L’Enrico di Ofterdingen. Un’analisi del romanzo di Novalis ispirata da Novalis stesso – Novalis contra Goethe

Novalis contra Goethe

È il 22 febbraio 1799, e Novalis scrive a Caroline Schlegel di volersi dedicare alla creazione di un romanzo che in sé contenga i principi di un’intera biblioteca, e che, inoltre, possa assolvere l’impegno di risultare rappresentativo del clima culturale di una nazione, e dei suoi anni di apprendistato (in tedesco letteralmente Lehrjahre). Ben presto però Novalis si corregge. Il termine Lehrjahre ricorda troppo l’opera di Goethe Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister [1]. Più corretto parlare di Übergangsjahre, ovvero di anni di transizione. Già da questi primi accenni possiamo dedurre come Novalis avesse l’intenzione di scrivere un’opera che risultasse contrapposta a quella di Goethe. A conferma di ciò, il proposito dell’autore degli Inni alla notte, di far pubblicare il testo dall’editore Unger, lo stesso del Wilhelm Meister. Addirittura sin dall’aspetto grafico esso doveva presentarsi come il contrario del romanzo goethiano. Purtroppo non andò in questo modo. Nel 1802, un anno dopo la scomparsa di Novalis, l’opera, incompiuta, venne stampata non dall’editore Unger, bensì dall’editore Reimer di Berlino [2].

Occorre ora comprendere le ragioni di questa ostilità novalisiana verso Goethe, anzitutto tentando di comprendere l’importanza dell’opera dell’autore del Werther. Il Wilhelm Meister è indiscutibilmente il documento più noto, o meglio, per rendere ancor di più l’idea, l’ideale prototipo di quel genere letterario chiamato Bildungsroman, traducendo, romanzo di formazione. Genere considerato “tipico” della letteratura tedesca, ha per oggetto il percorso del protagonista verso l’età adulta, verso la definitiva maturazione, e verso l’affermazione sociale [3]. Tale percorso implica necessariamente una direzione, un progresso, e infine, un raggiungimento. A questo punto è opportuno un richiamo a Hegel, e alle sue Lezioni di estetica. Qui il filosofo tedesco elabora una teoria sui generi letterari, nella quale definisce il romanzo «moderna epopea borghese», genere in cui si esprimerebbe la «coscienza infelice» della borghesia, consapevole dell’irrealizzabilità dei valori nella società moderna [4]. Inoltre Hegel, quale esempio del genere letterario romanzo prende proprio il Wilhelm Meister di Goethe. Novalis è agli antipodi di tutto questo. Egli disdegna l’idea “tradizionale”, e dunque goethiana, di romanzo di formazione come vicenda umana tutta consacrata al raggiungimento di un fine che risulti praticamente e socialmente utile. Perseguire un fine di questo genere porta alla creazione di un prodotto che, come Novalis scrive nella lettera indirizzata a Tieck, appare fondato solo sull’intelletto. «Candide contro la poesia», «romanzo nobilitato» in cui la poesia viene annientata, così Novalis vede e definisce il Wilhelm Meister. Perché, sebbene si tratti di prosa, in un romanzo che possa essere considerato un capolavoro, deve riecheggiare, oltre che campeggiare, la poesia, in tutta la sua potente bellezza.

Novalis dunque rovescia Goethe, e da quel che deriva da questo capovolgimento, trae le fondamenta sulle quali ergere l’Enrico di Ofterdingen, un magnifico monumento alla poesia.

Focalizziamo ora la nostra attenzione sul testo, tentando di visualizzare nel concreto le differenze di cui fino ad ora abbiamo parlato.

Nel capitolo terzo dell’Enrico di Ofterdingen, troviamo il Lied des Sängers, La poesia del cantore, la quale sarebbe stata elaborata in contrapposizione alla ballata di Goethe, contenuta nel Wilhelm Meister, Der Sänger, Il cantore. Ecco le due composizioni a confronto.

Novalis, La poesia del cantore

Il cantore se ne va per ardui sentieri,
lacerandosi la veste, a sera;
traversa fiumi e paludi,
e nessuno gli porge una mano caritatevole.
Solo e perso, prorompe ora in lamenti,
sul suo cuore spossato;
egli può appena reggere il liuto,
lo avvince un profondo dolore.

