Non chiedetemi chi sia Godot: se lo sapessi ve l’avrei detto.
Samuel Beckett
Nell’intera produzione letteraria di Samuel Beckett (1906-1989), e in particolar modo in quella teatrale, domina un nichilismo assoluto. La realtà non ha più alcun senso, si dissolve in un nulla cosmico e astorico che non prevede neppure un solo brandello di speranza. E l’uomo non è che un inconsistente fantasma, un rifiuto, un rottame, un feto abortito insulso e futile, deteriorato e fatiscente. Tuttavia, ciò non impedisce al premio Nobel irlandese di ricorrere spessissimo all’ironia, alla comicità, allo humour, sottili armi attraverso le quali mostrare tutta l’assurdità dell’esistenza.
Il linguaggio utilizzato da Beckett riflette questa terribile condizione dell’individuo moderno, il discorso è ridotto ai minimi termini, spesso giunge al frammento, al sussurro, al balbettio ossessionato, ed è privo di logica, fino a esaurirsi, disgregarsi in un silenzio inquietante naturale manifestazione di quel nulla al quale Beckett riduce l’intera realtà. Di qui la sua scelta di scrivere molte volte in una lingua non sua, il francese, così da poter privare i suoi drammi di ogni sentimentalismo, di ogni emozione, di ogni trasporto, conferendo loro un elemento di disumano distacco, di feroce astrazione che ben rappresenta la condizione della contemporaneità.
Le opere teatrali di Beckett sono il più grande risultato del teatro dell’assurdo affermatosi negli anni Cinquanta del Novecento, e si caratterizzano per la presenza di personaggi emarginati, veri e propri relitti che assurgono al ruolo di alti rappresentanti dell’intera umanità. Dal cieco in carrozzella, dai suoi genitori mutilati che vivono nei cassonetti dell’immondizia di Finale di partita (1957), al vecchio nostalgico consapevole del vuoto, dell’oblio della propria esistenza di L’ultimo nastro di Krapp (1959). Dalla donna sepolta di Giorni felici (1961), all’uomo incapace, solo e immobile di Atto senza parole (1957). Fino a giungere ai celebri barboni Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot (1952).
Ed è proprio su quest’ultima opera che concentriamo ora le nostre attenzioni, ripercorrendone innanzitutto la “trama”. Aspettando Godot è il dramma dell’attesa. Due barboni, Vladimiro ed Estragone, aspettano Godot. Hanno freddo, fame, gemono, piagnucolano e borbottano, brontolano, pensano al suicidio, dicono di volersene andare, ma alla fine restano sempre lì, impalati, immobili, lungo una desolata strada di campagna. Vengono raggiunti da altri due personaggi, due singolari viandanti, Pozzo, uomo benestante e spietato, che porta al guinzaglio Lucky, intellettuale ridotto a schiavo, peggio, a bestia. Al termine del primo atto, un giovane informa i due barboni che Godot quella sera non verrà. Nel secondo atto si ripetono le stesse, ossessive e strazianti lamentele di Vladimiro ed Estragone, ricompaiono Pozzo e Lucky, e di nuovo il giovane, che annuncia che Godot non verrà neppure quella sera, ma di certo la prossima.
Di seguito, la parte conclusiva dell’opera teatrale.
VLADIMIRO Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano? Sto forse dormendo in questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di questa giornata? Che col mio amico Estragone, in questo luogo, fino al cader della notte, ho aspettato Godot? Che Pozzo è passato col suo facchino e che ci ha parlato? Certamente. Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero? (Estragone, dopo essersi invano accanito sulle proprie scarpe, si è di nuovo assopito. Vladimiro lo guarda). Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota. (Pausa). A cavallo di una tomba e una nascita difficile. Dal fondo della fossa, il becchino maneggia personalmente i suoi ferri. Abbiamo il tempo d’invecchiare. L’aria risuona delle nostre grida. (Sta in ascolto). Ma l’abitudine è una grande sordina. (Guarda Estragone). Anche per me c’è un altro che mi sta a guardare, pensando. Dorme, non sa niente, lasciamolo dormire. (Pausa). Non posso più andare avanti. (Pausa). Che cosa ho detto?
Cammina avanti e indietro agitatissimo e finalmente si ferma accanto alla quanta sinistra e guarda lontano. Da dietro entra il ragazzo del giorno prima. Si ferma. Silenzio.
