Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, il crepuscolare maledetto

Due fantasmi nel parco desolato
hanno evocato il fulgido passato…
…vanno così nel parco dove i rami
– nudi – torpon ne l’aria senza sole:
la notte sola intende le parole:
e la terra è la reliquia dei fogliami.

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Colloquio sentimentale.

La vita

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi nasce a Genova il 6 gennaio 1871, da Lazzaro Roccatagliata, modesto proprietario di umili origini, e da Giovanna Battistina Ceccardi, aristocratica. E proprio grazie alla madre egli entra in contatto con il favoloso mondo poetico, grazie soprattutto alla lettura dei due maggiori autori romantici inglesi, Shelley e Keats.

Dopo aver conseguito il diploma di licenza liceale a Massa, Ceccardo torna a Genova, dove si iscrive all’Università, precisamente alla facoltà di Giurisprudenza. Si laurea in fretta, ma, anche a causa dell’improvvisa morte della madre, la situazione economica della famiglia precipita. Il giovane è dunque costretto a vivere un’esistenza complicata, travagliata, fatta di stenti e sacrifici. Viaggia molto, trasferendosi a Ortonovo e a Carrara, dove collabora con il giornale locale Lo Svegliarino. Nel 1895 pubblica la sua prima raccolta di versi, Libro dei frammenti, le cui composizioni si ispirano ad autori come Rimbaud, Verlaine, Pascoli, Carducci.

A Genova riesce a imporsi come uno dei protagonisti della vita culturale dell’epoca, frequentando gli ambienti della Galleria Mazzini – in particolar modo la Libreria Moderna e il Caffè Roma -. Nel capoluogo ligure fa la conoscenza di Francesca Giovannetti, che sposa nel 1901. L’anno seguente nasce il loro primogenito.

Nel 1903 si trasferisce a casa della moglie, a Sant’Andrea Pelago. In questo paese trascorre diversi anni. Anni caratterizzati da molti giorni incolori, anonimi, insoddisfacenti nei quali la quotidianità regna austera. Ceccardo, che rimpiange la vita culturalmente elettrizzante della metropolitana Genova, si getta nelle braccia affettuose dell’alcol. Trascorre intere serate nelle osterie, serate al termine delle quali deve essere spessissimo riaccompagnato a casa, tanto beve. Giunge persino a capeggiare una rivolta popolare – egli è e resterà fino all’ultimo giorno un anarchico, come il suo carissimo amico Lorenzo Viani -, contro un possidente che vuole spostare una fontana di qualche metro per agevolare l’ingresso alla sua abitazione. È un periodo difficile per il povero Ceccardo, che tuttavia scrive molto. Il poeta si esalta nelle sofferenze, nelle difficoltà, ed egli non fa differenza. In questi anni di “esilio” pubblica la raccolta di versi Apua Mater e il poema Il Viandante, intenso dialogo tra l’uomo e l’universo. Le due opere ottengono un buon successo, sia a livello di pubblico che di critica, ma, nonostante questo, il poeta non riesce a trovare un lavoro stabile che possa garantirgli un salario fisso. Dopo un violento litigio con una zia della moglie, abbandona Sant’Andrea Pelago e l’intera famiglia, figlio compreso.

Torna a Genova, dove si dedica alla più scapigliata dissolutezza. Solo, privo degli affetti più cari, vagabonda per la città frequentando i luoghi più malsani. Tramite la mediazione, non certo semplice, dei pochi amici che gli sono rimasti, Ceccardo si riappacifica con la moglie, e torna ad abbracciare l’adorato figliolo. Un insperato entusiasmo, una sorprendente volontà di vivere pervadono il suo animo di nuovo intraprendente.

Finalmente un’assunzione, presso la rivista fiorentina Popolo, nella quale ricopre il ruolo di critico d’arte. Il rotocalco però fallisce presto e, senza neanche ricevere un compenso, il poeta lascia Firenze, direzione Roma. Altrettanto fugace quanto l’esistenza del giornale è l’esperienza capitolina di Ceccardo, che resta estremamente deluso dalla città. La notizia della malattia del giovane figlio inoltre, lo costringe a rientrare in famiglia.