Triste destino mi fu assegnato,
io vago qui del tutto abbandonato,
a tutti ho portato gioia e letizia,
ma nessuno le ha condivise con me.
Ciascuno si allieta dei suoi averi
E della vita solo grazie a me;
eppure allontanano da sé con scarno dono
la supplica del cuore.

Mi lasciano con calma prendere commiato,
come si vede svanir la primavera;
nessuno si cruccia di lei,
quando, mesta, se ne muore.
Ardentemente tutti ne bramano i frutti,
e non sanno che fu lei a seminarli;
per loro posso inventare il cielo,
ma nessuna preghiera si ricorda di me.

Avverto, grato, forze magiche,
legate saldamente a queste labbra.
Oh! Se solo si legasse alla mia destra
Anche il nodo magico d’amore!
Nessuno si cruccia del misero,
che, bisognoso, venne da lontano;
quale cuore lo compatirà ancora,
sciogliendone il profondo cruccio?

Egli si sprofonda in alta erba,
assopendosi con le gote umide,
quando l’alto spirito dei canti
si libra nel suo petto oppresso:
dimentica ora ciò che hai subìto,
presto svanirà il tuo fardello,
ciò che invano hai cercato in capanne,
troverai nel palazzo.

Tu ti accosti alla suprema ricompensa terrena,
finisce presto il percorso intricato;
la ghirlanda di mirti diviene corona,
te la impone la più cara mano.
Un cuore pieno di armonia è chiamato
Alla gloria che circonda un trono;
il poeta sale ardui scalini,
in alto, e si fa figlio del re.

Il cantore sobbalza dai bei sogni,
con gaia impazienza;
si dirige tra alti alberi
al portone bronzeo del palazzo.
I muri sono lindi come acciaio,
ma rapido vi si arrampica il suo canto,
in preda all’amore e al dolore, scende
verso di lui la figlia del re.

L’amore li comprime con forza,
il rumore delle corazze li sospinge via;
essi avvampano in dolci fiamme,
nel loro quieto rifugio notturno.
Con paura si tengono celati,
perché temono l’ira del re;
e sono ora destati, a ogni mattino,
al dolore e alla gioia, nel contempo.

Il cantore infonde in dolci suoni
La speranza alla nuova madre;
quando entra, attirato dai canti,
il re nella caverna.
La figli gli porge, in aurei riccioli,
il nipote, che stacca dal suo seno;
essi si gettano in ginocchio, pentiti e intimoriti,
e il suo spirito austero si scioglie dolcemente.

All’amore e al canto s’arrende
Anche sul trono un cuore paterno,
e muta subito, con impeto soave,
il profondo dolore in gioia eterna.
L’amore restituisce presto ciò che ha strappato via,
con abbondante usura,
e tra baci di riconciliazione
si sprigiona una felicità celeste.

Discendi, Spirito del canto,
e affiancati anche ora all’amore;
riporta indietro la figlia perduta,
che il re le sia padre!
Che egli l’abbracci con gioia,
e provi compassione del nipote,
e se il cuore gli trabocca,
abbracci anche il cantore come figlio. [5]

Goethe, Il cantore

«Al di là del portone che cosa sento,
che cosa risuona sul ponte?
Lascia che al nostro orecchio
nella sala risuoni la canzone!»
Fu il re a parlare, il paggio corse,
tornò il ragazzo, e il re ad alta voce:
«Fatemi entrare il vecchio!»

«Nobili signori, il mio saluto vi sia dato,
il mio saluto, belle dame, a voi!
Che ricco cielo, astro vicino ad astro!
Chi mai conosce i loro nomi?
Nella sala di sfarzo e di splendore,
occhi chiudetevi; qui non è l’ora
di rallegrarsi per la meraviglia.»

Il cantore strinse gli occhi
per toccare le corde a piene note;
i cavalieri guardavano animosi,
e, a capo chino, le belle donne.
Il re, tanto la canzone gli piacque,
ordina che in onore della sua arte
gli sia portata una collana d’oro.

«Non a me, ma ai cavalieri
l’aurea collana tu devi darla,
di fronte al loro aspetto fiero
le lance nemiche si schiantano.
Dalla al cancelliere che hai,
e fa’ che agli altri gravami
anche questo, d’oro, si aggiunga.

Come l’uccello che dimora
in mezzo ai rami, io canto;
la canzone che erompe dalla gola
è un compenso ricco e lauto.
Se posso, ti prego solo di una cosa:
fa’ che mi diano in una coppa
d’oro puro il vino migliore.»

