Personalmente, credo che uno studio dedicato alla concezione del linguaggio in un determinato autore-pensatore non possa non prendere in considerazione la scrittura di questo stesso autore-pensatore. Ne verrebbe fuori un lavoro parziale, incompleto, monco. In particolar modo per quanto riguarda un autore-pensatore come Carlo Michelstaedter, la cui posizione critica rispetto alla propria epoca si riflette, oltreché sul piano del contenuto, anche sul piano della forma. Nel caso del goriziano è dunque necessario porre l’attenzione sul modo in cui, soprattutto nella sua opera organicamente maggiore, conduce, mette in pratica la sua guerra alle parole.
La persuasione e la rettorica, soprattutto nella prima parte – ma anche la seconda, formata dalle Appendici critiche, seppur in maniera meno evidente e solo in alcuni casi tutto sommato isolati, come vedremo, esula dal genere [131] -, è tutto fuorché una tesi di laurea, rappresentandone piuttosto «un perfetto rovesciamento, dal momento che il lavoro di Carlo è agli antipodi di qualsiasi modello specifico del genere» [132]. In tal senso, La persuasione e la rettorica si configura come un’esperienza filosofico-letteraria del tutto inconsueta, come un’opera assolutamente inclassificabile, «volta a smantellare gli ordini precostituiti e i generi dichiarati: primo fra tutti lo statuto di una tesi» [133]. Innanzitutto per questo motivo, per il suo aspetto formale, essa può essere definita, come ha fatto Asor Rosa, «la più anomala ovvero la più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura italiana» [134].
Michelstaedter non si sottrae all’obbligo accademico – pur manifestando, in particolar modo nelle lettere, tutta l’insofferenza per un lavoro di cui avrebbe fatto volentieri a meno [135] -, ma almeno decide di farlo a modo suo, sforzandosi di mantenere intatta, nella forma, nella scrittura, e insieme nei contenuti ovviamente, la propria indipendenza, la propria altissima dignità di scrittore e pensatore già bell’e formato, e non semplice studente universitario [136].
La persuasione e la rettorica, a livello formale, si caratterizza per una sorprendente, alternativa, formidabile commistione di generi, stili e toni. Eppure, quello che ad una prima, superficiale lettura potrebbe sembrare un insieme caotico, confuso, del tutto illogico, ad una seconda e più attenta, consapevole lettura si rivela un lavoro perfettamente organizzato, orchestrato, sorretto «da un io solido [137] e centrale che, facendosi portavoce della verità, riunisce i frammenti sparsi della scrittura all’interno di un disegno complessamente architettato» [138]. Muzzioli nota come si tratti di un’opera per definizione parlata [139] e, sulla stessa scia, Asor Rosa giunge a definire La persuasione e la rettorica una «orazione filosofica», in cui «l’elemento dialogico costituisce essenzialmente un espediente rettorico per rendere più efficace e più persuasivo il suo dire» [140]; perché, come nota sempre Asor Rosa, sebbene Michelstaedter elimini da subito, nella Prefazione, la possibilità di persuadere («Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno» [141]), essa «riemerge continuamente per la forza disperata della comunicazione umana» [142]. Del resto, si tratta di una contraddizione quasi inevitabile all’interno del pensiero michelstaedteriano, come avremo modo di vedere più avanti.
Il dialogo dunque è uno dei molteplici generi che troviamo condensati ne La persuasione e la rettorica, e che si manifesta a vari livelli: un primo livello che potremmo definire implicito, in cui il dialogo non è inteso «nel senso socratico del rapporto fra due o più interlocutori, quanto del rapporto tra l’autore ed il suo incomprensivo, muto e resistente pubblico» [143]; e un secondo livello invece esplicito, e in questi casi «l’elemento dialogico si presenta in maniera ancor più dichiarata» [144]. All’interno del primo livello dialogico implicito, è possibile inserire una delle pagine più inquietanti e martellanti non solo de La persuasione e la rettorica, ma dell’intera produzione michelstaedteriana, quella che apre il terzo ed ultimo capitolo della prima parte, intitolata Via alla persuasione. Qui Michelstaedter riesce davvero a lacerare le palpebre di noi lettori, a metterci con le spalle al muro.
