Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter – Terza parte, capitolo primo

Seconda parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo

Come emerge dall’epistolario, Michelstaedter vive con grande insofferenza il momento della scrittura della tesi di laurea. Insofferenza riconducibile certamente all’avversione del goriziano nei confronti di qualunque manifestazione della «rettorica» – e che egli reputi tale l’ultimo atto del percorso universitario, lo dimostrano da subito le primissime righe della Prefazione a La persuasione e la rettorica («Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà – ma la rettorica ἀναγκάζει με ταῦτα δρᾶν βίᾳ – […]» [240]) -, ma non si tratta solo di questo. Ad acuire il malessere di Michelstaedter contribuisce infatti uno degli aspetti più singolari, e dunque più interessanti, del suo pensiero: la distinzione tra parola scritta e parola parlata, con la conseguente insufficienza della prima rispetto alla seconda. È quanto rileva Muzzioli.

Ma Michelstaedter doveva rendersi conto che la scrittura è un lavoro davvero “increscioso”. Quel percorso dal pensiero alla parola che nell’oralità è fulmineo, “sulla carta” subisce un distanziamento nel tempo. Scrivere vuol dire dilazionare, programmare, accumulare, entrare nella logica “rettorica” dell’aver fatto e del dover fare. Il “tormento oscuro” di Michelstaedter alle prese col “mostro informe” della tesi, sta appunto nella difficoltà di accettare la “sosta forzata” nel “tempo penoso” della pratica scrittoria. Com’è possibile che la voce della “libera vita” per poter parlare debba, almeno per un dato intervallo, cessare di vivere; insomma, smentire se stessa? È la domanda che tormenta il goriziano nelle lettere della sua ultima estate: egli risolverà di sottoporsi alla “brutta necessità” del lavoro, vivendola come la notte d’incubo che precede l'”alba”; o come una sorta di apnea: “mi pare che dovrei davvero trattenere il fiato finché non sia giunto in fine” [241].

All’interno della tesi di laurea, la distinzione tra parola scritta e parola parlata percorre, più o meno sotterraneamente, tutta la prima parte, per poi erompere nelle Appendici critiche, ed in particolare in un passo dell’Appendice V, quella dedicata alla Rettorica di Aristotele ed al Fedro di Platone.

L’unica potenza della parola è quella della viva parola del filosofo, come questa è per questo l’unica forma d’attività. Ogni cosa scritta già ferma arbitrariamente i concetti, mentre solo nell’incontro di due individui nasce e s’afferma il valore individuale. Chi s’accontenta in ciò che ha scritto […] e non lo sa far vivere per ognuno, vuol dire che non possiede il valore individuale e non è un filosofo, ma quello è o un poeta o un legislatore ecc., porta in ogni caso il nome dell’irrazionalità del suo soggetto [242].

Servendoci ancora delle parole di Muzzioli:

La “persuasione”, secondo Michelstaedter, deve […] dialogare con il “se stesso” preso individualmente – questa l’unica dialettica per lui accettabile. Nell’Appendice V, il goriziano riprende le argomentazioni del Fedro contro l’orazione scritta, per affermare la necessità di una parola che non si limiti al dibattito dell’opinione, ma esprima la realtà profonda di un “incontro” (come nel caso degli amici Rico e Nino). Ci vuole, insomma, una confidenza totale con l’altro, perché scocchi la scintilla della “parola intima”. La distinzione tra incontro e relazione, per altro, non è dimostrabile perché – se Michelstaedter vuol essere coerente con i suoi presupposti – il momento magico (e miracoloso assai) del contatto spirituale può essere soltanto vissuto; ma non può essere riprodotto, pena l’involgarirsi. Platone che trascrive Socrate, già comincia a tradirlo [243].

Le origini della distinzione tra parola scritta e parola parlata, sono da ricondurre a quella che si impone come una delle caratteristiche principali della «persuasione»: l’immediatezza.

La via della persuasione non è corsa da «omnibus», non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere [244].

Come nota giustamente Pieri,

Per la stretta unione di soggetto e persuasione, volontà e vita, appare evidente come Michelstaedter non possa condividere il pensiero che si enuncia solo nella forma del discorso. […] Michelstaedter pertanto esclude che la persuasione possa essere oggetto di una riflessione astratta, teorica, sistematica. La persuasione non può essere enunciata da chi separa il pensiero dalla esperienza stessa […]. Chi ripete passivamente il termine aurorale della persuasione ne vincola il significato, ponendolo nel cerchio delle classificazioni e delle definizioni [245].