Alzò la coppa e la bevve tutta:
«O bevanda dal soave ristoro!
O felice la casa amica della fortuna,
dove questo è un piccolo dono!
Nella prosperità pensate a me
e ringraziate Dio con il fervore che
ho verso di voi per questa bevanda.» [6]

Dal confronto tra le due poesie risulta che il cantore goethiano rifiuta di legarsi ad un principe, mentre, all’opposto, quello novalisiano diviene l’ideale figlio di un re, ottenendo così la possibilità di governare. Quel che colpisce, in questa sostanziale differenza, è il suo aspetto non solo letterario, bensì, in un certo senso, anche “politico”.

Nel capitolo quarto del romanzo di Novalis, fa la sua apparizione Zulima, la personificazione dell’Oriente.

«La bimba, che poteva avere dieci o dodici anni, osservava attentamente il giovane straniero, stringendosi forte al petto dell’infelice Zulima» [7].

Il filosofo e psicologo tedesco Wilhelm Dilthey ritiene che ella possa rappresentare l’alternativa a Mignon, importante personaggio femminile del Wilhelm Meister [8]. Un’osservazione forse un avventata, ma comunque degna di considerazione.

Nel settimo libro del romanzo di Goethe, Wilhelm scopre che il libro di cui è protagonista è scritto in una serie di pergamene conservate nella “Sala del Passato”, il luogo più segreto della “Torre”, cui egli è stato finalmente ammesso. Il romanzo è stato dunque scritto dalla Torre, come scrive Franco Moretti, «per Wilhelm, ed è solo venendone a conoscenza che egli può alfine assumere il pieno possesso della sua vita» [9]. Un episodio simile accade anche ad Enrico. Nel capitolo quinto dell’opera, quello in cui il protagonista, nell’esplorare, insieme al minatore appena incontrato, le profondità delle caverne, fa la conoscenza dell’eremita. Costui possiede diversi libri, ed al termine del capitolo, Enrico, rimasto qualche istante solo con essi, inizia a sfogliarne alcuni, fin quando viene folgorato, e leggermente turbato, da un libro, scritto in una lingua incomprensibile, ma ricco di immagini, nel quale è narrata la sua vita, un libro nel quale egli è il protagonista.

«Nel frattempo il vecchio minatore domandò se ci fossero altre caverne, e l’eremita gli disse che lì vicino ce n’erano altre molto grandi, alle quali sarebbe stato disposto ad accompagnarlo. Il vecchio fu pronto a seguirlo, e l’eremita, che aveva notato la gioia provata da Enrico nel guardare i suoi libri, lo indusse a restare lì, per passarli, nel frattempo, ulteriormente in rassegna. Pieno di gioia Enrico rimase accanto ai libri e ringraziò vivamente l’eremita del permesso accordato. Li sfogliò con immenso piacere. Alla fine gli capitò tra le mani un volume […]. Il volume non aveva titolo, ma cercando vi trovò alcune immagini. Gli parvero miracolosamente note, e, quando vi guardò meglio, scoprì tra le altre la sua stessa figura, abbastanza riconoscibile. Si spaventò e credette di sognare, ma, dopo averla esaminata più volte, non poté più dubitare della perfetta somiglianza. Credette a stento ai suoi sensi, quando, improvvisamente, scoprì in una figura la caverna, e l’eremita e il vecchio che gli stavano accanto. A poco a poco ritrovò, nelle altre figure, l’orientale, i suoi genitori, il langravio e la langravia di Turingia, il suo amico cappellano di corte, e molti altri suoi conoscenti; però i loro abiti erano diversi e sembravano essere di un’altra epoca. Non seppe chiamare per nome una grande quantità di personaggi, che però gli sembravano noti. Vide la sua stessa immagine in situazioni diverse. Verso la fine del volume, gli parve più grande e più nobile. Nelle sue braccia c’era una chitarra, e la langravia gli tendeva una corona. Si vide alla corte imperiale, su una nave, avvolto in un tenero abbraccio con una ragazza slanciata e graziosa, impegnato in una lotta con uomini dall’aspetto selvaggio, e infine intento in amabili conversazioni con Saraceni e Mori. Un uomo dall’aspetto serio appariva di frequente in sua compagnia. Egli avvertì un profondo rispetto per quest’alta figura, e fu lieto di vedersi a braccetto con essa. Le ultime immagini erano oscure e incomprensibili; […] sembrava mancare la fine del libro» [10].