Sei persuaso o no di ciò che fai? Tu hai bisogno che questo avvenga o non avvenga per fare quello che fai, che le correlazioni coincidano sempre, poiché il fine non è mai in ciò che fai, se anche sia vasto e lontano, ma è sempre la tua continuazione. Tu dici che sei persuaso di quello che fai, avvenga che può? – Sì? – Allora io ti dico: domani sarai morto certo: non importa? pensi alla fama? pensi alla famiglia? ma la tua memoria è morta con te, con te è morta la tua famiglia; – pensi ai tuoi ideali? vuoi far testamento? vuoi una lapide? ma domani sono morti, morti anch’essi; – tutti gli uomini muoiono con te – la tua morte è una cometa che non falla; ti rivolgi a dio? – non c’è dio, dio muore con te; il regno dei cieli crolla con te, domani sei morto, morto; domani è finito tutto; il tuo corpo, la tua famiglia, i tuoi amici, la tua patria, quello che fai, quello che ancora puoi fare, il bene, il male, il vero, il falso, le tue idee, la tua parte, iddio e il suo regno, il paradiso, l’inferno, tutto, tutto, domani è finito tutto – fra 24 ore è la morte.
Allora… allora… il dio d’ora non è più quello di prima, non è più quella la patria, quello il bene, quello il male, quelli gli amici, quella la famiglia. – Vuoi mangiare? no, non puoi mangiare, il sapore del cibo non è più quello, il miele è amaro, acido il latte, la carne è nauseante; e poi l’odore, è l’odore che è nauseante: pute di cadavere; – vuoi una donna che ti conforti gli ultimi istanti? no, peggio: è carne morta; vuoi godere il sole, l’aria, la luce, il cielo? – godere?! – il sole è un’arancia fradicia, la luce è spenta, l’aria irrespirabile, il cielo è una volta bassa che m’opprime… no, tutto è chiuso e buio ormai. – Ma il sole splende, l’aria è pura, tutto è come prima, eppur tu parli come un sepolto vivo che descriva la sua tomba. E la persuasione? non sei persuaso nemmeno della luce del sole, non puoi più muovere un dito, non puoi più tenerti in piedi. Il dio che ti teneva in piedi, che ti faceva chiaro il giorno, e dolce il cibo, che ti dava la famiglia, la patria, il paradiso – quello ti tradisce ora e t’abbandona, poiché è rotto il filo della tua φιλοψυχία.- [145]
E ancora, qualche pagina più avanti, in cui il livello implicito sfuma in quello esplicito, perché Michelstaedter dà spazio alla voce, o meglio, alla non-voce della controparte «rettorica», contraddistinguendone le battute anche graficamente, attraverso l’utilizzo delle virgolette basse.
Essi dicono: «Non siamo né i primi né gli ultimi a questo mondo, e, poiché bisogna vivere, conviene adattarsi a quello che si trova, che d’altronde non potremmo cambiare».
Ma ognuno è il primo e l’ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come l’abbiamo a vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa. – E non dovrebbe far questo per che? per aspettarsi che cosa? per conservarsi a che cosa, per cui egli debba rinunciare al possesso presente della sua vita, distruggere per sempre la via alla persuasione? che gli toglierebbe la morte che non gli abbia già preso?
– «Ma» dicono «io ho le gambe deboli, e quella tua via è impraticabile».
– Ci sono zoppi e diritti – ma l’uomo deve farsi da sé le gambe per camminare – e far cammino dove non c’è strada. Per le vie consuete gli uomini vanno in un cerchio che non ha principio e non ha fine; vanno, vengono, gareggiano, s’accalcano affaccendati come le formiche – forse anche si scambiano l’uno con l’altro, – certo, per camminare che facciano, sono sempre là dov’erano, ché un posto vale l’altro nella valle senza uscita. L’uomo deve farsi una via per riuscire alla vita e non per muoversi fra gli altri, per trar gli altri con sé e non per chiedere i premi che sono e non sono nelle vie degli uomini.
– «Assai abbiamo da portare ognuno la nostra croce perché tu ci venga a imporre l’insopportabile, e a togliere quei sollievi ai quali abbiamo diritto».