Ancor più chiaro è Cacciari.

[…] la Persuasione si dà. Nessuno può afferrarla, nessuno può ‘comprehenderla’. Sarebbe un ente tra gli altri, se fosse ‘a portata di mano’. […] Nel perfetto persuaso si dà vita – ed egli può donarla: non ne discorre, non la ‘insegna’ [246].

Quanto detto finora fa sì che, nella severa ed intransigente prospettiva michelstaedteriana, due figure si impongano su tutte le altre come modelli ideali del persuaso: Socrate e Cristo. Entrambi fondano sulla pratica dell’«incontro», della «viva parola» parlata la loro attività filosofica – tutt’uno con la loro vita -; entrambi danno, donano «persuasione», non limitandosi a discorrerne sterilmente, e senza elevarsi presuntuosamente al rango di «professori», come scrive il goriziano in un appunto su cui torneremo.

Che Michelstaedter consideri Socrate e Cristo modelli ideali del persuaso, emerge con chiarezza da una nota collocata nella prima parte de La persuasione e la rettorica. Dopo aver spiegato perché ogni parola del persuaso è «luminosa» («Perciò ogni sua parola è luminosa perché, con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano. Egli può dar le cose lontane nelle apparenze vicine così, che anche quello che di queste soltanto vive, vi senta un senso ch’egli ignorava, e muovere il cuore d’ognuno» [247]), il goriziano ne fornisce in nota degli esempi.

Così Cristo parla denso e complesso ai discepoli e in parabole al popolo (v. Matteo, 12 credo).
Così la dialettica socratica riempie di valore i valori comuni [248].

Pieri interpreta questo passo in termini di «consenso» [249], ma si tratta piuttosto della capacità di Socrate e di Cristo di stabilire tra sé e gli altri una autentica e salutare comunicazione, perduta – irreversibilmente – con l’avvento della «rettorica». All’interno dell’aspra e serrata critica michelstaedteriana del linguaggio, da cui il presente lavoro ha preso le mosse, Socrate e Cristo si configurano come positivi esempi comunicativi, cui appigliarsi nel disperato, e vano, tentativo di resistere all’incombente – e in realtà già presente – «regno del silenzio».

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nella prima parte de La persuasione e la rettorica non sono molti i riferimenti a Socrate. Oltre al passo sopracitato, ricordo ovviamente la menzione nel canone dei persuasi stilato nella Prefazione della tesi di laurea, e l’incipit dell’Esempio storico [250]. Pieri interpreta la scarsezza di accenni al filosofo ateniese in questi termini:

Parlare di Socrate avrebbe […] portato ad una prolessi del socratismo, con il rischio, oltretutto, di fornire in modo prefigurato un concetto sterile di persuasione. Il “beneficio” della persuasione, così come il “sacrificio” della morte di Socrate sono infatti preservati da eccessi propedeutici. Più che la parola che fornisce spiegazioni parziali, il tacere può fornire ai valori equivalenti della persuasione e di Socrate il segno mobile e cristallino di una virtù ardua e ricca. Col silenzio l’autore mostra di essere estraneo allo spirito della cultura che tutto logicizza e riordina [251].

Un punto di vista certamente interessante, smentito però dall’abbondanza di riferimenti a Socrate nelle Appendici critiche. Abbondanza riconducibile al fatto che nella seconda parte de La persuasione e la rettorica, come ricordato più volte, si conserva l’idea aurorale della tesi di laurea, l’analisi dei due concetti in Platone ed Aristotele. Del loro tradimento, del loro abbandono della via socratica, riprendendo il titolo del primo capitolo dell’Appendice II, contenente le note alla «triste istoria», ovvero l’Esempio storico, ci siamo già occupati. Quel che mi interessa sottolineare ora, in questo discorso sull’insufficienza della parola, e in particolare della parola scritta, è come per Michelstaedter questo tradimento, questo abbandono della via socratica inizi proprio nel momento stesso in cui Platone trascrive le parole di Socrate. In tal senso, nell’Appendice II è presente un passo davvero illuminante.