Anche in questo caso, una evidente risposta a Goethe. In queste pagine Novalis espone uno dei capisaldi della sua filosofia, reinterpretabile, in relazione al romanzo, in questi termini: ciascuno scrive il libro di cui è protagonista, nel momento in cui decide di farlo. Il libro è il prodotto della conoscenza da lui attinta. Tale visione filosofica implica una consapevolezza, una presa di coscienza. Consapevolezza e presa di coscienza del tutto assenti nel Wilhelm Meister. Non è Wilhelm a scrivere il suo libro, bensì la società della Torre. Inoltre egli scopre le pergamene solo dopo essersi completamente formato, realizzato, proprio attraverso il tanto agognato ingresso nella società massonica. La vicenda di Enrico è ben diversa. Non solo, scoprendo il volume, egli decide così di scrivere la sua storia, ma scopre questo quando è ancora all’inizio del suo percorso per divenire poeta, tant’è che il finale non è scritto, spetta a lui realizzarlo. In sintesi, potremmo definire, in questo senso, Enrico come un personaggio attivo, Wilhelm come un personaggio passivo.

Una interessante interpretazione della rilettura e del superamento di Goethe da parte di Novalis, la offre Giampiero Moretti nel testo L’estetica di Novalis. Egli trae spunto per la sua teoria, dal capitolo sesto, quello in cui avviene l’incontro tra Enrico ed il padre di Mathilde, la sua futura amata, Klingsohr, il quale rappresenterebbe il «definitivo confronto, e non certo nel senso banale di uno scontro, fra l’anima romantica – di Novalis – e Goethe» [11]. Spesso, lungo il percorso del romanzo, Enrico sembra optare, o almeno sembra tentato, dalla possibilità di vivere un’esistenza incentrata sulla totale, assoluta identificazione vita-poesia, mentre Klingsohr, il quale altrettanto spesso, sottolinea la necessità di un lungo apprendistato per diventare poeta, indica al protagonista la strada che Giampiero Moretti definisce dell’«opera» [12], e non quella del solo, puro, e, a volte, rischiosamente vuoto, sentimentalismo. Le parole di Klingsohr dunque rimanderebbero non solo a Goethe, ma anche ad alcuni passi della Critica del Giudizio di Kant, in cui l’autore del Wilhelm Meister, presumibilmente, poté riconoscersi. Questa la conclusione di Giampiero Moretti:

Recuperare la fondazione analogica mantenendo la definizione kantiana della genialità, questo riteniamo essere il segreto della poetica novalisiana, ciò che le consente di “superare” Goethe proprio là, dove Goethe sembrava essere inattaccabile, nel rapporto con l’esperienza, con l’esterno. […] Ripensare Goethe attraverso Kant, dunque, e proprio attraverso quel Kant che massimamente era stato caro a Goethe: questa l’ultima sfida del romantico. […] La regola è il rapporto analogico-poetico che lega l’Io al cosmo. Essa precede l’opera, ma l’opera del pari ne testimonia l’esistenza, in una sorta di rimando infinito, la cui finitezza trova spazio nell’esperienza poetica del singolo» [13].

Note

[1] Il titolo originale dell’opera è, appunto, Wilhelm Meisters Lehrjahre.

[2] Leonardo Vittorio Arena, Enrico di Ofterdingen: cronaca di un viaggio iniziatico, pp. VI-VII, in Novalis, Enrico di Ofterdingen, Mondadori, Milano 1995.

[3] Per un’esauriente analisi del romanzo di formazione: Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1991.

[4] Graziella Pagliano, Profilo di sociologia della letteratura, Carocci, Roma 2004, pp. 124-125.

[5] Novalis, Enrico di Ofterdingen, op. cit., pp. 41-44.

[6] Johann Wolfgang Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, 1795-1796.

[7] Novalis, Enrico di Ofterdingen, op. cit., p. 52.

[8] Wilhelm Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung, Leipzig 1905, p. 323.

[9] Franco Moretti, Il romanzo di formazione, op. cit., p. 37.

[10] Novalis, Enrico di Ofterdingen, op. cit., pp. 82-83.

[11] Giampiero Moretti, L’estetica di Novalis, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p. 182.

[12] Ivi, p. 183.

[13] Ivi, p. 184.

Le altre parti dell’analisi: Introduzione.

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