– Non portate la croce, ma siete tutti crocefissi al legno della vostra sufficienza, che v’è data, che più v’insistete e più sanguinate: vi fa comodo dire che portate la croce come un sacro dovere, mentre pesate col peso inerte delle vostre necessità. – Abbiate il coraggio di non ammetterle quelle necessità, di sollevarvi per voi stessi… Ma su quelle è misurato il vostro possibile e l’impossibile, il sopportabile e l’insopportabile dei doveri da compiere per guadagnarvi in pace la vita; quando v’adattate ai modi del corpo, della famiglia, della città, della religione, dite: «faccio i miei doveri d’uomo, di figlio, di cittadino, di cristiano» e a questi doveri commisurate i diritti. Ma il conto non torna [146].
Infine, riporto un ultimo passo inscrivibile in questo primo livello dialogico, e questa volta tratto dalla seconda parte della tesi di laurea, Della rettorica, in cui Michelstaedter ha a che fare con uno scienziato.
S’io così parlassi a uno scienziato e gli dicessi: se avete la realtà, a che ancora v’affaccendate? o se non l’avete, poiché col vostro lavoro (di voi, che non l’avete) non v’aggiungete niente, μάλ’ αὖθις a che ancora v’affaccendate? – O sappiamo o non sappiamo? Se sappiamo, siamo come tanti Iddii nell’eterna pace; – se non sappiamo – gloria in excelsis deo et pax (almeno la pace) hominibus in terra.
Οὕτως ἢ πάμπαν πελέμεν χρεών ἐστιν ἢ οὐκί.
(Parmenide)«Μάλ’ ἀπαίδευτος εἶ» mi risponderebbe ὑπόδρα ἰδών «questo stesso dilemma è una vanità metafisica. La realtà è la realtà e il pensiero è il pensiero. Quando uno mette i denti in contatto con una mela, bisogna ben s’affaccendi con le mascelle per averla mangiata. Così è della realtà. Ogni attimo della sua vita l’uomo viene in contatto con una parte della realtà, ogni età, ogni generazione, ogni secolo, ogni civiltà viene in contatto soltanto con una parte; passeranno millenni e non sarà mai tutta… Che vuol dire ‘sappiamo o non sappiamo?’
Sappiamo oggi una parte, domani ne sappiamo un’altra, tutti i giorni della nostra vita ne sappiamo sempre delle altre. Così acquisto io sapienza per la mia parte, così ogni altro figlio dell’uomo per sua parte ne acquisti ogni giorno della sua vita sotto il cielo, e il retaggio della nostra sapienza tramandiamo ai nostri posteri perché altra ne acquistino e sempre via s’accresca di sempre nuove verità e si costituisca il corpo della scienza umana. – Ora per poter tramandar la sua parte, non solo, ma per poterla ritenere per sé stesso, ogni uomo deve legarla ogni volta nei suoi frammenti σὺν αἰτίας λογισμῷ. Bisogna far tesoro dell’esperienza».
Nuovamente c’è nell’αἰτία e nel λογισμός l’anticipatio: quale è l’αἰτία, quale il possibile λογισμός, di chi non ha ancora la verità, ma deve attender la fuga dei millenni per averla? O se ha l’αἰτία, che bisogno ha di preoccuparsi ancora della realtà? Quale la sazietà di chi non ha mangiato, e quale la necessità di mangiare per chi è sazio? – Ma qui sembrerebbe un voler δυσχεραίνειν ἐν τοῖς λόγοις: – qui la ragione ha soltanto la funzione di tener salda questa «esperienza». Ed è pur curioso di saper questa che cosa sia. «Apri gli occhi, gli orecchi, le nari, usa la lingua e le mani ed avrai l’esperienza sana e positiva dei sensi» mi risponderebbe qualunque scienziato.
Ma quest’esperienza, per mia esperienza è una ben strana esperienza [147].
Per quanto riguarda il dialogo esplicito, vero e proprio, ricordo ovviamente il già citato dialogo con l’«uomo nella botte di ferro», «l’individuo sognato da Hegel», il perfetto rappresentante della «rettorica», e che, questa volta, riporto integralmente.