Nel punto che non più si sente solo e ignoto a sé stesso a volere la vita, ma, imponendosi il nome dialettico, gode di sé, della propria attività passata e futura fra gli uomini: la dialettica è già morta. E il suo posto ha preso l’αὐθαδία di chi nelle proprie parole s’è finto il valore assoluto per aver il diritto di vivere come persona finita sempre nuove parole tessendo. Il Fedro fa l’apologia della dialettica – e in ciò appunto non è più dialettico ma apologetico; dimostra l’impotenza d’ogni rettorica di fronte alla potenza della dialettica – e in quel punto la dialettica s’è già fatta rettorica. Nel Fedro Platone realizza con efficacia insuperata il valore della via socratica di fronte all’altrui impotenza, e in quel punto dandola come finita e considerandola, vi s’è già fermato. E poiché la via socratica perciò appunto e soltanto non è una via come un’altra, perché nega ogni fermata e si proclama sempre ancora non finita, il fermarvisi a compiacersene è un abbandonarla per sempre.
Il vivo senso della propria insufficienza, il bisogno di venir in ogni punto a ferri corti colla vita, l’impossibilità d’adagiarsi nella qualunque sufficienza a continuare la propria illusoria persona: a vivere senza conoscersi, senza la persuasione – questo è il motore che fa sentire e vedere a Socrate la presenza del male sotto le apparenze sufficienti della φιλοψυχία. Questa è la voce del dio ch’egli ha in petto, che nella negazione certa s’afferma e non finge valori sufficienti; per questa egli non teme la morte, e non cura il futuro. La sua vita non è un procedere ma un permanere. Ché fermo e attuale tenendo il postulato del valore nella vita, le parole che gli uomini usano con presunzione d’assoluto valore – in ciò ch’egli ne esige la sufficienza in rapporto a ogni caso, quale avrebbero se questo valore contenessero – come a quel postulato inadeguate, vuote di senso le manifesta. Questa è la dialettica. – [252]

Ed è proprio attraverso la dialettica che Socrate «libera il linguaggio dalla “volontà irrazionale” e riassegna un valore alla comunicazione» [253].

Michelstaedter al dialettico contrappone l’eristico, e al confronto tra queste due figure, tra questi due differenti modi di comunicare – il primo giusto, autentico, positivo, il secondo invece del tutto negativo -, il goriziano dedica alcune tra le pagine più interessanti dell’Appendice VI, l’ultima, significativamente intitolata Della dialettica e della rettorica.

Mentre il vero dialettico non si ferma sulla sua via a tirar le linee e a trarre i concetti, quasi conoscenza finita; non sfrutta la propria vita a foggiarsi una persona, né la difende come finita e assoluta, pretendendo che gli altri la riconoscano per tale. Non largisce agli altri una teoria né disputando per questa chiede che gli altri lo riconoscano come «il filosofo».
Ma appunto nel contatto con gli altri proseguendo la sua via, con qualunque persona parli e di che cosa anche, non sarà per lui un incontro indifferente; ma egli si sentirà individuo di fronte a individuo e non crederà d’esser tale fino a che non abbia comunicato il valore individuale persuasivo.
L’eristico «vuol mantener ragione» in ciò che altri non gli possa rispondere; – il dialettico vuol persuadere.
L’eristico vuole che l’altro non possa dimostrar che si possa agire diversamente da quanto egli dice; – il dialettico vuole che l’altro agisca sempre in conformità a quanto egli dice.
L’eristico vuol impadronirsi delle parole del suo interlocutore; – il dialettico della sua anima.
L’eristico è nemico dell’interlocutore, lo vuol negare; – il dialettico lo ama come la sua stessa vita, vuol costituirgli la persona.
L’eristico espone o difende la sua vita: si espone; – il dialettico: vive [254].

Quanto detto finora, lo ritroviamo compendiato in un appunto di Michelstaedter del 19 gennaio 1909. Appunto che dimostra quanto questi concetti fossero radicati da tempo nel goriziano.

