È con Franz Kafka che la crisi dell’individuo moderno, il tema principale della grande letteratura primonovecentesca, giunge al suo esito estremo, manifestandosi nel modo più angosciante e tragico. Innanzitutto attraverso un sistematico processo di “assurdizzazione” (e chiedo scusa per questa non-parola oscena) dell’esistenza, che porta a una perfetta coincidenza, corrispondenza tra realtà e irrealtà. Emerge così dalle opere dello scrittore ceco una percezione essenzialmente nichilistica della vita, frutto della disillusa e cruda consapevolezza della sua insensatezza. Tutto ciò si concretizza, di conseguenza, in una forma letteraria che scardina i principi fondamentali della tradizionale letteratura realista, sostituendo alla lineare e logica causalità la tortuosa e illogica assurdità. Il risultato è la distruzione del modello dell’unità dell’opera d’arte, in favore di una «desolante “allegoria del nulla”» [1].
All’interno della produzione kafkiana, quanto detto finora si trova espresso con particolare evidenza in due opere, le due opere probabilmente più celebri dello scrittore ceco: il racconto La metamorfosi e il romanzo Il processo. Nel primo caso il processo di “assurdizzazione” (lo so, errare è umano, perseverare diabolico) è più scoperto ed evidente, più immediato, mentre nel secondo caso più sottile. Ma la situazione iniziale è la stessa: Gregor Samsa e Josef K. si svegliano e sprofondano nell’incubo. È come se la conturbante e spesso angosciante dimensione onirica si riversi nella realtà invadendola, fagocitandola, assorbendola.
Gregor Samsa si risveglia insetto, Josef K., nel giorno del suo trentesimo compleanno, imputato. K. è vittima di una giustizia parallela a quella ordinaria, fondata su una particolare Legge di cui, nel corso del romanzo, conosciamo alcuni aspetti. Uno di questi viene svelato subito da una delle due guardie incaricate di arrestare K.: «Le nostre autorità […] non cercano la colpa nella gente, ma, come è detto nella legge, vengono attirate dalla colpa e devono inviare noi guardie. Questa è la legge» [2]. K. è dunque in arresto, ma ciò non significa che non sia libero: «ciò non deve impedirle di attendere alla sua professione. Non deve sentirsi ostacolato nel suo abituale modo di vivere» [3]. Già da questi due passi emerge tutta la singolarità di questa giustizia parallela che ha messo K. nel mirino.
Sin dall’inizio del romanzo K. è convinto che la sua indifferenza possa incidere positivamente sul processo, di fatto annullandolo. È certo che se al momento dell’arresto avesse agito ragionevolmente, ignorando le guardie, non sarebbe accaduto nulla. K. stesso parla di questo durante la prima, affollata udienza: «La sua domanda, signor giudice, se io sia un pittore decoratore o meglio, lei non l’ha chiesto, l’ha piuttosto proclamato, è indicativa del processo che viene condotto contro di me. Lei può obiettare che non si tratta affatto di un procedimento, ed ha ragione perché è un procedimento solo se io lo riconosco come tale. Ma per il momento accetto di riconoscerlo, in un certo senso per compassione. A volerlo prendere in considerazione, non si può farlo che per compassione. Non voglio dire che si tratta di un procedimento indecoroso, ma vorrei proporle questa definizione per una migliore conoscenza di sé» [4]. Anche il narratore conferma questa ipotesi: «Se fosse stato solo al mondo, avrebbe potuto facilmente ignorare quel processo, ma era anche certo che in questo caso il processo non ci sarebbe stato» [5]. K. non è solo, intervengono scrupoli familiari, con l’interessamento di suo zio, che, venuto a conoscenza del procedimento contro K., decide di presentarlo all’avvocato Huld. Ecco che cade così anche l’arma dell’indifferenza. Che sia stato questo il fatale errore di K., accettare il processo? E vengono in mente le parole del cappellano delle carceri: «Il tribunale non vuole nulla da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai» [6].