«Vede», mi diceva dopo un pranzo abbondante in conclusione d’un lungo discorso un grosso signore «vede? la vita ha pure i suoi lati belli. Conviene saperla prendere – non pretender rigidamente ciò che già ha fatto il suo tempo, ma adattarsi ragionevolmente – e godere di ciò che il nostro tempo ci offre che nessun tempo ha mai offerto ancora ai propri figli. Fruire di questa meravigliosa comodità della vita, e cogliere fra la varietà aumentata dei piaceri, di questo e di quello con saggia misura; habere – non haberi, come dicono».
«Lei è un artista!».
«Sì, infatti, credo che sono un artista; non che io scriva o dipinga ma – lei m’intende: artista, artista nell’anima; io ho un buon cuore, pieno di sentimenti gentili coi quali mi rendo poetica ogni situazione e mi faccio bella la vita, mi creo i piaceri…».
«Secondo la sua fantasia…».
«Ma badiamo! non da eccentrico! ma nella via e nel modo come il nostro provvido tempo facili e leciti ce li offre».
«Gaudente, ma uomo di mondo».
«Certo, ma gaudente… intendiamoci! Bisogna concedere un po’ al corpo e un po’ allo spirito. – Oh la poesia e la letteratura sono state sempre la mia passione. Anche la storia! c’è un compiacimento a pensare: “ecco, tutto questo abbiamo fatto noi” e d’altronde constatare la via che s’è fatta per cui la nostra vita s’è evoluta al presente grado di civiltà. È una bella cosa, la storia. – Chissà, se non fossi stato preso nell’ingranaggio amministrativo… – Mah. – Del resto io credo che nel tempo che corre ogni uomo, che voglia camminare col progresso, debba possedere una varia ed eletta coltura umana. Né debba esser del tutto ignaro delle scienze esatte, per le quali siamo i veri signori del creato e nessun mistero sfugge ormai al nostro occhio».
«Ma lei è multilatere!».
«Oh, un dilettante…».
«Lei trova tempo per tutto!».
«Certo! Ma… bisogna aver la coscienza d’aver fatto il proprio dovere. Oh questo sì, sul dovere non si transige. Altro è compiacersi di letteratura, di scienza, d’arte, di filosofia nelle piacevoli conversazioni – altro è la vita seria. Come si direbbe: altro la teoria altro la pratica! Io, come vede, mi compiaccio di queste discussioni teoriche, mi diletto degli eleganti problemi etici e mi concedo anche il lusso di scambiare delle proposizioni paradossali. – Ma badiamo bene – ogni cosa a suo tempo e luogo. Quando indosso l’uniforme vesto anche un’altra persona. Io credo che nell’esercizio delle sue funzioni l’uomo debba esser assolutamente libero. Libero di mente e di spirito. Nell’anticamera del mio ufficio io depongo tutte le mie opinioni personali, i sentimenti, le debolezze umane. Ed entro nel tempio della civiltà a compiere la mia opera col cuore temprato all’oggettività! Allora io sento di portare il mio contributo alla grande opera di civiltà in pro dell’umanità. E in me parlano le sante istituzioni. Dico bene eh?».
«Io ammiro la sua fermezza. – E – lei non pensa ai suoi interessi?».
«Lo stipendio… corre ed è sicuro. E poi, lei sa, gli incerti…».
«Già, già – ma… e poi quando – dio lo tenga lontano – questa sua mirabile fibra sarà affievolita?».
«C’è la pensione: – lo Stato non abbandona i suoi fedeli, – che?».
«Ma – scusi se Le suscito brutte imagini – ma siamo uomini deboli – nel caso di una malattia – sa, ce ne sono tante ora in giro…».
«Niente, niente – appartengo a una cassa per ammalati, come tutti i miei colleghi. Il nostro ospedale ha tutti i comodi moderni e si vien curati secondo le più moderne conquiste della medicina. – Vede?».
«Ah, – vedo! ma – non saprei, i casi son tanti – capisco che siamo difesi dalle leggi – pure – i furti sono all’ordine del giorno».
«Sono assicurato contro il furto».
«Ah! ma… e… metta il caso d’un incendio».