Che significa che egli in un punto qualsiasi o in fine della sua via si soffermi e si compiaccia di osservare il suo cervello nel momento che lavora e ne tragga le leggi logiche? che si compiaccia di veder le cose perfettamente intuite nella loro essenza, di vederle nella loro varia contingenza in vari aspetti, che volti e rivolti, cucini e ricucini le cose ottenute, e ne scriva e ne parli e ne faccia il suo sistema filosofico e scriva dei libri, e li dia alle stampe e ne corregga le bozze? Che significa che egli prenda in considerazione le cose che hanno detto gli altri, si affatichi di portarle al proprio vocabolario, si diverta a sciogliere i problemi altrui, a far critiche, recensioni e studi? Che significa? – Vanità significa; significa ricadere a un grado basso di riconoscenza e parlar per reminiscenza della propria vita passata, significa uscir dalla vita, oziare, giocare a scacchi; significa in una parola diventar professori. Socrate è il filosofo […] [255].

Ciò che accomuna Socrate e Cristo, oltre a quanto già evidenziato, è il destino di traviamento. L’intera storia del pensiero occidentale si dispiega proprio a partire dal tradimento e dall’abbandono della via socratica. Per quanto riguarda Cristo invece, la Chiesa ne «ha usurpato i simboli e le parole […] a creare una potenza in terra» [256]. Ma Michelstaedter in questo caso, proprio nelle pagine conclusive della prima parte de La persuasione e la rettorica, si spinge ancora più avanti. Parlando della «teoria della pazzia del genio», tema che compare anche nel Dialogo della salute [257], il goriziano ipotizza un suggestivo ritorno di Cristo sulla terra. Questo è il mesto epilogo cui giunge.

La società che non può difendersi dalle verità enunciate da quelli, che per lei sono rivoluzionari e che minacciano la sua sicurezza, «onestamente» rispondendo con argomenti razionali agli argomenti, ma solo opponendo la violenza e materialità del suo esistere come dato di fatto – quando non li può imprigionare come delinquenti, può porre così la pregiudiziale della pazzia e non incaricarsene. – Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d’un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente – e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi. – [258]

Questo destino di traviamento, di pervertimento delle parole di Socrate e di Cristo – e di tutti gli altri persuasi citati nella Prefazione della tesi di laurea [259] -, porta a sospettare che per la «persuasione» ed i suoi campioni, non ci sia, e non possa esserci, altro esito.

Note

[240] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35.

[241] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 50-51.

[242] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 246.

[243] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 56-57.

[244] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 104.

[245] Piero Pieri, Dialogo e logos: la svalutazione della vita e la nascita del sapere, in Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., pp. 201-203.

[246] Massimo Cacciari, La lotta “su” Platone. Michelstaedter e Nietzsche, in AA.VV., Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 103.

[247] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 88.

[248] Ivi.

[249] Piero Pieri, Socrate, Cristo e il mito storico della persuasione delle masse, in Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., p. 247.

[250] «Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava d’esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene stesse nell’indipendenza dalla gravità. Poiché è questa – pensava – che ci impedisce dal sollevarci fino al sole. –
Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non aver peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. – Ma consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù – lo spirito indipendente e la gravità – la necessità della terra e la volontà del sole – né volò al sole – né restò sulla terra; – né fu indipendente né schiavo; né felice né misero; – ma di lui con le mie parole non ho più che dire». Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 109.

[251] Piero Pieri, La forma Socrate e il modello della verità fra Hegel e Nietzsche, in Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., p. 229.

[252] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., pp. 172-173.

[253] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 77.

[254] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., pp. 280-281.

[255] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 773-774.

[256] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 181.

[257] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 69-70.

[258] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 183.

[259] «Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi. Lo disse l’Ecclesiaste ma lo trattarono e lo spiegarono come libro sacro che non poteva quindi dir niente che fosse in contraddizione coll’ottimismo della Bibbia; lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa; lo dissero Eschilo e Sofocle e Simonide, e agli Italiani lo proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi – ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari. Se ai nostri tempi le creature di Ibsen lo fanno vivere su tutte le scene, gli uomini “si divertono” a sentir fra le altre anche quelle storie “eccezionali” e i critici parlano di “simbolismo”; e se Beethoven lo canta così da muovere il cuore d’ognuno, ognuno adopera poi la commozione per i suoi scopi – e in fondo… è questione di contrappunto». Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 35-36.

Il piano dell’opera

Introduzione

Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole

Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice

Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento

Conclusione

Bibliografia

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