che sia l’apertura ci sfugge il nostro comune possesso, ed io mi sento nuovamente vuoto ora e mi pare che quanto io t’ho detto e quanto tu m’hai detto, sia tutto inutile perché non è tutto. Non senti anche tu questo?
Nino. Sì anch’io lo sento. –
Rico. In ciò che tu hai detto c’è pur sempre qualche cosa di diverso da quanto io dicevo; e io non posso a meno di sentir tutto quanto hai detto come contrario a me per quanto tu abbia detto cose simili a quanto io penso. Via! poniamo qui insieme tutto ciò che ci par giusto e cerchiamo di renderlo tutto identico, ché né io avrei più pace senza questo, ma mi sembrerebbe d’esser diverso da me stesso, anzi a me stesso contrario – né tu – com’io credo [281].

Sono pagine che confermano ulteriormente l’importanza riservata da Michelstaedter alla parola parlata rispetto alla parola scritta, in perfetto accordo con il passo delle Appendici critiche sopracitato. A Rico la conversazione con il caro amico Nino procura addirittura «gioia», e l’obiettivo è rendere «identico» il pensiero dei due interlocutori, giungendo ad un’ideale concordia filosofica. Ma così non avviene, e nella prima stesura della conclusione del Dialogo della salute, contrariamente alle esaltanti aspettative, Rico giunge a decretare il fallimento di quella stessa conversazione tanto elogiata in apertura.

Rico. Povero Nino mio. Lo so bene che tu lo riconosci giusto e vorresti anche esserne persuaso: è tutto inutile; chi ha fame ha bisogno del pane – e nient’altro può saziarlo: io se lo avessi te l’avrei già dato – ma chi non l’ha non può darlo al suo compagno. Che se ci fosse il pane per la nostra fame, un solo pane sazierebbe tutta l’umanità – e non credo che si parlerebbe molto [282]. Noi invece parliamo per fame, cerchiamo affannosamente con le nostre parole, fuori, l’appoggio che dentro ci manca. – E gridiamo nel deserto! Ma male incolpiamo gli altri d’esser per noi come un deserto, male accusiamo l’impotenza dei mezzi coi quali comunichiamo. In verità dobbiamo accusar noi stessi che siamo deserti, che non possiamo dare ragione di noi… poiché viventi non l’abbiamo; ma ognuno vive e vuole ed è certo della sua vita ma non sa a che viva né perché si voglia quello che vuole. Se anche tu non trovi che cosa trovar ingiusto in quanto io prima ho detto, né, credo, lo cerchi – come però potresti adattarti a sentirlo giusto per te, ed esser soddisfatto s’io predicando la salute, niente di sano ho detto e niente di vitale, se non ho potuto dir la parola che ti rigeneri, ma solo ho tagliato, e ho distrutto? A questo punto, Nino, se non fossimo snaturati dalla cultura dalla scienza e dalla storia, se non fossimo inaciditi dal dogma dello scetticismo, e della «moderna libertà», io ti parlerei di Dio e della vera vita: sopporterei i miei argomenti negativi con la folle speranza d’un’eterna felicità per chi ha seguito la via della salute – una felicità da godere – quando non ne avremo più, se dio vuole, alcun bisogno. – No, io non ti parlo di ciò, né so rompere la nebbia col lampo del miracolo – no, dio non è con me – non è con nessuno più – io sono solo, e niente so e niente posso – questo vedo soltanto, che gli uomini sono illusi e ammalati, e sperano, invano, travagliati da ogni bizzarra forma d’idolatria, sacrificandosi a vicenda ai loro feticci, vittime tutti e sacrificatori – vedo che la felicità è una vana parola e la vita una dura necessità per ogni nato: onde la libertà e la tranquillità stanno nel nulla chiedere, la dignità e l’oblio nel tutto dare, e la via della salute porta attraverso l’attività all’inerzia: […] ma ognuno deve trovarsi la via da sé – e da sé batterla passo per passo – ché non ci sono né carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla , di volerla fare, non è buono a farla e invano spera l’aiuto altrui, invano altri vorrebbe aiutarlo – la può batter colui che già è sano – e la salute è un dono di Dio. – [283]

In queste pagine Michelstaedter sancisce l’insufficienza anche della parola parlata, della «viva parola», e della parola in generale, decretando il fallimento della comunicazione e di tutto il linguaggio.