«Assicurato contro il fuoco».
«Perbacco! Ma – un cavallo – scusi, volevo dire: “un automobile” che c’investe; un tegolo…».
«Assicurato contro gli accidenti».
«Ma infine morire – moriamo tutti!».
«Fa niente, sono assicurato pel caso di morte».
«Come vede», aggiunse poi trionfante, sorridendo del mio smarrimento, «sono in una botte di ferro, come si suol dire».
Io rimasi senza parole, ma nello smarrimento mi lampeggiò l’idea che il vino prima d’entrar nella botte passò sotto torchio [148].
Come ho scritto in precedenza, anche le Appendici critiche, sebbene possano essere considerate la vera e propria tesi di laurea, sono interessate da questa caratteristica contaminazione di generi. Così, anche qui è possibile trovare, e, dato il contesto eminentemente erudito, lo si accoglie con raddoppiato stupore, soprattutto visti gli interlocutori, un dialogo diretto, esplicito, tra l’io e il piede [149], di cui torneremo ad occuparci, approfonditamente, più avanti, quando il nostro discorso si sposterà sul riso michelstaedteriano.
Oltre al dialogo, altro genere presente nella tesi di laurea – ed anche questo compare in entrambe le parti – è l’apologo. Mi riferisco ovviamente all’Esempio storico, di cui ci siamo già occupati, e alla favola del «fantoccio reale», che, presente nelle Appendici critiche, segue di poche pagine il dialogo tra l’io e il piede.
C’era una volta un re – non come tutti i re, figlio di re e nipote di re – ma un re come dio comanda: un tiranno; – e non un tiranno come tutti i tiranni ai quali il trono parve l’unica altura da scalare, ma che facendo quello che stimava giusto s’era trovato a sedere sul trono, e tutto inteso a lavorare in mezzo al suo popolo appena se n’era accorto. – Ma un giorno di pioggia, stanco e interdetto nel suo far giustizia, mandò via il suo buon popolo e volle restar solo a riposare. E quando si trovò solo ebbe a dire «finalmente!» e si fece comodo nel suo bel trono.
La pioggia cadeva e il buon re s’annoiava. Pensava al tempo passato, pensava al tempo presente e non trovava niente che avesse la virtù di rallegrarlo. Invano badava a ripetere al suo cuore annoiato «ma io sono re», il cuore rispondeva: «e che ne so io?»; invano contemplava l’oro e i marmi della sala, la porpora del proprio manto, si girava e rigirava fra le mani lo scettro e la corona, ma non riusciva a realizzare la propria regalità così da farla intendere al suo cuore annoiato. Allora gli venne la melanconica idea di vestire delle proprie insegne reali un fantoccio e di metterlo sul trono al proprio posto: così avrebbe a suo agio raffigurato al suo cuore la propria persona nella sua maestà e si sarebbe compiaciuto e confortato in uno col suo cuore.
E così fece. – Dopo un rude lavoro di tre giorni e tre notti il fantoccio era a suo posto atteggiato e vestito da re. Egli discese i gradini e lo ammirò dal basso. Infatti era superbo. – Ma il cuore ricominciò a lamentarsi: che in fondo tutto ciò gli era indifferente e che s’annoiava. Ed egli si disse che infatti al re mancavano tante cose, che più veramente significassero la sua dignità e la sua attività; che l’atteggiamento poteva esser migliore e le insegne del potere in molto maggior numero; che bisognava poi farlo vedere al popolo e dimostrare a tutti la maestà regale. E con nuova lena si rimise al lavoro che gli si offriva così ricco di dilettosi dettagli e di brillanti fantasie, e che nell’affermare la maestà del re aveva uno scopo così nobile, così alto e così veramente lusinghiero per lui che era re. Il popolo affluiva alla sala del trono. Ed egli faceva contemplare a tutti che ne lo chiedevano, e anche agli altri, «in che modo si fa il re», e non si stancava di fare, disfare, rifare il suo regale fantoccio e di dichiarar le insegne cosa significassero e di celebrar le gesta e le attività da quelle significate, e la grandezza e la giustizia e la potenza e la suprema felicità del re. E con sempre più ingegnosa invenzione nuove decorazioni e bellezze vi aggiungeva e con sempre più sottile ingegno le dichiarava.