I documenti del tribunale, e soprattutto l’atto di accusa, sono inaccessibili all’imputato e al suo difensore. A proposito della difesa, essa «propriamente non è ammessa ma solo tollerata, ma anche su questo, cioè se possa essere dedotta almeno la tolleranza dal corrispondente articolo di legge, sussiste polemica» [7]. Stando così le cose, non esistono avvocati riconosciuti dal tribunale, e volendo escludere quanto più possibile la difesa, tutto è demandato agli imputati. Eppure, in nessun altro tribunale gli avvocati sono necessari come in questo, perché la cosa più importante «restano i rapporti personali dell’avvocato, su questi si fonda il valore principale della difesa» [8]. K., e con lui ogni altro imputato, si ritrova intrappolato in una ragnatela di relazioni: a causa della famiglia, e di qualche sua avventata parola di troppo ad alcuni conoscenti, si ritrova nell’impossibilità «di scegliere se accettare o rifiutare il processo» [9], ed è costretto ad affidarsi a un legale per poter sfruttare i suoi rapporti personali. In tal senso, un’occasione favorevole si presenta già durante la prima visita all’avvocato Huld, dove K. incontra il cancelliere capo del tribunale. Ma l’occasione sfuma per il comportamento di K., che si assenta per ore dalla stanza dell’avvocato intrattenendosi con la giovane infermiera Leni. E non è da escludere che quest’ultima abbia sedotto K. proprio per allontanarlo dal cancelliere capo (ricordo che Leni è l’unica a esortare K. a confessare – «Per favore non chieda nomi ma piuttosto corregga il suo errore, non sia più così intransigente, non ci si può difendere da questo tribunale, bisogna confessare. Alla prima occasione renda la sua confessione. Soltanto dopo, sarà possibile fuggire, soltanto dopo» [10] -, cosa non si sa, né lo sapremo mai).
Su consiglio di un industriale cliente della banca per cui lavora K., il protagonista si reca dal pittore Titorelli, ritrattista ufficiale del tribunale. Quest’ultimo espone a K. le tre possibilità di scagionamento: l’assoluzione effettiva, l’assoluzione fittizia e il differimento. La prima possibilità è da escludere, perché «non si è mai verificata una sola assoluzione effettiva», almeno non negli innumerevoli processi seguiti da Titorelli. Restano quindi le altre due possibilità, che il pittore spiega così:
«Per una assoluzione effettiva gli atti processuali devono essere completamente eliminati, spariscono del tutto dal procedimento, non solo la denuncia, ma anche il processo e persino l’atto di assoluzione vengono distrutti, tutto viene distrutto. Diverso è per l’assoluzione fittizia. Con quest’atto non interviene nessun cambiamento, viene solo aggiunta la dichiarazione di innocenza, l’assoluzione e la motivazione dell’assoluzione. Ma per il resto il procedimento del processo rimane in piedi, come richiede l’attività ininterrotta del tribunale, viene trasmesso ai gradi superiori del tribunale, ritorna a quelli inferiori e va avanti e indietro a questo modo con oscillazioni più forti o più deboli, con interruzioni più o meno lunghe. Questi percorsi sono imprevedibili. Visto dall’esterno si può avere talvolta l’impressione che tutto venga dimenticato per molto tempo, che l’atto vada perduto e che l’assoluzione sia perciò perfetta. Un competente non lo crederà. Nessun atto va perduto, non c’è alcuna dimenticanza da parte del tribunale. Un bel giorno – quando nessuno se l’aspetta – qualche giudice prende in mano con maggiore attenzione gli atti, si rende conto che in quel caso la denuncia è ancora in piedi e ordina l’arresto immediato. […] il processo ricomincia, ma c’è ancora la possibilità, come in precedenza, di ottenere una assoluzione fittizia. Si devono di nuovo raccogliere tutte le forze e non ci si può arrendere. […] il differimento consiste in questo, che il processo viene mantenuto costantemente nel suo stadio più basso. Per ottenerlo è indispensabile che l’imputato e il suo consulente, ma in particolare il consulente, restino in contatto personale con il tribunale. Ripeto, qui non è necessario un tale dispendio di energie come per l’ottenimento di una assoluzione fittizia, ma è necessaria una più grande attenzione. Non si può perdere di vista il processo. Si deve andare a intervalli regolari dal giudice competente e anche in occasioni particolari e cercare di comportarsi sempre gentilmente; se non si conosce personalmente il giudice, si deve cercare di influire su di lui attraverso i giudici che si conoscono, senza che si debba rinunciare in questo modo alle conversazioni dirette. Se non si rinuncia a nulla a questo proposito, allora si può supporre con una certa approssimazione che il processo non superi il suo primo stadio. Certo il processo non termina, ma l’imputato è rassicurato rispetto ad una possibile condanna quasi come se fosse libero. Nei confronti della assoluzione fittizia, il differimento ha il vantaggio che il futuro dell’imputato è meno incerto, non vive nel timore di arresti improvvisi e non deve temere, nel momento in cui le altre circostanze sono meno favorevoli per lui, di dover sopportare le fatiche e i turbamenti legati all’ottenimento della assoluzione fittizia. Certo il differimento ha anche alcuni svantaggi per l’imputato che non si possono sottovalutare. Con questo non penso al fatto che qui l’imputato non è mai libero, ciò non accade veramente neanche nel caso dell’assoluzione fittizia. Lo svantaggio è un altro. Il processo non può essere interrotto senza che si presentino a questo scopo dei motivi almeno apparenti. Deve accadere qualcosa al di fuori del processo. Perciò di tanto in tanto debbono essere assunte alcune disposizioni, l’imputato deve essere interrogato, si devono compiere investigazioni e così via. Il processo deve costantemente essere fatto ruotare nel ristretto ambito in cui lo si è limitato ad arte» [11].
