– Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà ‘l su’ core
che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce -.
Personaggio assai singolare Guido Cavalcanti, insieme con l’amico Dante Alighieri il più illustre esponente dell’élite culturale e politica fiorentina della seconda metà del XIII secolo. Singolarità che emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli scrittori contemporanei, da cronisti come Dino Compagni e Giovanni Villani a novellieri come Giovanni Boccaccio (che nella nona novella della sesta giornata del Decameron fa di Cavalcanti l’ideale di uomo virtuoso dotato di cortesia, «industria», cultura e vigore fisico) e Franco Sacchetti. Particolarmente suggestivo il ritratto tracciato dal Compagni: «Uno giovane gentile, figlio di messer Cavalcante Cavalcanti – lo ricorderete, condannato da Dante nel X canto dell’Inferno, tra gli eretici e gli epicurei, insieme con il suocero di Guido, Farinata degli Uberti -, nobile cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio».
La poesia di Cavalcanti – di cui ci sono pervenuti 52 componimenti, suddivisi in 36 sonetti, 11 ballate e 2 canzoni – si caratterizza, tra le altre cose, per la spiccata valenza filosofica, come emerge da quella che può essere considerata la sua canzone “manifesto”, Donna me prega, uno dei testi più complessi, ardui, impervi della storia della letteratura italiana. Della difficoltà del componimento Cavalcanti è pienamente consapevole, egli vuole e raggiunge un effetto poetico estremamente sofisticato, aristocratico, destinato a pochi, i competenti, come risulta dai versi 5-10 della prima stanza, dove richiede – pretende – un lettore appunto competente («Ed a presente – conoscente – chero, / perch’io no spero – ch’om di basso core / a tal ragione porti canoscenza: / ché senza – natural dimostramento / non ho talento – di voler provare / là dove posa, e chi lo fa creare […]»), e dal congedo della canzone, dove dichiara che essa è destinata solo ed esclusivamente a chi ha «intendimento» («Tu puoi sicuramente gir, canzone, / là ’ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata / ch’assai laudata – sarà tua ragione / da le persone – c’hanno intendimento: / di star con l’altre tu non hai talento»). Si manifesta così anche nell’attività letteraria quel fiero sdegno di Cavalcanti ricordato dal Compagni e, diciamo così, sublimato, idealizzato da Boccaccio nella sopracitata novella del Decameron.
Come emerge chiaramente, secondo la felicissima interpretazione proposta da Maria Corti ne La felicità mentale (Torino 1983), dalla canzone Donna me prega, la dottrina filosofica alla quale si rifà Cavalcanti, e sulla quale modella la propria visione dell’amore, è l’averroismo cosiddetto latino, noto anche come aristotelismo radicale o eterodosso o integrale, corrente della Scolastica sviluppatasi a Parigi, che riprende Aristotele attraverso l’interpretazione fornita dall’arabo Averroè. Pur affermando l’eternità del mondo, gli averroisti negavano l’immortalità individuale e con essa l’esistenza della Provvidenza, ponendo la necessità come forza dominante dell’umana volontà. Basandosi sull’averroismo latino, Cavalcanti perviene ad una visione estremamente pessimistica, annichilente dell’amore, forza distruttiva e mortale che non lascia scampo all’uomo che ne è vittima. Da questi pochi dati è possibile rilevare la spiccata, totale, avvolgente drammaticità della poesia cavalcantiana, una drammaticità irriducibile, irrisolvibile – se non nella morte, come emerge, ad esempio, dalla terzina conclusiva del sonetto Li miei foll’occhi, che prima guardaro: «Quando mi vider, tutti con pietanza / dissermi: – fatto sì di tal servente / che mai non dei sperare altro che morte» -, che rende queste Rime un unicum nella lirica italiana tardodugentesca.
Quella di Cavalcanti è una poesia essenzialmente oftalmica: la vista è l’unico senso che sopravvive alla sistematica operazione di astrazione della realtà e del mondo esterno attuata dal poeta. Tutto inizia dagli occhi, dagli occhi dell’amata e dagli occhi dell’amante. Un dato tradizionale, certo, ma radicalizzato, esasperato da Cavalcanti, che ne fa il primo atto del dramma amoroso: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira», «Perché non fuoro a me gli occhi dispenti / o tolti […]?», «Voi che per li occhi mi passaste ‘l core». E dagli sguardi si passa alla totale, assoluta interiorizzazione dell’esperienza amorosa, altra grande caratteristica della poesia cavalcantiana. La realtà e il mondo esterno scompaiono, si dissolvono le categorie fondamentali di spazio e tempo. Resta l’io poetico, un io drammaticamente lacerato, frantumato, sminuzzato, in cui dominano i celebri «spiriti» – termine tipicamente cavalcantiano, mutuato dalla filosofia naturale dell’epoca -, le personificazioni delle varie facoltà dell’animo del poeta, i personaggi del dramma amoroso inscenato da Cavalcanti.
La lacerazione interiore porta ad uno spaesamento gnoseologico – manifestato tra l’altro dal frequentissimo utilizzo del verbo «parere» – che fa di cavalcanti un eccezionale precursore della poesia e, più in generale, della letteratura moderna. Sferzato dall’amore, sprofondato in uno stato d’angoscia, di depressione cupa, l’individuo entra in crisi. Il lessico si riduce al solo sottoinsieme semantico dell’annichilimento (dolore, inquietudine, distruzione, morte, con quest’ultima che si erge a supremo emblema dell’esperienza amorosa), che trabocca talvolta in immagini crude, spietate, persino macabre, come la terzina che chiude il sonetto Perché non fuoro a me gli occhi dispenti:
– Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà ‘l su’ core
che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce -.
Guido Cavalcanti precorre i tempi. Nella seconda metà del Duecento si spinge al di là della tradizione, fondandosi su di una corrente filosofica che mette in discussione i principi cristiani crea una poesia del tutto originale e innovativa, una poesia tematicamente moderna, che dell’amore svela il lato oscuro, drammatico, terribile, mortale.
In copertina: Dante Gabriel Rossetti, Giotto disegna il ritratto di Dante (Cavalcanti è alla destra dell’amico, appoggiato alla sua spalla), 1852.