La gente stupiva ammirava si divertiva e prestava volenterosa il culto ch’egli loro persuadeva col precetto e coll’esempio. – Non era difficile cosa. –
– Non però il suo cuore era soddisfatto, – ma illuso così spesso da speranze sempre più vicine e in atti sempre più piccoli e facili definite, s’era via via lasciato stordire del tutto e la sua voce, fatta ottusa, non si sentiva più.Già da tempo intanto un altro aveva preso il governo dello stato, e il nostro vecchio re come innocuo lasciava vegetare nella sua reggia decaduta. E lasciava fare anche quanti altri nelle proprie case s’erano finte simili reggie dove si coltivavano ognuno il proprio «fantoccio reale»: il vecchio re aveva fatto scuola.
Da allora «fare il re» e insegnare a «fare il re» è divenuta una professione stimata [150].
Questo frequente ricorso alla favola – che, nel caso dell’Esempio storico, assume un’importanza fondamentale, visti i protagonisti, Platone ed Aristotele, ed il tema, la decadenza dell’intero pensiero occidentale in seguito al ripetuto tradimento dell’insegnamento socratico -, secondo la Taviani si spiega con lo sforzo di Michelstaedter di non cadere, almeno non totalmente, nella «rettorica» [151].
Inoltre, è attraverso questi apologhi che nella tesi di laurea il goriziano dà sfogo al suo impulso narrativo, sempre manifesto nella sua produzione filosofico-letteraria, e anche in quella occasionale, come è possibile constatare sfogliando l’epistolario e gli Scritti vari [152]. Ma anche nel Dialogo della salute è dato spazio alla narrativa, come in questo passo – tratto dalla seconda stesura della conclusione -, in cui il socratico Rico certifica a Nino nel suo rapporto con i familiari, ed in particolar modo con il fratello minore, lo scacco delle sue convinzioni (situazione che ricorda da vicino, e forse non a caso, proprio quella di Michelstaedter, ed in particolar modo il suo rapporto conflittuale con la madre).
Rico. Io sì, io, che ambulavo per le vie e per i monti con l’uno o l’altro degli amici e parlavo della virtù e della fermezza, e del coraggio, e della «vanità del tutto», e della vita e della morte – e poi consegnavo uno scappellotto quanto mai profondo e filosofico a mio fratello se ardiva di turbar la pace del mio santuario dove io fabbricavo la saggezza – a chiuder la porta in faccia alla mamma… Mia mamma taceva – alle volte piangeva; – mio fratello una volta invece di protestare rumorosamente – si irrigidì – strinse i pugni e s’avviò senza dir parola; lo raggiunsi, lo guardai e gli vidi nella faccia contratta una tale ribellione sorda, un tale odio, negli occhi torvi una tale fiamma disperata, che atterrito lo presi, feci per abbracciarlo – ma egli si svincolò con ripugnanza. – Ah, le lacrime ch’egli non aveva pianto io le piansi! Che giova, che giova! Libertà! Giustizia! Imperturbabilità! Quando uno è schiavo d’una porta che s’apre – e con la mano che ha fatto i grandi gesti per arrotondare le grandi frasi, schiaffeggia un bambino per difender «la pace dei propri pensieri», per poter «pensare» avanti, – nell’impotenza cieca della pace perduta. – E nota! su mio fratello applicavo naturalmente teorie educative. – E poi, appena fatto accorto dell’infame ingiustizia – il primo gesto: accattarmi con una carezza il perdono di mio fratello. Nel terrore per aver visto in tale specchio la vanità delle mie parole, la nullità della mia persona – aggrapparmi al primo appoggio, sperar col facile atto, dalla condiscendenza debole d’un bambino, il conforto che mi mettesse il cuore in pace. Vigliacco! E poi – riconosciuta anche questa viltà per la fermezza di lui – la corona del dramma: le lacrime. Lo vedi quel mucchio di carne in sussulto che si scioglie in lacrime? quello è il filosofo! – Nausea! Nausea! [153]
Sia ne La persuasione e la rettorica che nel Dialogo della salute, è infine da segnalare, per quanto riguarda la questione della commistione di generi, la frequente contaminazione di prosa e poesia. E se nella tesi di laurea i versi appartengono soprattutto ad altri autori (i presocratici, Simonide, Petrarca), nel Dialogo della salute si assiste invece ad un sistematico processo di autocitazione. Rico infatti recita spesso all’amico Nino poesie dello stesso Michelstaedter.