K. si ritrova coinvolto, intrappolato in un circolo vizioso senza fine, o meglio, senza una fine che non sia drammatica.
K. decide di revocare il mandato di Huld, questo vecchio avvocato che trasforma i suoi clienti in cani, come dimostra l’imbarazzante comportamento del commerciante Block, e decide di assumere esclusivamente su di sé la propria difesa, pur essendo consapevole che ciò comporterà sforzi enormi e influirà negativamente sulla sua carriera lavorativa. Siamo ormai vicini alla drammatica conclusione del romanzo. K. si reca nel duomo, ma del cliente italiano a cui avrebbe dovuto mostrare i tesori artistici della città non c’è traccia. È giorno ma è notte. Nel duomo oltre a K. non c’è nessuno, eppure un sacerdote sale su un pulpito secondario pronto per una predica al Nulla. K. si alza e se ne va, ma proprio quando è vicino all’uscita il sacerdote scandisce il suo nome: «Josef K.!». K. torna indietro. Il sacerdote si presenta come il cappellano delle carceri (dunque il sedicente tribunale ha anche delle carceri, nei solai come gli uffici? o magari in delle cantine sotterranee? mah), e lo informa del pessimo andamento del suo processo: «”Ma temo che andrà a finire male. Ti si ritiene colpevole. Il tuo processo non andrà forse neppure oltre un tribunale di grado inferiore. La tua colpevolezza la si ritiene provata, almeno per il momento.” “Ma io non sono colpevole”, disse K., “è un errore. Come può, in generale, un uomo essere colpevole. Noi qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro.” “Questo è giusto”, disse il sacerdote, “ma è così che parlano i colpevoli”» [12]. Sì, Cristo per il grande inquisitore [13] è colpevole, meritevole di essere ammazzato una seconda volta. E non dimentichiamoci che per l’ebraismo Cristo è un millantatore.
K., a proposito del tribunale, a detta del cappellano, si inganna, e di questo inganno si parla negli scritti introduttivi alla Legge. Il sacerdote recita a K. la celebre parabola dell’uomo di campagna che vuole entrare nella Legge.
