Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter – Terza parte, capitolo secondo

Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj

La volontaria postumità [260] è tra gli aspetti che più contribuiscono a rendere straordinaria l’esperienza filosofico-letteraria di Carlo Michelstaedter. La persuasione e la rettorica e Il dialogo della salute, citando le due opere più note e significative, vengono alla luce dopo la morte del goriziano, grazie all’impegno degli amici fiorentini Vladimiro Arangio-Ruiz e Gaetano Chiavacci.

Tre soli articoli di Michelstaedter vengono pubblicati quando egli è in vita, tutti sulle colonne del «Corriere friulano»: Reminiscenze dei funerali di Carducci – Impressioni – La veglia alla salma [261] nel 1907 – peraltro a sua insaputa -, “Più che l’amore” di Gabriele D’Annunzio al Teatro di Società – sottoposto senza successo al «Marzocco» – e Tolstoi, entrambi nel 1908. Tralasciando le riflessioni sulle esequie di Carducci, credo sia utile, in un discorso dedicato all’insufficienza della parola, soffermarsi sulla recensione al dramma dannunziano e sull’omaggio al grande scrittore russo in occasione dei suoi ottant’anni, perché in questi articoli è possibile ritrovare delle tracce, più o meno evidenti, di quegli aspetti del pensiero michelstaedteriano evidenziati nel capitolo precedente: la distinzione tra parola scritta e parola parlata, con la predilezione per la «viva parola del filosofo» e per la dialettica. Riguardo quest’ultimo punto, nella critica a Più che l’amore, il goriziano imputa a D’Annunzio proprio l’incapacità di pervenire ad uno sviluppo dialettico, incapacità che lo conduce dritto alla «rettorica».

Questa l’antitesi filosofica a cui risale il problema di Più che l’amore. – E se noi ne chiediamo al dramma la soluzione e lo sviluppo dialettico, dobbiamo dire che misera cosa ha fatto Gabriele D’Annunzio. Si può dir quasi che nei lunghi dialoghi trova svolgimento soltanto la tesi individualistica, l’antitesi è debole ed incoerente: Gabriele D’Annunzio non l’ha vista la situazione filosofica, non l’ha dominata. Egli ha assorbito le idee ultramontane sommariamente ed ha dato loro uno svolgimento rettorico, che non ha alcuna profondità, che scivola e sorvola come un pallone sgonfio.
Ed è perciò che egli non ha saputo rappresentare la lotta fatale tra Corrado Brando e l’ambiente morale; perciò non ci ha dato né l’eroe bello di una volontà trascendente, l’eroe che tale si riveli in ogni atto, né l’ambiente, che gravi su di lui col suo peso inerte, forte della sua meschinità costituita a codice, meschino sì, ma saldo e sicuro nei suoi principi, fornito delle caratteristiche della finitezza morale. Ha ridotto l’uno e l’altro a una meschina questione di denaro risoluta in brutto delitto [262].

Michelstaedter sembra pretendere da D’Annunzio lo stesso risultato ottenuto da Dostoevskij in Delitto e castigo. Ma D’Annunzio non è Dostoevskij e il goriziano lo sa, come vedremo più avanti.

Un altro aspetto che a Michelstaedter proprio non va giù è il superomismo. Questo permette di comprendere quanto nel suo giudizio negativo su Nietzsche abbia influito la semplicistica e fuorviante – in una sola parola: catastrofica – mediazione dannunziana [263].

Gli è che D’Annunzio è troppo perduto nell’ammirazione per il suo superuomo per potergli far vivere accanto una forte coscienza che sappia affermarsi diversa da lui, e sappia resistergli […] [264].

E ancora:

[…] Gabriele D’Annunzio levò con Più che l’amore un bel carme lirico al «superuomo» [265].

Rilevante è anche il ricorso a Socrate, al quale Michelstaedter in questo articolo dona la parola – ricorrendo proprio al discorso diretto – per criticare ancora una volta il mancato sviluppo dialettico del dramma dannunziano.

«Perché – ripeterebbe a D’Annunzio col suo risolino ironico il vecchio Socrate – o le situazioni sono diverse perché diverso è il nesso in cui si trovano, e allora vanno giudicate ognuna per sé; o sono uguali, e allora non vale appellarsi all’altra, perché anche contro quella valgono le stesse ragioni». E direbbe bene [266].