Rico.
È il piacere un dio pudico,
fugge da chi l’invocò;
ai piaceri egli è nemico,
fugge da chi lo cercò.Egli ama quei che non lo invoca,
egli ama quei che non lo sa;
e dona la sua luce fioca
a chi per altra luce va. –Chi lo cerca non lo trova,
chi lo trova non lo sa;
il suo nome mette a prova
questa fiacca umanità. –È il piacere l’Iddio pudico
ch’ama quello che non lo sa:
se lo cerchi se’ già mendico,
t’ha già vinto l’oscurità. – [154]
Questo particolare aspetto avvicina il goriziano ai vociani, e si pensi in particolar modo a Dino Campana e Piero Jahier [155].
Direttamente proporzionale alla pluralità di generi è la pluralità di stili e toni, come è facile constatare leggendo anche solo i passi michelstaedteriani sin qui citati [156]. Stile che oscilla tra il visionario e l’affabulatorio – con innumerevoli sfumature all’interno di questa sommaria macro-distinzione -; mentre dal tono elevato tipico dell’argomentazione filosofica il goriziano passa d’un tratto al tono ironico e colloquiale [157], e poi al tono apocalittico della profezia, che tanto ricorda quello biblico, in particolar modo del libro dell’Ecclesiaste [158].
La scrittura di Carlo Michelstaedter si caratterizza e contraddistingue per l’estrema varietas. Varietas che rende le sue opere, soprattutto La persuasione e la rettorica (comprese le erudite Appendici critiche) e Il dialogo della salute, straordinariamente vive, dinamiche, persuasive, sfuggenti a qualunque categoria stabilita, in perfetta corrispondenza e sintonia con il pensiero a-categorico del loro autore. Perché, come sottolinea Asor Rosa
In pochi scrittori del Novecento italiano la forma del pensiero ha coinciso così strettamente con il pensiero della forma. […] Poesia e pensiero vi corrispondono senza soluzione di continuità, realizzando un modello pressoché unico nella nostra prosa novecentesca, nella quale le due cose procedono il più delle volte separate, se non addirittura contrapposte […] [159].
[131] Si ricordino le parole di Asor Rosa già riportate nel primo capitolo della prima parte del presente lavoro, secondo cui le Appendici critiche costituirebbero la vera tesi di laurea.
[132] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 267.
[133] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 40.
[134] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 265.
[135] Si legga, a titolo esemplificativo, questo passo: «da domani mi rimetterò a scrivere sciocchezze, regolarmente, e […] allora sarò “uno studente che fa la tesi”, una rotella che corre dunque, una persona seria». Carlo Michelstaedter, Epistolario, op. cit., p. 367.
[136] «“… Tu devi far uno studio su Platone o sul vangelo” gli diranno “è perché così ti fai un nome, ma guardati bene dall’agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo, guardar da chi Cristo ha preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette e se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o dagli Eschimesi, chi lo sa… Naturalmente parole che valevano in riguardo all’epoca, adesso la scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi incaricare. Quando tu hai messo insieme il tuo libro sul vangelo – allora puoi andar a giuocare”. – Come al bambino si diceva: “fai come dice il babbo che ne sa più di te, e non occorre che tu domandi ‘perché’, obbedisci e non ragionare, quando sarai grande capirai”. Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: “tu cooperi all’immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po’ anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno”. Ma gli uomini temo che siano sì bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età» (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 189). A tutti gli studenti vengono pronunciate queste parole – con le quali Michelstaedter conclude La persuasione e la rettorica, o meglio, la prima parte, cui seguono le Appendici critiche -. E se il semplice studente ad esse si sottomette, incapace di comprenderne la gravità, il goriziano, che a ventitré anni è studente solo sulla carta d’identità, le supera, e coglie l’occasione della tesi di laurea per sovvertirle e, infine, ridicolizzarle.