RAGAZZO Signore… (Vladimiro si volta). Signor Alberto…
VLADIMIRO Ricominciamo. (Pausa. Al ragazzo) Non mi riconosci?
RAGAZZO Nossignore.
VLADIMIRO Sei tu che sei venuto ieri?
RAGAZZO Nossignore.
VLADIMIRO È la prima volta che vieni?
RAGAZZO Sissignore. (Silenzio).
VLADIMIRO È il signor Godot che ti manda?
RAGAZZO Sissignore.
VLADIMIRO Non verrà questa sera?
RAGAZZO Nossignore.
VLADIMIRO Ma verrà domani.
RAGAZZO Sissignore.
VLADIMIRO Sicuramente.
RAGAZZO Sissignore. (Silenzio).
VLADIMIRO Non hai trovato nessuno, per strada?
RAGAZZO Nossignore.
VLADIMIRO Altri due … (esitando) … uomini.
RAGAZZO Non ho visto nessuno, signore. (Silenzio).
VLADIMIRO Che cosa fa il signor Godot? (Pausa). Mi hai sentito?
RAGAZZO Sissignore.
VLADIMIRO E allora?
RAGAZZO Non fa nulla, signore. (Silenzio).
VLADIMIRO Come sta tuo fratello?
RAGAZZO È malato, signore.
VLADIMIRO Forse era lui quello che è venuto ieri.
RAGAZZO Non lo so, signore. (Silenzio).
VLADIMIRO Ha la barba il signor Godot?
RAGAZZO Sissignore.
VLADIMIRO Bionda o… (esitando) …o nera?
RAGAZZO (esitando) Mi pare che sia bianca, signore. (Silenzio).
VLADIMIRO Misericordia. (Silenzio).
RAGAZZO Che devo dire al signor Godot, signore?
VLADIMIRO Gli dirai… (s’interrompe) … gli dirai che mi hai visto e che… (riflettendo) …che mi hai visto. (Pausa. Vladimiro avanza, il ragazzo indietreggia, Vladimiro si ferma, il ragazzo si ferma). Di’ un po’, sei sicuro di avermi visto? Domani non verrai mica a dirmi che non mi hai visto?
Silenzio. Vladimiro fa un balzo improvviso in avanti, il ragazzo scappa come una freccia. Silenzio. Il sole tramonta, sorge la luna. Vladimiro rimane immobile. Estragone si sveglia, si toglie le scarpe, si alza con le scarpe in mano, le posa davanti alla ribalta, si avvicina a Vladimiro e lo guarda.
ESTRAGONE Che hai?
VLADIMIRO Niente.
ESTRAGONE Io me ne vado.
VLADIMIRO Anch’io. (Silenzio).
ESTRAGONE È da tanto che dormivo?
VLADIMIRO Non so. (Silenzio).
ESTRAGONE Dove andiamo?
VLADIMIRO Non lontano.
ESTRAGONE No, no, andiamocene lontano di qui!
VLADIMIRO Non si può.
ESTRAGONE Perché?
VLADIMIRO Bisogna tornare domani.
ESTRAGONE A far che?
VLADIMIRO Ad aspettare Godot.
ESTRAGONE Già, è vero. (Pausa). Non è venuto?
VLADIMIRO No.
ESTRAGONE E ormai è troppo tardi.
VLADIMIRO Sì, è notte.
ESTRAGONE E se lo lasciassimo perdere? (Pausa). Se lo lasciassimo perdere?
VLADIMIRO Ci punirebbe. (Silenzio. Guarda l’albero). Soltanto l’albero vive.
ESTRAGONE (guardando l’albero) Che cos’è?
VLADIMIRO È l’albero.
ESTRAGONE Volevo dire di che genere?
VLADIMIRO Non lo so. Un salice.
ESTRAGONE Andiamo a vedere. (Trascina Vladimiro verso l’albero. Lo guardano immobili. Silenzio). E se c’impiccassimo?
VLADIMIRO Con cosa?
ESTRAGONE Non ce l’hai un pezzo di corda?
VLADIMIRO No.
ESTRAGONE Allora non si può.
VLADIMIRO Andiamocene.
ESTRAGONE Aspetta, c’è la mia cintola.