Anche Michelstaedter, come molti altri scrittori della sua generazione (e si pensi nuovamente a Gozzano), passa per il dannunziano tirocinio – come dimostra la lettera a Iolanda de Blasi del 25 aprile 1907 [267] -, per poi allontanarsene. In tal senso, la recensione a Più che l’amore segna il definitivo distacco del goriziano da D’Annunzio. È quanto rileva Pieri.

Il distacco da D’Annunzio diventa radicale quando Michelstaedter accerta che Più che l’amore veicola un falso concetto di tragedia. L’autore, infatti, non ha munito il protagonista di una autentica coscienza tragica. Brando non rappresenta una figura d’eroe, consapevole della gravità della propria colpa, e tuttavia deciso a lottare contro il giudizio espresso dai rappresentanti della morale. […] Brando non è il serio detentore di una vita superiore ma è l’effetto letterario di un narcisismo estetico in costante rito autocelebratorio. Non è una personalità etica ma un sintomo egotista mobilitato a soddisfare una miscela ibrida di compiaciute esigenze drammaturgiche. D’Annunzio spesso non disdegna d’impersonare una figura di nichilista che interpreta tuttavia con la magnificenza stilistica del letterato puro. Più letterario che culturalmente trasgressivo, il suo nietzscheanesimo, a metà fra il plagio e la ripetizione, appare ormai estraneo all’intellettuale goriziano. Secondo Michelstaedter, ciò che determina la natura tragica dell’eroe non giunge mai ad interessare seriamente il drammaturgo. […] Brando non costituisce il simbolo ideale dell’eroe in conflitto col mondo circostante per la propria redenzione e per quella dell’umanità: «Nel concetto dell’uomo è racchiusa la potenzialità e la necessità dell’ambiente sociale – e il suo progresso è un divenire verso l’ideale del bene – di ciò che è bene per tutti» [268].

Completamente diverso è il caso dell’articolo Tolstoi, in cui Michelstaedter si lancia in un vibrante e suggestivo elogio del grande scrittore russo meritevole di essere integralmente riproposto.