Nel 1907 vince il concorso indetto dal comune di La Spezia per la composizione dell’epigrafe della lapide da collocarsi nell’abitazione che ospitò il poeta inglese Shelley. Ecco il testo dell’iscrizione:

DA QUESTO PORTICO
IN CUI SI ABBATTEVA L’ANTICA OMBRA DI UN LECCIO
IL LUGLIO DEL MDCCCXXII
MARY GODWIN E JANE WILLIAMS
ATTESERO LAGRIMANTE ANSIA
PERCY BYSSHE SHELLEY
CHE DA LIVORNO SU FRAGIL LEGNO VELEGGIANDO
ERA APPRODATO PER IMPROVVISA FORTUNA
AI SILENZI DE LE ISOLE ELISEE
O BENEDETTE SPIAGGE
OVE L’AMORE, LA LIBERTÀ, I SOGNI
NON HANNO CATENE
27 ottobre 1907

La perpetua instabilità finanziaria costringe ancora Ceccardo a un destino d’erranza. Nel 1910 pubblica Sonetti e poemi, volume nel quale raccoglie le sue opere migliori scritte fino a quel momento. L’opera ottiene molti apprezzamenti, ma viene stroncata da un noto critico dell’epoca. Questa bocciatura, sommata alle malattie della moglie e del figlio, sprofonda il poeta in una grave depressione. Nel 1914 viene trovato nelle strade di Genova riverso a terra e privo di sensi. Viene quindi ricoverato nell’Ospedale Galliera. Controvoglia accetta il denaro raccolto tramite una sottoscrizione pubblica.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale si schiera dalla parte degli interventisti, ma, a causa delle fragili condizioni fisiche, gli è impossibile partire per il fronte.

Nel gennaio del 1918 muore la consorte. A ottobre dello stesso anno incontra a Carrara la giovane Simonia Sermoni, della quale Ceccardo si innamora follemente. Per starle accanto il poeta rinuncia persino a un incarico all’Istituto Tecnico di Parma, ma la donna lo respinge senza pietà.

Stanco, abbattuto, malato sente la fine vicina e, preoccupato per l’avvenire incerto del figlio, deposita presso un notaio a Carrara il suo testamento.

Muore a Genova nella notte fra il 2 e il 3 agosto 1919.

Tre sole, significative parole sono incise sulla sua urna nel cimitero di Staglieno:

HIC CONSTITIT VIATOR

Qui si fermò il viandante

La poetica

Come chiaramente emerge dalla breve nota biografica, quella di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu una vita colma di disagio, di malessere, di sofferenza, sulla scia dei ben più celebri poètes maudits francesi. E l’esperienza di questa esistenza disordinata, travagliata, scapigliata, ai limiti della sopravvivenza, oltre che nei gesti, nelle notti affogate nell’alcol, nei vagabondaggi, si concretizza nelle sue poesie. Poesie caratterizzate dalla presenza inquietante di un oblio doloroso e oscuro che attanaglia l’animo disperato del poeta. Non manca l’ombra della morte che, subdola e silenziosa, si allunga su persone e paesaggi, sogni e amori.

Dai componimenti di Ceccardo emerge un conflitto. Il conflitto, tipico dello spirito turbato del poeta, tra il sogno di una vita ideale, idilliaca, artistica, elevata, che anela all’Infinito, e l’incubo di una realtà cruda, orribile, nella quale regnano costrizioni che tarpano le ali generose di chi produce liriche, di chi osserva sempre con occhio colpevolmente incantato.

La sua poetica è abitata da fragili figure evocate con amorevole dolcezza propriamente crepuscolare: la famiglia, la terra, la sua terra e, soprattutto, la natura. Una natura “personificata”, tutt’uno con il poeta, che vive una sorta di autentico panismo che lo riporta alle origini di una umanità non ancora corrotta, progressista, bensì giovane e rispettosa del suo mondo.