Del resto, tutta questa prima stesura della conclusione del Dialogo della salute è segnata da un fosco pessimismo. Le stesse parole finali di Rico – «la salute è un dono di Dio» -, con l’invocazione di Nino – «che Iddio ci dia la salute!» [284] -, ne sono una evidente conferma. La salute dipende – irrevocabilmente – da una forza esterna, peraltro estinta («[…] no, dio non è con me – non è con nessuno più […]») – di cui l’individuo è in balia [285]. E la seconda stesura della conclusione del Dialogo della salute, quella, diciamo così, definitiva, non rischiara le cose, anzi, le offusca ancor di più, con Rico che certifica il fallimento delle proprie convinzioni nel rapporto con i familiari [286] ed infine leva il suo elogio alla «bella morte». Michelstaedter sprofonda ancora più in basso, nel buio più oscuro, nel nichilismo.

Note

[279] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 246.

[280] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 50-51.

[281] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 32.

[282] Le parole di Rico, con il successivo riferimento al deserto, rimandano ovviamente a Cristo. E trovo una certa somiglianza tra quanto dice Rico e quanto pronuncia il Grande Inquisitore dostoevskiano a Cristo durante il loro memorabile incontro. Più in generale, credo sia possibile rintracciare notevoli affinità tra queste pagine straordinarie de I fratelli Karamazov ed il pensiero di Michelstaedter. Leggiamo.
«Giudica Tu stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la prima domanda; anche se non proprio alla lettera, il senso tuttavia era questo: ‘Tu vuoi andare e vai nel mondo a mani vuote, con non so quale promessa di libertà, che l’uomo, nella semplicità e nella innata intemperanza che gli appartiene, non può neanche arrivare a concepire, ma teme e rifugge, poiché per l’uomo e per la società umana nulla mai è stato più intollerabile della libertà! Vedi invece queste pietre in questo nudo e infuocato deserto? Mutale in pani e l’umanità Ti seguirà come un gregge docile e riconoscente, nell’eterna paura che Tu possa ritirare la mano per privarla dei Tuoi pani’. Ma Tu non volesti privare l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché – tale era il Tuo ragionamento – che libertà può mai esserci, se l’ubbidienza è comprata con i pani? Tu rispondesti che non vive di solo pane l’uomo: ma sai che nel nome di questo stesso pane terreno lo spirito della terra insorgerà contro di Te e lotterà con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, esclamando: ‘Chi è comparabile a questa bestia? Essa ci ha dato il fuoco del cielo’? Sai che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della tua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? ‘Nutrili e poi chiedi loro la virtù!’. Ecco cosa verrà scritto sul vessillo che si leverà contro di Te e che abbatterà il Tuo tempio. Al posto del Tuo tempio sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova spaventosa torre di Babele, e anche qualora essa restasse – come la prima – incompiuta, tuttavia ne avresti potuto evitare la costruzione e abbreviare di mille anni le sofferenze degli uomini, poiché essi torneranno a noi, dopo essersi arrovellati per mille anni intorno alla loro torre! Torneranno quindi a cercarci sotto terra, nelle catacombe, dove avremo trovato rifugio (perché nuovamente perseguitati e torturati), ci troveranno e ci grideranno: ‘Nutriteci, perché coloro che ci avevano promesso il fuoco del cielo non ce l’hanno dato’. E allora saremo noi a ultimare la loro torre, poiché la porterà a termine chi li sfamerà e solo noi li sfameremo, in Tuo nome, facendo credere di farlo in Tuo nome. Oh mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane finché rimarranno liberi, ma essi finiranno col deporre la loro libertà ai nostri piedi dicendo: ‘Riduceteci piuttosto in schiavitù, ma sfamateci!’.
Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono tra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo tra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu promettevi loro il pane celeste, ma – lo ripeto ancora – esso potrà mai, agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa e abietta, essere paragonato a quello terreno? E se migliaia e diecine di migliaia di esseri Ti seguiranno in nome del pane celeste, che ne sarà dei milioni, dei miliardi di esseri che non avranno la forza di subordinare il pane terreno a quello celeste? O forse Ti sono care soltanto le decine di migliaia di uomini grandi e forti, mentre i restanti milioni di esseri deboli – numerosi come la sabbia del mare, e che però Ti amano – non devono servire che da materiale per i grandi e forti? No, a noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno col diventare docili. Essi ci ammireranno e ci riterranno degli dèi, perché assumendoci il loro comando abbiamo accettato di sopportare il peso di quella libertà che li aveva sbigottiti e di porli sotto il nostro dominio: tanta sarà la paura che avranno di essere liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in Tuo nome. Li inganneremo di nuovo, perché così non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in questo inganno risiederà il nostro cordoglio, poiché saremo costretti a mentire. Ecco cosa significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco cosa hai rinnegato in nome della libertà, da Te collocata al di sopra di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna inquietudine dell’uomo, dell’individuo come dell’umanità intera: ‘Di fronte a chi prostrarsi?’. Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il ricercare al più presto un essere al quale prostrarsi». Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. it. di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2011, pp. 263-265.