Dalle masse oscure degli umili, oppressi dalla grave macchina di tutte le istituzioni civili dell’impero russo, dalle file dei martiri che dànno l’ingegno e la vita per scuoterne la compagine, da ogni città e da ogni borgo dell’impero sterminato, sale una parola d’affetto e di commozione in questi giorni a onorare il poeta e l’apostolo del popolo, a onorare Leone Tolstoi. E questo amore, che unisce e solleva il popolo russo, cinge intorno al capo del vecchio un’aureola di splendore ideale. Infatti quale altro premio poteva egli desiderare per sé se non questa unanime corrispondenza di affetto all’inesauribile tesoro d’amore che egli ha dato ai suoi fratelli russi, ai suoi fratelli di tutta la terra? Leone Tolstoi compì in questi giorni ottanta anni – questo è un fatto che i documenti provano e che interessa la storia; ma io vedo il vecchio possente con la candida barba e i capelli agitati dal vento e la faccia volta al sole, ritto e solo in mezzo alla pianura sterminata, e mi chiedo se quest’uomo può avere un’età, se quella sua forza sempre uguale di evoluzione verso un ideale lontano, quel suo «divenire» morale non costituiscano una giovinezza più durevole che ogni più reale giovinezza.
Guardiamo intorno a noi: da ogni parte la moltitudine degli «arrivati», di coloro che si trovano sulla «retta via che conduce – come dice Tolstoi – a un utile sicuro», di coloro cui l’abitudine degli altri è la coscienza morale, cui è criterio di ragionamento un esempio tratto dalla propria o dall’altrui esperienza, cui è scopo nella vita la vita stessa. Costoro sono vecchi prima che il corpo arrivi al completo sviluppo della piena giovinezza, sono vecchi perché la loro anima cristallizzata non osa più guardare innanzi a sé, sono vecchi perché il peso del loro ottimismo li costringe alla forma di vita acquisita come la fame costringe il ragno a girar ventiquattro volte intorno al centro per far la tela nel suo angolo polveroso.
Di fronte a questi Tolstoi, che non desistette mai dalla fatica intellettuale per armonizzare in una più vasta visione ogni elemento della vita all’ideale dell’amore universale, che poi non desistette mai dalla fatica morale di ridurre la sua vita alla forma che questa visione gli imponeva, è giovane d’una giovinezza immortale. Giovane è tutto ciò che diviene; vecchio non solo ma morto è ciò che è già divenuto. Guardiamo intorno a noi: noi viviamo in un mondo di cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri.
Tutta la vita di Leone Tolstoi non è che una lenta e faticosa evoluzione dall’uomo assiepato dai principi di classe, circondato da seduzioni e attrattive mondane d’ogni genere – all’«uomo», all’uomo libero nel suo unico amore verso tutta l’umanità, libero nella ferma volontà di non aver bisogno delle fatiche degli altri; così vive Tolstoi perché così nella sua ininterrotta speculazione filosofica è giunto ad affermare che l’uomo deve vivere. Soltanto tra gli antichi filosofi della Grecia si ritrova questa uniformità fra pensiero e vita. E uno di questi tende la mano al filosofo russo per la impressionante affinità delle idee: Diogene. Ma mentre questi è rimasto nella memoria dei secoli soprattutto come uomo bizzarro e ridicolo, Tolstoi ha trascinato e vinto questa società moderna così scettica e così proclive alla caricatura.
Perché egli ci ha fatto vivere la sua vita e il suo pensiero nei suoi romanzi e si è rivelato a noi filosofo ed apostolo soltanto in quanto è stato artista. Dall’Anna Karenina alla Resurrezione c’è tutta la sua intima resurrezione; e l’ultimo gesto del Tolstoi, che egli ha compiuto perché «ha dovuto» compierlo in omaggio alle sue idee, il gesto che poteva costargli la vita, l’articolo fremente contro le condanne a morte, non è che l’ultimo capitolo che chiude la serie dei suoi romanzi. Come in ognuno degli uomini veramente grandi, nel Tolstoi arte, vita e pensiero sono un tutto inscindibile.
Certo che quanto all’indirizzo del romanzo, non è suo, ma è in generale l’indirizzo del romanzo russo. È romanzo realistico senza esser una serie di fotografie come buona parte dei così detti romanzi realistici francesi e italiani, è romanzo psicologico senza essere una raccolta di piccole osservazioni di psicologia corrente o peggio ancora di psicologia raffinata, la quale – come il Mirbeau fa dire a Paul Bourget di se stesso nel Journal d’une femme de chambre – non conosce che le anime che vanno in marsina e in abito scollato.
E ciò perché osservazione e rappresentazione d’ambiente e d’anime nei romanzi di Tolstoi non è fine a se stessa, ma è elemento alla rappresentazione d’un lato della vita di queste anime in questi ambienti; d’un lato lumeggiato fortemente da un forte pensiero che lo domina e per cui ogni dettaglio acquista un più profondo significato, per cui tutte le parti concorrono a formare una sola e più vasta concezione artistica. Perciò quasi tutti i romanzi di Tolstoi e di Dostoiewskj e buona parte di quelli di Puschkin e del Gogol vanno considerati come unità artistiche, mentre il romanzo latino è spesso anche nei migliori autori un agglomerato di belle pagine unite soltanto dal filo del racconto.
C’è un’evoluzione nell’arte del Tolstoi. Dall’arte esuberante dei primi romanzi all’arte sobria degli ultimi c’è quel caratteristico processo di purificazione che avviene negli uomini di pensiero. Quanto più il pensiero s’approfondisce, tanto meno l’arte divaga in rappresentazioni inutili, ma incide forme classiche in rapporto a un’intuizione più vasta e più perfetta. – Esempio tipico di questa evoluzione è nell’arte contemporanea il teatro di Ibsen; dalla Commedia dell’amore, dalla Festa a Solhaug, ecc. a Hedda Gabler, Rosmersholm, ecc. Certo che mentre qui il cambiamento è evidente, nei romanzi tolstoiani non appare a prima vista. E la differenza dipende dalla diversa concezione etica. Ibsen vuole dall’uomo che egli sappia rompere la cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua verità, che sappia farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in lui ed educare la volontà alla lotta. Il processo psicologico può risolversi così con pochi individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli ultimi drammi ibseniani.
Tolstoi non chiede all’uomo la lotta ma la devozione; egli deve saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonare del tutto il sistema di vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare se stesso a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la macchina sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce sulle classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. È quindi necessaria la rappresentazione viva della società nel suo complesso.
Ora questo si ritrova tanto nei primi quanto negli ultimi romanzi del Tolstoi. Ma nei primi questa rappresentazione è multiforme, è più lenta, e pur mantenendo la sua unità si compiace di dare i diversi aspetti delle cose e molte cose in diversi aspetti, negli ultimi – e penso specialmente alla Resurrezione – tutto il mondo vive soltanto per quel che riguarda il processo psicologico di un’anima. – Non a caso vien fatto di pensare a Ibsen parlando di Tolstoi. – Nella letteratura internazionale contemporanea, mentre l’arte scende ovunque alla ricerca del dettaglio – da Oscar Wilde a Gabriele D’Annunzio – Ibsen e Tolstoi emergono dalla folla perché non s’accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima, ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. – Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le gridarono in faccia: verità! verità!
Già da tempo il corpo stanco del vecchio poeta scandinavo dorme nella sua terra gelida. – Ma Leone Tolstoi è vivo ancora e robusto: con gioia commossa noi miriamo il pensatore ottantenne nella sua solitudine laboriosa, e con l’animo sospeso aspettiamo da lui ancora la parola che c’infiammi contro tutto ciò che è falso e meschino. – Parla o «vegliardo divino», parla la parola di pace e d’amore, «canta al mondo aspettante giustizia e libertà» [269].