«[…] davanti alla Legge c’è un custode. Da questo custode arriva un uomo di campagna e lo prega di farlo entrare nella Legge. Ma il custode dice che al momento non gli può assicurare l’ingresso. L’uomo riflette e poi chiede se potrà allora entrare più tardi. “È possibile”, dice il custode “ma non ora”. Dal momento che il portone della Legge è aperto come sempre e che il custode si fa da parte, l’uomo si china per guardare all’interno attraverso il portone. Quando il custode se ne accorge, ride e dice: “se ti alletta tanto, prova pure ad entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo il custode di grado più basso. Sala dopo sala ci sono però custodi uno più potente dell’altro. Già solo la vista del terzo non la posso più sostenere”. L’uomo di campagna non si aspetta tali difficoltà, ma la Legge deve essere accessibile ad ognuno, pensa, ma osservando adesso meglio il custode nel suo cappotto di pelliccia, il suo grosso naso appuntito, la lunga, sottile, scura barba tartara, decide comunque che è preferibile aspettare di ottenere il permesso di entrare. Il custode gli dà uno sgabello e lo fa sedere accanto alla porta. Lì rimane seduto giorni e anni. Fa molti tentativi per essere ammesso e snerva il custode con le sue preghiere. Il custode gli fa di tanto in tanto piccoli interrogatori, gli chiede del suo paese natale e di molte altre cose, ma sono domande indifferenti, come quelle che fanno i grandi signori e alla fine gli dice sempre di nuovo che non può ancora entrare. L’uomo che si è ben fornito per il suo viaggio, adopera ogni cosa, per quanto valore avesse, per corrompere il custode. Questi, invero, accetta tutto, ma dice in merito: “lo accetto solo affinché tu non creda di avere tralasciato qualcosa”. Durante questi svariati anni l’uomo osserva il custode quasi ininterrottamente. Dimentica gli altri custodi, sembrandogli questo primo l’unico ostacolo per l’ingresso nella Legge. Durante questi primi anni maledice il caso infelice ad alta voce, in seguito, divenuto vecchio, borbotta ormai solo tra sé. Diventa puerile e poiché in quello studio del custode durato anni ha imparato a riconoscere anche le pulci nel bavero della sua pelliccia, implora persino le pulci di aiutarlo e di convincere il custode. Infine la luce degli occhi gli si indebolisce e non sa se effettivamente intorno a lui si faccia più scuro o se solo gli occhi lo ingannino. Ma proprio adesso, nel buio, egli distingue un bagliore che traluce perpetuo nel portone della Legge. A questo punto non vivrà più molto a lungo. Davanti alla morte, nella sua testa tutte le esperienze di quel periodo si concentrano in una domanda che fino ad allora non aveva ancora posto al custode. Gli fa cenno, dal momento che la sua testa non può più sollevarsi. Il custode si deve piegare su di lui perché la differenza di altezza è molto cambiata a danno dell’uomo. “Cos’altro vuoi sapere insomma?”, chiede il custode, “sei insaziabile”. “Poiché tutti aspirano alla Legge”, dice l’uomo, “da che dipende che in tutti questi anni nessuno all’infuori di me ha chiesto di entrare?”. Il custode si avvede che l’uomo è proprio alla fine e per raggiungere ancora il suo udito che sta svanendo, gli strilla: “Qui nessuno poteva ottenere di entrare perché quest’ingresso era destinato solo a te. Adesso vado e lo chiudo”» [14].
Il giudizio di K. è immediato: «Il custode ha ingannato l’uomo». Ma il sacerdote lo contraddice, respinge ogni scettica e critica interpretazione di K. A questo proposito, ecco cosa scrive Franco Moretti, parlando di Joyce (polifonia) e Kafka (allegoria), i due scrittori-limite della storia della letteratura (scrittori-limite perché dopo e oltre di loro è il silenzio): «Sul versante della polifonia (che è quella di Joyce), si è avuta una moltiplicazione pressoché infinita dei significanti; su quella dell’allegoria (Kafka), una crescita altrettanto illimitata dei significati. Nel primo caso, non c’è limite al numero dei linguaggi che è possibile generare, né alla loro libertà: ogni stile si aggiunge agli altri, senza pretese di supremazia o di unicità. Nel caso dell’allegoria, però, un vincolo c’è, e fortissimo: la Legge. Vincolo “inalterabile”, spiega a K. il Cappellano: vero e proprio “testo sacro”, da cui nessuna interpretazione sarà mai libera di prescindere – e che fa anzi del processo interpretativo una questione alla lettera, di vita e di morte. Nel Processo, voglio dire, il percorso semantico dell'”allegoria impazzita” è stato rovesciato: si parte da una situazione polisemica, in cui la Legge viene interpretata in modi diversi da personaggi diversi – e poi, pian piano, tale libertà semantica viene revocata, e dall’interno stesso della Legge viene scelta una particolare interpretazione del caso di K., che comporta la sua esecuzione. Tale interpretazione “ufficiale” non viene mai dimostrata: ma questo significa solo che le decisioni del Tribunale sono sottratte alla sfera pubblica, come in fondo è giusto che sia, per un testo sacro. Auctoritas, non veritas facir legem» [15].