Le poesie

Ecco a voi una selezione delle sue poesie più belle. Buona lettura.

VIALE DESERTO

Svolgonsi sul vial, silenziose
l’ore di luna. Splendono i sedili
come in un sogno d’infiniti aprili
macchie di rose
che dilungano in candido filare
per rive ombrose dove tale il vento
e in mezzo scorre un lento scintillare
d’acque d’argento.
Scende il viale: ed un orror aduna
le ombre. E da l’ombre piene di spaventi
escon fantasme da le risplendenti
ali di luna, e vanno con un pallido fruscio
fra i grigi orrori e le marmoree panche
– spiriti di ricordi nell’oblio de l’ore bianche
e come incenso diafano di morte
rose dileguan pel silenzio. – Il Cuore
trema. Oh l’eterno sogno de l’amore
e de la morte!

***

VERSI TRISTI

Oh quando nelle notti limpide i cieli piangono
stelle d’argentea brina
che dice coi canori
suoi lamenti che dice
nel cipresseto placido
l’usignolo a le belle dormenti sotto i fiori?

***

UNA SERA D’INVERNO ALLA FINESTRA

…una divina
malinconia mi bacia
e di sua ombra
mi ravvolge. Io sospiro
e il mar, intanto,
già irrequieto sotto il pallor lento
dell’occaso sereno illividisce
e il gemer cresce. Quel mutar del giorno
ne la notte, io pendendo a la finestra
immobil seguo e una tristezza eterna
con disperata illusion ne libo.

***

IL PIOPPO

Melanconia che da cipressi apprese
orror d’ombre solenni e antico oblio
siede, o pioppo, talor al mormorio
de le tue fronde a luna alta protese.

***

I VOLTI DOLOROSI

Nei volti dolorosi, su le pacate fronti
brilla quietamente effuso, un pallor d’alba
e ne gli occhi ristagna la visione scialba
dei paesi che sognano a l’ombra dei tramonti.
Sotto, l’occhiaie incavansi
come un vecchio sentiero
cui rosero infinite
piogge silenziose;
e i labbri che un oscuro poter, come le rose
morte nei libri, strazia, parlano di chimere
talor la fronte sfiora una carezza d’ale:
la morte? e come un breve spiraglio d’opale
che si svolge tra nuvole misteriose,
gli occhi intravegon lo scorcio d’un paese fiorito
meravigliosamente; trema il cuore e i ginocchi
tremano. E il labbro esangue
mormora: oh, l’infinito!

***

FANTASMI AUTUNNALI

Ecco la morte, o cuore; non senti l’autunno che viene
e in man la falce tiene pei sogni e per l’amore?
ecco: già invade i giardini tra un’onda di nebbia, le spalle
cariche di farfalle morte e di gelsomini.
E invade le colline dal culmine d’oro sognante
sul glauco ciel tramante di guazze settembrine.
Oh strade di campagna ne l’ombra dei vespri perdute
pallide strade mute, dove la pioggia stagna,
ed egli va, a passo lento, le siepi e le rame spogliando
foglia a foglia strappando, fra un singhiozzar di vento!
Già dentro l’umida pieve, nel’albe tra file di ceri
(fuori i cipressi neri tremano al rezzo greve)
scende il pievan di velluto vestito d’or (una squilla
pianger rauca, oscilla, fuori sul borgo muto)
e dice ai morituri: la morte sentite? oh, pregate
per quante son passate, bimbe, gigli sui muri,
pregate pace per quanti mai più tornan dai profondi
capi brinati e biondi, bocche e cuor, palpitanti!
Tu dolce amor lo sai e pensi: l’autunno già viene
e in man la falce tiene: non tornerò più mai.
Che importa se maggio inonda di petali rossi e niveali
gli orti, e di frulli d’ali? Se d’un riso di bionda
luce, le case inonda? Le rose, a novembre, un dì morte,
non sono mai risorte su da la nebbia fonda!
Oh quando batton l’ore dei tristi adii supremi
non vale, o cuor, se gemi, non val se piangi, amore,
un gel di morte ne invade ed ogni sogno si sfoglia:
perfin l’ultima foglia de la speranza cade!
Le mani strette ai miti colloqui, le bocche tra baci,
i volti che di paci rosee il sol ha fioriti
stan larve taciturne in fondo all’anima quali
posano nei ducali orti, tra fonti ed urne
(e dietro sfuman scene di pallida luce soffuse)
l’iddie pagane schiuse le forme al ciel, serene
offron quelle bellezze antiche cullate su l’anche
l’agili membra bianche, nido di tenerezze;
ma sotto il marmo langue la vita (che freddo!) e l’ondate
sue tiepide e rosate mai più vi slancia il sangue.