[137] Appunto, alla faccia dell’oggettività scientifica.
[138] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 71.
[139] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 51-56.
[140] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., pp. 296-297.
[141] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35.
[142] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., pp. 296-297.
[143] Ivi.
[144] Ivi.
[145] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 67-68. Pieri opera un interessante confronto tra questo passo della tesi di laurea del goriziano ed il frammento numero 341 de La gaia scienza (1882) di Nietzsche e il racconto Lo specchio che fugge di Papini, contenuto in Tragico quotidiano (1906), individuando numerose analogie tra questi testi. Si veda Piero Pieri, Michelstaedter, Papini e la retorica del discorso filosofico letterario, in Piero Pieri, La scienza del tragico. Saggio su Carlo Michelstaedter, op. cit., pp. 377-383.
[146] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 73-74.
[147] Ivi, pp. 119-121.
[148] Ivi, pp. 137-140.
[149] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., pp. 160-164.
[150] Ivi, pp. 169-171.
[151] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., pp. 46-47.
[152] A titolo esemplificativo, riporto questo frammento risalente probabilmente alla Pasqua del 1905, nel quale peraltro emergono due caratteristiche di Michelstaedter, e non solo della sua persona, ma anche del suo pensiero, l’amore per la musica e l’avversione nei confronti della Chiesa e dei suoi rappresentanti: «La chiesa era gremita d’una folla multicolore e varia di tutte le classi e le condizioni sociali. Era la domenica di Pasqua e si cantava una messa di Perosi. Io da un comodo cantuccio osservavo… C’erano dei volti di bimbi compunti e seri, con gli occhi sorpresi, dei volti devoti, dei volti burleschi, con delle affettate espressioni di superiorità, ma in tutti quei volti c’era un tratto comune: l’occhio intento e fisso della persona che distrattamente osserva mentre che il suo pensiero è rivolto altrove. Ed il pensiero di tutti era attratto dalla splendida onda di melodia che si spandeva dal coro. Lento e trionfale s’innalzava il canto degli uomini e mi sembrava l’estrinsecazione della forza e del lavoro umano, era il trionfo la gioia del lavoro, il progresso dell’umanità. Quel canto mi entusiasmava, mi infiammava, mi infondeva un desiderio di azione, mi faceva accarezzare nel mio interno i progetti pel futuro, le ambizioni di gloria e di felicità… Ma il canto cessava e dall’altare si elevavano le voci nasali dei preti. Oh quelle voci untuose dall’accento d’ipocrita pietà come distrussero in me il salutare effetto suscitato dal canto di prima. Quelle voci mi fecero ricadere nelle mie solite idee di pessimismo, mi ricordarono l’ipocrisia, la vanità della vita e chinai il capo triste e sfiduciato… Ma ad un tratto risuonarono sotto le immense volte del tempio le voci argentine e liete del coro dei bambini. Ed il canto solenne e dolce mi parlava al cuore, mi commuoveva e mi diceva che non tutto è ipocrisia, che c’è ancora innocenza e spontaneità, e che esiste una tregua per gli uomini travagliati dalle lotte, e che questa tregua sta nell’amore che ci consola e ci fa dimenticare tutte le amarezze della vita». Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 629-630.
[153] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 82-84.
[154] Ivi, p. 43.
[155] Per un approfondimento sul rapporto tra Michelstaedter e i vociani rimando a: Romano Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «Voce», Laterza, Bari 1990, pp. 105-119; Francesco Muzzioli, Il vociano Michelstaedter, in «Alfabeta», VI, 57, 1984.
[156] Perché, scrive Muzzioli, «il testo non può sfuggire agli imperativi che enuncia: il “tutto in un punto” esige la concentrazione di diverse possibilità di stile; e fa proprio il paragone come strumento ottimo di rapido accostamento di realtà lontane (anche il termine parabola si attaglia bene, perché indica il ‘gettare accanto’ filosofia e letteratura)». Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 51-56.
[157] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 71.
[158] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 273 e 284.
[159] Ivi, p. 323.
Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole
Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice
Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento
Conclusione
Bibliografia