Da una parte gli «arrivati», interessati solo ed esclusivamente all’«utile sicuro», la cui «coscienza morale» non è che «l’abitudine degli altri», «vecchi prima che il corpo arrivi al completo sviluppo della piena giovinezza», o meglio, «cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri»; dall’altra Lev Tolstoj, «l’apostolo del popolo» dedito «all’ideale dell’amore universale», «giovane d’una giovinezza immortale», che trascina e vince «questa società moderna così scettica e così proclive alla caricatura». È dunque – anche se indirettamente, anche se in termini differenti – sull’opposizione fondamentale e fondante del pensiero michelstaedteriano, «persuasione» contro «rettorica», che si basa questo articolo, questa pietra miliare della critica tolstoiana in Italia.

«Giovane è tutto ciò che diviene», l’esistenza di Tolstoj «non è che una lenta e faticosa evoluzione dell’uomo assiepato dai principi di classe, circondato da seduzioni e attrattive mondane d’ogni genere – all'”uomo”, all’uomo libero nel suo unico amore verso tutta l’umanità, libero nella ferma volontà di non aver bisogno delle fatiche degli altri», e poiché ciò che rende tanto grande Tolstoj è l’unione di «arte, vita e pensiero» – una delle caratteristiche principali del persuaso, e si ricordi l’accostamento del grande scrittore russo agli antichi filosofi greci -, tale «evoluzione» si riproduce anche nell’attività letteraria: «Dall’arte esuberante dei primi romanzi all’arte sobria degli ultimi c’è quel caratteristico processo di purificazione che avviene negli uomini di pensiero. Quanto più il pensiero s’approfondisce, tanto meno l’arte divaga in rappresentazioni inutili, ma incide forme classiche in rapporto a un’intuizione più vasta e più perfetta». In queste poche righe Michelstaedter coglie il senso più profondo della differenza tra il Tolstoj pre e post 1881, tra il Tolstoj autore di Guerra e pace ed Anna Karenina ed il Tolstoj autore de La morte di Ivan Il’ič, della Sonata a Kreutzer, di Resurrezione e di Padre Sergij, quello più profondo ed universale, quello che, personalmente, in accordo con il goriziano, apprezzo di più.

Michelstaedter avvicina Tolstoj ad un altro autore da lui amatissimo, Henrik Ibsen [270], sottolineandone però la differente «concezione etica». La letteratura di Ibsen si caratterizza per l’impulso vitalistico, battagliero; il drammaturgo norvegese «vuole dall’uomo che egli sappia rompere la cerchia di menzogne che lo stringe, che sappia volere la sua verità, che sappia farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in lui ed educare la volontà alla lotta». Tolstoj invece «non chiede all’uomo la lotta ma la devozione; egli deve saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il sistema di vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare se stesso a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la macchina sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce sulle classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando». Così, mentre in Ibsen il «processo psicologico può risolversi […] con pochi individui rappresentativi o simbolici», in Tolstoj è «necessaria la rappresentazione viva della società nel suo complesso».