Auctoritas, non veritas facit legem, ed è quanto sostiene il cappellano: «non si deve prendere tutto per vero, lo si deve ritenere solo necessario» [16]. È questo il fondamento principale della Legge, dunque della autorità che ad essa risponde (ma non sarebbe poi troppo azzardato elevare questa frase a fondamento universale della Storia dell’uomo, della sua Civiltà), e si perde nel vuoto il lamento di K.: «Opinione triste […] La menzogna elevata a regola universale» [17]. Il cappellano, nell’interpretazione della parabola, argina K., limita la sua «libertà semantica», e la massima espressione di tale processo coercitivo, repressivo è rappresentata dalla seguente dichiarazione: «Non devi badare troppo alle opinioni. Lo scritto è invariabile e le opinioni spesso sono solo un’espressione di disperazione per questo fatto» [18]. Spaventosamente sagace il cappellano.
Il romanzo si conclude con l’esecuzione di K., evidentemente condannato a morte dal tribunale. Alla vigilia del suo trentunesimo compleanno – Il processo copre dunque l’arco di tempo di un anno, ma è un’indicazione superflua – il protagonista viene prelevato da due uomini, «Vecchi attori di bass’ordine» come li definisce K., che lo conducono, facendosi condurre, in una piccola cava di pietra fuori città. Qui K., ormai non più imputato ma condannato, viene denudato e adagiato su una pietra. Come Gregor Samsa non si stupisce della metamorfosi, K. non si stupisce della condanna a morte, ed è proprio questa mancanza di stupore, questa lucida e alienante consapevolezza della totale insensatezza della vita da parte dei personaggi uno degli aspetti più sconcertanti dell’opera di Kafka. L’inettitudine elevata a potenza. Mentre gli uomini incaricati di scannare K. si scambiano «nauseanti cortesie» tragicomiche, egli si guarda attorno: «Il suo sguardo si fissò sull’ultimo piano della casa confinante con la cava di pietra. Come una luce sfolgorante si aprirono d’un colpo le imposte di una finestra, un uomo, che per la distanza e dell’altezza pareva debole e sottile, si sporse con impeto in avanti tendendo le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Un buon uomo? Uno che prendeva parte? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora salvezza? C’erano eccezioni che si erano dimenticate? Certo, qualcuna c’era. La logica è certo incrollabile, ma non resiste ad un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale fino al quale non era mai arrivato? Alzò le mani allargando tutte le dita» [19]. Queste righe infondono un sospetto, l’ennesimo, l’ultimo: se davvero avesse voluto vivere K. si sarebbe potuto salvare; la logica non è forte a tal punto da resistere a un uomo che vuole vivere. K. si ravvede troppo tardi, alza le mani ma ormai non c’è scampo alla morte: «Ma alla gola di K. si strinsero le mani di uno degli individui, mentre l’altro gli infilava il coltello nel cuore rigirandolo poi due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come gli uomini, vicini al suo viso, poggiati guancia a guancia, osservavano la conclusione. “Come un cane!”, disse, era come se la vergogna gli dovesse sopravvivere» [20].
Perché? Difficile, se non addirittura impossibile, rispondere a questa domanda. Mi limito a citare un passo delle Memorie dal sottosuolo [21] di Dostoevskij (Dostoevskij e Kafka sono scrittori indissolubilmente legati), in cui il protagonista, l’uomo-topo, scrive: «[…] per quanto la rigiri, alla fin fine vien sempre fuori che il principale colpevole di tutto sei sempre tu, tu e nessun altro, e – quel che fa più male – colpevole senza colpa e, potremmo dire, per legge di natura» [22]. Siamo tutti colpevoli. Siamo tutti Josef K.
NOTE
[1] Francesco Muzzioli, L’allegoria, Lithos Editrice, Roma 2016, p. 164.
[2] Franz Kafka, Il processo, in Franz Kafka, Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, traduzione di Giuseppe Landolfi Petrone e Maria Martorelli, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 181.
[3] Ivi, p. 185.
[4] Ivi, p. 198.
[5] Ivi, p. 241.
[6] Ivi, p. 289.
[7] Ivi, p. 236.
[8] Ivi, p. 237.
[9] Ivi, p. 241.
[10] Ivi, p. 323.
[11] Ivi, p. 257-258.
[12] Ivi, p. 283.
[13] Per un approfondimento sul poema di Ivan Karamazov si veda l’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.
[14] Franz Kafka, Il processo, cit., pp. 284-285.
[15] Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi, Torino 1994, pp. 189-190.
[16] Franz Kafka, Il processo, cit., p. 288.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 287.
[19] Ivi, p. 291.
[20] Ibidem.
[21] Per un approfondimento sul romanzo di Dostoevskij si vedano gli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte; Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.
[22] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014, p. 13.