Il romanzo Padri e figli di Ivan Turgenev, pubblicato nel 1862, segna indelebilmente un’epoca; rappresenta un momento di svolta nella storia della letteratura, e non solo russa. Turgenev è infatti il primo scrittore a dedicare un’opera al nichilismo, e ricordare la centralità che avrà questo tema in Dostoevskij e Nietzsche, il primo il più grande scrittore, il secondo il più grande filosofo della seconda metà del XIX secolo, può aiutare a comprendere l’esatta misura dell’importanza, della portata innovativa, rivoluzionaria di Padri e figli.
Sono due le principali direttrici tematiche del romanzo di Turgenev: 1) il conflitto ancestrale tra genitori e figli, come indica il titolo; 2) la difficoltà di essere nichilisti, sottolineata soprattutto dall’esperienza sentimentale dello spigoloso protagonista, il giovane medico Bazarov, e del suo amico e discepolo Arkadij.
Il conflitto ancestrale tra genitori e figli si manifesta in due modi differenti. Nel caso di Arkadij si mantiene a un livello, diciamo così, spirituale, poetico e filosofico, mentre nel caso di Bazarov si esprime a un livello tutto carnale, e in tal senso sono emblematiche le parole pronunciate dalla madre di Bazarov a suo marito, in seguito alla partenza del figlio appena tre giorni dopo il suo ritorno: «Che farci, Vasja? Un figlio è un pezzo di carne tagliato via» [1] (160). Tale differenza è certamente frutto dell’appartenenza delle due famiglie a classi sociali diverse, ma non è forse da sottovalutare la presenza-assenza di colei che è il vero fulcro della coppia genitoriale, la madre. Madre assente nel caso di Arkadij, perché defunta da tempo.
Passando alla seconda delle due principali direttrici tematiche, la difficoltà di essere nichilisti, occorre innanzitutto chiarire che cos’è un nichilista. Memorabile in tal senso la definizione fornita da Arkadij: «Un nichilista è un uomo che non s’inchina davanti a nessuna autorità, che non accetta nessun principio come fede, di qualunque rispetto questo principio sia circondato» (26-27). Questa definizione aderisce perfettamente a Bazarov, come un vestito fatto su misura. Egli è l’uomo-contro, che nega, che ostenta noncuranza e disprezzo per le convenzioni sociali e per le ideologie dei padri, siano esse politiche, poetiche, filosofiche.
«Un buon chimico è venti volte più utile di qualunque poeta» (30), «L’importante è che due e due fanno quattro, e tutto il resto sono sciocchezze» (51), «La natura non è un tempio, ma un’officina e l’uomo è in essa un operaio» (ivi), «i miei genitori, sono occupati e non si danno pensiero della propria nullità, essa non li disgusta… io invece… io non sento che noia e rabbia» (148), «Qualunque calunnia si rovesci su un uomo, in realtà egli merita venti volte peggio» (151), dichiara sprezzantemente Bazarov.
Tra i bersagli privilegiati del protagonista vi è l’amore, contro cui non perde occasione di scagliarsi, ogni volta che ne ha l’opportunità: «io dico che un uomo il quale ha giocato tutta la sua vita sulla carta dell’amore femminile e, perduta questa carta, si è infiacchito e lasciato andare al punto di non essere più capace di nulla, una persona simile non è un uomo, non è un maschio» (38-39), «Ognuno deve educare se stesso; come me, per esempio… Quanto ai tempi, perché dovrei dipendere dai tempi? Dipendano essi piuttosto da me. No, caro, tutto questo è libertinaggio e vacuità. E cosa sono queste misteriose relazioni tra l’uomo e la donna? Noi, fisiologi, sappiamo che relazioni sono. Studia un po’ l’anatomia dell’occhio: di dove può venire lo sguardo enigmatico, come tu dici? Tutto questo è romanticismo, puerilità, roba muffita, artificio» (39).
Ma Bazarov conosce l’avvenente Odincova e di lei si innamora. Qualcosa nel protagonista si spezza per sempre. Bazarov sa di non poterla conquistare, eppure non riesce ad allontanarsi da lei, si scopre romantico e prova una feroce indignazione verso se stesso, si disprezza. Arriva persino a dichiararsi, ma non ne ottiene nulla ovviamente, anche perché Bazarov ha scelto una donna che sì vorrebbe amare, ma ne è incapace («la tranquillità è pur sempre quel che c’è di meglio al mondo», pensa l’assuefatta Odincova). Anche Bazarov è dunque vittima dello scandalo dell’amore, e la vergogna che gli deriva da questa sua caduta in ciò che più disprezza, se la porta dentro fino al suo ultimo giorno di vita. Una vita breve, stroncata da un’infezione contratta fortuitamente. Anche Arkadij finisce per cedere alle lusinghe dell’amore, diviene una cornacchia, si sposa e mette su famiglia: diviene padre.
Questa contraddizione è il punto fondamentale, il fulcro di Padri e figli. Turgenev rappresenta la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di essere nichilisti. Sarà poi Dostoevskij, nei Demòni, a dimostrare come il nichilismo sia spaventosamente possibile, attraverso i personaggi di Stavrogin [2] e Kirillov [3], pur trattandosi di due nichilismi differenti: puramente e nudamente esistenziale il primo, filosofico-esistenziale il secondo.
NOTE
[1] Ivan Turgenev, Padri e figli, traduzione di Giuseppe Pochettino, Einaudi, Torino 1998. Tra parentesi tonde il numero di pagina.
[2] Per un approfondimento su Stavrogin si vedano gli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte; Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.
[3] Per un approfondimento su Kirillov si veda l’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.
In copertina: Nikolaj Aleksandrovič Jarošenko, Lo studente, 1881.