Tolstoj non fa letteratura a sé, l’indirizzo «del romanzo non è suo, ma è in generale l’indirizzo del romanzo russo», di cui Michelstaedter sottolinea la netta superiorità rispetto al romanzo realista francese ed italiano. I romanzi di Tolstoj e Dostoevskij, soprattutto, ma anche di Puškin e Gogol’, sono «unità artistiche», ed è questo a distinguerli dal «romanzo latino», che anche negli autori migliori è spesso «un agglomerato di belle pagine unite soltanto dal filo del racconto». In particolar modo, tale unità artistica è legata al dettaglio, che nei romanzi di Tolstoj, e nel romanzo russo in generale, non è mai fine a se stesso, ma «acquista un più profondo significato, per cui tutte le parti concorrono a formare una sola e più vasta concezione artistica». Scrive Michelstaedter in un appunto su Resurrezione, l’ultimo romanzo di Tolstoj:

Quando in contrasto alla Màslova imprigionata Tolstoi ci mette davanti Nekliudoff, il suo lusso, il suo ambiente signorile, la toilette raffinata, ci avverte subito che è N. il seduttore della M. e con ciò la prima ragione della caduta di lei. Egli conferisce così a ogni dettaglio della descrizione un significato, una risonanza quasi più profonda, rinunciando alla meschinità del colpo di scena dell’inaspettato. Mentre in quel caso il lettore avrebbe prima un godimento artistico per la descrizione dell’abbigliamento di un giovine di mondo, poi il godimento artistico del drammatico riconoscimento, ora è messo dall’avvertimento semplice, che il principe è lui il seduttore, nella posizione di esercitare un commento morale a ogni parte della descrizione, e questo elemento morale unisce i due elementi staccati della descrizione e del riconoscimento in un solo e più profondo godimento artistico [271].

Dopo aver contrapposto il romanzo russo al romanzo realista francese ed italiano Michelstaedter, in conclusione dell’articolo, contrappone Tolstoj ed Ibsen alla «letteratura internazionale contemporanea», la letteratura decadente e simbolista, che annovera tra i suoi maggiori esponenti Oscar Wilde e Gabriele D’Annunzio. Rispetto a questi ultimi Tolstoj ed Ibsen si contraddistinguono per la profondità, profondità dalla quale sanno ricavare «la nota più alta», fino a prendere «pel petto questa società soffocata dalle menzogne» e gridarle dritto in faccia: «verità! verità!». Ecco cosa pretende Michelstaedter dalla letteratura, non che essa esprima le sensazioni superficiali dell’anima, come fanno Wilde e D’Annunzio, ma che ne scruti le abissali profondità. Michelstaedter esige un impegno etico totale, senza riserve. Il pensatore-scrittore non deve divertire il lettore, ma costringerlo alla contemplazione [272].

Ora, il grido «verità! verità!» rimanda direttamente alla distinzione tra parola scritta e parola parlata, con l’insufficienza della prima rispetto alla seconda, evidenziata nel capitolo precedente. Lo sottolinea Muzzioli, in relazione alla predilezione di Michelstaedter per la musica e alla sua sconfinata ammirazione per Beethoven.

Si trattava soprattutto, per Michelstaedter, di individuare una forma artistica in cui fossero stretti unitariamente soggetto, enunciazione e enunciato. Non a caso egli usa, a proposito di Tolstoj e Ibsen, il verbo “gridare”; e lo stesso verbo adopera a caratterizzare il suo proprio tentativo: “gridare sulla carta le parole della verità quanto e fin dove avevo voce”. “Gridare sulla carta” significa appunto trasferire nello scritto la prorompenza diretta e immediata dell’orale. Ancora nella prefazione alla Persuasione l’immagine del rigurgito (“se uno ha addentato una perfida sorba la risputi”), rimanda non solo alla “nausea” – come se il linguaggio fosse un corpo estraneo da espellere – ma anche all’emissione violenta e improrogabile. La parola ‘sputata’ è quella che fa tutt’uno con l’attualità vitale del soggetto [273].

L’articolo Tolstoi, come anche l’articolo “Più che l’amore” di Gabriele D’Annunzio al Teatro di Società, costituisce una sorta di esame di coscienza di Michelstaedter, rappresentando un momento di svolta all’interno della sua esperienza filosofico-letteraria.

Lo scritto su Tolstoj (con gli illuminanti rinvii ad Ibsen […]) presuppone […] un esame di coscienza sulla giovanile stagione venata di dannunzianesimo, e mostra come l’autore, deposta ormai la residua indulgenza al facile estetismo, nonché alle pericolose implicazioni amoralistiche legate a quella fase, abbia maturato il suo naturale spirito stürmisch nel senso eroico-etico che è intrinseco all’ideale della “persuasione” [274].