[283] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 92-94.

[284] Ivi, p. 94.

[285] Come Nietzsche e come Philipp Mainländer (1841-1876), dal quale lo stesso filosofo di Röcken trasse ispirazione, anche Michelstaedter decreta la morte di Dio. E se in Nietzsche è stato l’uomo stesso ad ucciderlo, mentre in Mainländer si è suicidato, nel goriziano «è morto di noia», come si legge in almeno un paio di appunti. Cfr. Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 776 e 778.

[286] «Rico. Io sì, io, che ambulavo per le vie e per i monti con l’uno o l’altro degli amici e parlavo della virtù e della fermezza, e del coraggio, e della “vanità del tutto”, e della vita e della morte – e poi consegnavo uno scappellotto quanto mai profondo e filosofico a mio fratello se ardiva di turbar la pace del mio santuario dove io fabbricavo la saggezza – a chiuder la porta in faccia alla mamma… Mia mamma taceva – alle volte piangeva; – mio fratello una volta invece di protestare rumorosamente – si irrigidì – strinse i pugni e s’avviò senza dir parola; lo raggiunsi, lo guardai e gli vidi nella faccia contratta una tale ribellione sorda, un tale odio, negli occhi torvi una tale fiamma disperata, che atterrito lo presi, feci per abbracciarlo – ma egli si svincolò con ripugnanza. – Ah, le lacrime ch’egli non aveva pianto io le piansi! Che giova, che giova! Libertà! Giustizia! Imperturbabilità! Quando uno è schiavo d’una porta che s’apre – e con la mano che ha fatto i grandi gesti per arrotondare le grandi frasi, schiaffeggia un bambino per difender “la pace dei propri pensieri”, per poter “pensare” avanti, – nell’impotenza cieca della pace perduta. – E nota! su mio fratello applicavo naturalmente teorie educative. – E poi, appena fatto accorto dell’infame ingiustizia – il primo gesto: accattarmi con una carezza il perdono di mio fratello. Nel terrore per aver visto in tale specchio la vanità delle mie parole, la nullità della mia persona – aggrapparmi al primo appoggio, sperar col facile atto, dalla condiscendenza debole d’un bambino, il conforto che mi mettesse il cuore in pace. Vigliacco! E poi – riconosciuta anche questa viltà per la fermezza di lui – la corona del dramma: le lacrime. Lo vedi quel mucchio di carne in sussulto che si scioglie in lacrime? quello è il filosofo! – Nausea! Nausea!» (Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 82-84). La vicenda di Rico riflette quella dello stesso Michelstaedter, e allo scacco del rapporto con i familiari si aggiunga lo scacco del rapporto con la donna amata, come emerge dalla settima ed ultima delle poesie che formano il canzoniere A Senia. Già ne La persuasione e la rettorica il goriziano sancisce il fallimento di ogni relazione amorosa – «Né se l’uomo cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama – egli potrà saziar la sua fame: non baci, non amplessi o quante altre dimostrazioni l’amore inventi li potranno compenetrare l’uno nell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro. -» (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 41) -, ma nondimeno tenta, spinto dal forte sentimento che lo lega ad Argia Cassini, ribattezza l’amata con il nome mitico di Senia – in questo caso la risemantizzazione riguarda anche le persone -, ma fallimentare, inevitabilmente fallimentare è l’esito: «Parlarti? e pria che tolta per la vita / mi sii, del tutto prenderti? – che giova? / che giova, se del tutto io t’ho perduta / quando mia tu non fosti il giorno stesso / che c’incontrammo? Che se pur t’avessi / ora, vincendo, mia per il futuro, / mia per diritto, mia per tuo volere, / mia non saresti più che non sei ora, / mia non saresti più che s’altra mano / ti possedesse. Che pur del mio corpo / sarei geloso come or son d’altrui. / Non più sarei per te la vita intera / ch’ora non sono, se già in me non l’ami: / ma se in me non l’ami, se tua vita / crear non so della mia vita stessa, / che più giova sperar, che più volere, / che mi giova la vita e il mio dolore / e questo amor lontano e disperato? / Fatto sono da me stesso diverso / che contra il fato mi dicevo forte, / poiché ho esperta e ancor vivo ad ogni istante / nella tua indifferenza la mia morte. / Né più mi giova mendicare i giorni / né chieder altro più dal dio nemico, / se non che faccia mia morte finita» (Carlo Michelstaedter, A Senia, VII, in Carlo Michelstaedter, Poesie, op. cit., pp. 95-96).

Il piano dell’opera

Introduzione

Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole

Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice

Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento

Conclusione

Bibliografia

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