***

COLLOQUIO SENTIMENTALE

Nel freddo parco ove le nude rame
drizzansi tinte di grigio, ne la bruma,
e per gli umidi viali si consuma
la rosea reliquia del fogliame,
– nel parco – tra l’alèè gialle e brinate,
due ombre proprio adesso son passate.
Son senza sguardo le pupille: morte;
appena un’eco di parole smorte
arriva – appena – ne le nebbie immote:
son molli i labbri e pallide le gote.
Due fantasmi nel parco desolato
hanno evocato il fulgido passato…
…vanno così nel parco dove i rami
– nudi – torpon ne l’aria senza sole:
la notte sola intende le parole:
e la terra è la reliquia dei fogliami.

***

LE RASSEGNATE

L’une – fantasme pallide , smarrite
come in un sogno d’autunni lenti
l’estrema gioventù varcan silenti
ne la penombra de le case avite.
Oh le fanciulle che non son partite
spose! – o, con i diti in umili opre intenti,
beltà sfiorite – o cuor tiepidi spenti:
tutte sacre al’olivo umili vite!
E mamma invecchia: un risplendor che trema
roseo, e accenna, inseguono i fratelli.
Oh amore! E in casa odora il crisantema.
Ed esse estasiate in una pia
vision d’azzurro, pregano, mute: Ave, O Maria.

***

IL VIAGGIO ETERNO

Una pace diffusa di colore
come nei vespri d’un ottobre mite
quando le selve sono ancor vestite
di foglie ma già un tenue pallore
s’insinua pel verde e un’indistinta
malinconia vien dilagando in cuore,
e l’anima si sente ognor sospinta
verso un’ignota meta di dolore….
un cielo bianco, bianco e sonnolento
un paesaggio dalle tinte smorte;
dir si poteva: è il regno de la morte.
questa pianura queta e senza vento?
Io viaggiava verso lei malata,
a piedi e solo, ed ero molto stanco,
era la vista mia come annebbiata
dal polverio de lo stradale bianco.
Era la mente mia una tristezza
senza confine, come un mar di bruma
che fluttua via via, e mai l’alluma
neppur di vespro pallida dolcezza.
Oh! Io voleva affrettarmi e mi sentia
come un legame a’ piedi – che tormento! –
non potea camminare, era la via
così lunga e concesso solo un lento
passo per volta!
…non l’avrei più veduta,
mai più, mai più veduta! O dolce e bella
faccia, o di rose solatie tessuta
faccia che non baciai ma che m’ha riso
forse ora la fatal ombra di morte
t’ha scolorito? ….son le guance smorte
la bocca è chiusa e non ha più sorrriso!

***

LUNI

Poi che dischiuse un impeto sonoro
di scuri a le romane aste la via,
candida da georgico lavoro
Luni sul Macra sinuoso uscia.

Dietro il carro di Bacco e il giovin coro
Il popolo ne la pioggia solatia,
danzando, a l’autunnal quiete d’oro
i dolci amor a Iperion offria.

Ma quando tra ‘l plebeo tedio mortale
S’affacciò Cristo a lacrimar sul mondo,
un ribollir impetuoso d’acque

Luni travolse: quella immota giacque
Coi templi, i riti, il popolo giocondo,
del fiumane l’azzurra ombra vocale.

In copertina: xilografia di Lorenzo Viani.

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