Inoltre, questi due articoli costituiscono un’ulteriore prova di quanto Michelstaedter fosse legato al proprio tempo, contrariamente a quanto è stato sostenuto dalle numerose interpretazioni critiche fondate sulla presunta inattualità del goriziano. Anch’egli, come Gozzano, e come numerosissimi altri autori di questa generazione, attraversa D’Annunzio, ricorrendo ad una felice espressione di Montale, utilizzata in relazione all’esperienza poetica dell’autore dei Colloqui. Il tentativo poi di appigliarsi a Tolstoj ed Ibsen quali modelli letterari d’etica, non è un fenomeno esclusivamente michelstaedteriano. Riguardo Tolstoj, come scrive suggestivamente Cavaglion:

Nella mitologia di alcuni personaggi novecenteschi come Michelstaedter, Tolstoj rappresentò una moderna incarnazione degli antichi Profeti del Vecchio Testamento [275].

Per quanto riguarda Ibsen, mi rivolgo invece ad una testimonianza diretta, la recensione di Vincenzo Cardarelli pubblicata il 26 maggio 1910 sull’«Avanti!».

Nessuno scrittore quanto Enrico Ibsen esercitò tanta spirituale influenza in questi ultimi anni, in Italia. Tutte quelle sue creature fatte di cervello più che di sentimento, che si guardano vivere e morire con una delirante lucidità di pensiero, con una tremenda logica di atteggiamenti, per cui la vita assume il carattere di una tesi da raggiungersi attraverso lo spasimo di una umanità che è nello stesso tempo azione e dimostrazione, emozione e raziocinio, febbre di istinti e fredda annunciazione di idee; codeste creature avvivate dal più aspro genio del nostro tempo, in una terra di sentimento come l’Italia, sollevarono larghe correnti di discussione e di consenso, raccolsero gli spiriti in una più dolorosa serietà di vita, seminarono con vittoria le loro angosciose preoccupazioni [276].

A confermare la sconfinata ammirazione di questa generazione intellettuale per Ibsen, si ricordi infine che proprio a quest’epoca risale «quello che resta ancora oggi il capolavoro della critica ibseniana in Italia» [277]: la tesi di laurea di Scipio Slataper.

Nei due anni successivi alla pubblicazione della recensione di Più che l’amore l’avversione di Michelstaedter nei confronti di D’Annunzio, e di qualunque forma di dannunzianesimo, si inasprisce, come dimostra il seguente appunto datato 25 luglio 1910, dove il goriziano, in polemica totale con la propria epoca – ricorrendo al duro e velenoso tono dell’invettiva -, a livello artistico-letterario non risparmia neppure l’esperienza futurista.

È il dio della φιλοψυχία che si fa réclame, come i commercianti moderni, accordando la «persona assoluta», tutte le migliori qualità a chi comperi la sua merce.
Egli concede il nome di «dovere» e «di verità» alla qualunque debolezza:
è un dovere verso la famiglia curare il nome, i bisogni, l’eredità, la posizione, le relazioni, il commercio, conservar le idee, le abitudini consacrate, risudare il sudore invecchiato degli stracci polverosi – perché fa comodo batter la via preparata e non uscir mai dalle fasce;
è dovere verso la patria gridar «evviva» quando gli altri gridano «evviva», «abbasso» quando tutti gridano «abbasso», parlar delle glorie del passato come di glorie presenti, inneggiare alla nobiltà del sangue e della nazione – perché fa comodo esser patriotta a buon mercato, e potersi mettere in una delle caselle pagate e rispettate.
Grido perché mi paghino di più – non sono un uomo che ha fame, sono «il popolo», «il Sole dell’avvenire», ecc. Grido per non pagare di più – non sono un uomo che trema pel suo denaro, sono le «istituzioni consacrate», una «colonna della società».
Vado in chiesa per metter empiastri sui miei rimorsi – non sono un vile, un ipocrita, sono «un sant’uomo».
Stiro la mia noia per tutti i ritrovi, i caffè, i teatri, i balli – non sono un ozioso che s’annoia, sono «un giovane melanconico», «un pessimista».
Scrivo tutte le bestialità che il vino e il vizio mi suggeriscono – non sono uno stupido impotente, sono un artista originale, anzi sono un «futurista».
Corrompo gli altri e mi corrompo nelle degenerazioni del piacere – non sono un porco pervertito, sono un «raffinato», anzi un «dannunziano», sono l’artista, il creatore del mio piacere.
M’affanno per ambizione a coprir cariche, a presiedere società senza saper a che bene sieno, – non sono un irresponsabile, sono un uomo politico [278].