VLADIMIRO È troppo corta.
ESTRAGONE Mi tirerai per le gambe.
VLADIMIRO E chi tirerà le mie?
ESTRAGONE È vero.
VLADIMIRO Fa’ vedere lo stesso. (Estragone si slaccia la corda che gli regge i pantaloni. Questi, che sono larghissimi, gli si afflosciano sulle caviglie. Tutti e due guardano la corda). In teoria dovrebbe bastare. Ma sarà solida?
ESTRAGONE Adesso vediamo. Tieni.
Ciascuno dei due prende un capo della corda e tira. La corda si rompe facendoli quasi cadere.
VLADIMIRO Non val niente. (Silenzio).
ESTRAGONE Dicevi che dobbiamo tornare domani?
VLADIMIRO Sì.
ESTRAGONE Allora ci procureremo una buona corda.
VLADIMIRO Giusto. (Silenzio).
ESTRAGONE Didi.
VLADIMIRO Sì.
ESTRAGONE Non posso più andare avanti così.
VLADIMIRO Sono cose che si dicono.
ESTRAGONE Se provassimo a lasciarci? Forse le cose andrebbero meglio.
VLADIMIRO C’impiccheremo domani. (Pausa) A meno che Godot non venga.
ESTRAGONE E se viene?
VLADIMIRO Saremo salvati. (Vladimiro si toglie il cappello – che è quello di Lucky – ci guarda dentro, ci passa la mano, lo scuote, lo rimette in testa).
ESTRAGONE Allora andiamo?
VLADIMIRO I pantaloni.
ESTRAGONE Come?
VLADIMIRO I pantaloni.
ESTRAGONE Vuoi i miei pantaloni?
VLADIMIRO Tirati su i pantaloni.
ESTRAGONE Già, è vero. (Si tira su i pantaloni. Silenzio).
VLADIMIRO Allora andiamo?
ESTRAGONE Andiamo.
Non si muovono.
Trad. it. di C. Fruttero, in S. Beckett, Teatro, Einaudi, Torino 1961.
Le iniziali riflessioni di Vladimiro riguardano la nascita e la morte. Il prologo e l’epilogo dell’esistenza umana corrispondono («A cavallo di una tomba e una nascita difficile. Dal fondo della fossa, il becchino maneggia pensosamente i suoi ferri»), tra di essi vi è la vita, ovvero il nulla («Abbiamo il tempo d’invecchiare», nulla più), e la consapevolezza di ciò conduce alla disperazione («L’aria risuona delle nostre grida).
La condizione umana è tragica, disgraziata, e non c’è niente di sublime, niente di eroico in questo. Lo dimostra il fatto che Beckett scelga come rappresentanti dell’umanità due barboni dagli impulsi clowneschi, due buffoni che restano in mutande. E in fondo noi uomini questi siamo: pagliacci tragicomici che tra la nascita e la morte invecchiano, e non hanno alcuna importanza.
Come si evince dalla parole e dai gesti di Vladimiro ed Estragone, Beckett mette in scena una realtà estremamente incerta, in cui l’assurdo è dietro l’angolo, pronto a manifestarsi in tutta la sua insensatezza. Inoltre i due personaggi si caratterizzano per l’incessante ed ossessivo bisogno di fuggire. Innumerevoli volte ripetono di voler andare via, e questo denota tutta l’esigenza di evasione dell’uomo stanco di soffrire, patire, subire. Ma la fuga è impossibile, e anche il suicidio non è un’ipotesi percorribile. Così Vladimiro ed Estragone, e con loro l’umanità intera, restano immobili lungo una desolata strada di campagna, e aspettano.
Aspettano Godot, certo. Riguardo l’identità di questo misterioso personaggio si è blaterato molto, troppo, e il più delle volte a vanvera. In Godot si è voluto vedere Dio, oppure la speranza, l’illusione e via dicendo. Nulla di tutto ciò. Beckett è stato chiaro: «Non chiedetemi chi sia Godot: se lo sapessi ve l’avrei detto». Godot è Godot, punto. E non verrà mai. E questa è una delle caratteristiche peculiari della più grande e celebre opera teatrale di Samuel Beckett: l’indefinitezza, e l’indefinibilità.
In copertina: Edmund S. Valtman, Caricatura di Samuel Beckett, 1969.