Torna in questo appunto la guerra – con le parole – alle parole. Michelstaedter, nel suo furore polemico, nomina le cose per quelle che realmente sono. E nella sua severa ed intransigente prospettiva, un dannunziano non è che «un porco pervertito».

Note

[260] «[…] la ‘postumità’ di Carlo […] non è il frutto della involontaria disattenzione dei contemporanei, di un loro mancamento nell’ascolto; non deriva da un rifiuto dei lettori nei confronti dell’autore, bensì dell’autore nei confronti dei lettori, nella maniera più radicale e totale». Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 267.

[261] Michelstaedter fa parte della delegazione di studenti universitari di Firenze ai funerali di Carducci.

[262] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 645.

[263] Non accade solo nel caso di Michelstaedter. Si pensi anche, a titolo esemplificativo, a Gozzano.

[264] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 646.

[265] Ivi, p. 647.

[266] Ivi.

[267] «Pure io la libertà la voglio, e la saprò raggiungere… o soccomberò. – E se non più posso comperare l’illusione della libertà a prezzo dell’imbestialimento, né posso stendere la schiena sopra una cima di monte irraggiato dal sole, alzar gli occhi al cielo e contemplare, voglio e potrò foggiarmi la vita come un’opera d’arte, sentire in ogni cosa l’infinita bellezza della natura (nel senso più lato) e del “primo motore” – come dice Leonardo da Vinci – e ritrarre da ogni visione, da ogni sentimento lieto o triste un esaltamento della forza, un innalzamento della mia individualità e un aumento della mia vitalità, e sfuggire alla necessità delle cose, idealizzandole, impadronendomene idealmente». Carlo Michelstaedter, Epistolario, op. cit., p. 203.

[268] Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., pp. 43-44.

[269] Carlo Michelstaedter, Opere, pp. 650-654.

[270] Ricordo l’entusiasmo di Michelstaedter alla scoperta del drammaturgo norvegese, quando scrive in una lettera alla madre: «In quei giorni ho letto quasi tutto Ibsen. Quello è un uomo, perdio! m’ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo Sofocle, è l’artista che più m’è penetrato e m’ha assorbito…». Carlo Michelstaedter, Epistolario, op. cit., p. 308. Per un approfondimento sul rapporto tra Michelstaedter ed Ibsen rimando a Sergio Campailla, Michelstaedter lettore di Ibsen, in Sergio Campailla, Scrittori giuliani, op. cit., pp. 65-91.

[271] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 654.

[272] Scrive Michelstaedter nel già citato appunto su Resurrezione: «La rappresentazione è viva per quella parte che riguarda la critica morale del mondo russo coordinata alla rigenerazione dell’anima di Nekliudoff. Il resto è volutamente trascurato. Per esempio l’incontro di N. coi Kor. alla stazione sul punto di partire per la Siberia vale solo a dare un effetto di contrasto, a suscitare una reazione nell’animo di N., ma è del tutto trascurato per quanto riguarda l’impressione che N. può aver fatto sugli altri. Il lettore quasi desidera l’esserne edotto, ma l’artista lo costringe alla contemplazione di quella sola rappresentazione semplice e poderosa che egli ha in mente, e non lo fa distrarre con episodi divertenti anche ma inutili». Ivi, p. 655.

[273] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 50-51.

[274] Sergio Campailla, Michelstaedter lettore di Ibsen, in Sergio Campailla, Scrittori giuliani, op. cit., p. 83.

[275] Alberto Cavaglion, Una giovinezza immortale. Michelstaedter e Tolstoj, in AA.VV., Dialoghi intorno a Michelstaedter, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia 1988, p. 85.

[276] Vincenzo Cardarelli, La poltrona vuota, Rizzoli, Milano 1969, p. 24.

[277] Giovanni Antonucci, Introduzione a Henrik Ibsen, I capolavori, Newton Compton editori, Roma 2016, p. XII.

[278] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 701-703.

Il piano dell’opera

Introduzione

Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole

Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice

Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento

Conclusione

Bibliografia

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: