Padre Sergij è tra le opere più intime di Tolstoj. È forse questo il motivo principale per cui il racconto, iniziato nel 1890, vide la luce solo dopo la morte dell’autore. Tolstoj inserisce in Padre Sergij numerosi aspetti autobiografici (si ricordi ad esempio la fuga in abiti da muzik), ma è in generale la fortissima tensione religiosa ed esistenziale, su cui si fonda l’elementare impianto narrativo (elementare come i testi sacri, e penso in particolar modo ai Vangeli), a essere innanzitutto propria del grande scrittore russo, segnandone indelebilmente tutta la lunga vita.
Protagonista del racconto è il bel principe Kasatskij, comandante di uno squadrone del reggimento dei corazzieri della guardia. Uomo focoso, ambizioso, teso in ogni sua azione al raggiungimento della perfezione e del successo, è destinato a una brillante carriera al seguito dello zar Nicola I, nei confronti del quale nutre una vera e propria venerazione. Ma il suo mondo deflagra, va in pezzi per non ricomporsi mai più quando la promessa sposa, la bella contessina Mary Korotkova, due settimane prima delle nozze, durante un idilliaco giorno di maggio, gli confessa di essere stata l’amante del suo adorato zar. Avviene lo strappo decisivo. Kasatskij, ferito nel profondo, offeso nel suo potentissimo orgoglio, reagisce nel modo più eclatante, come del resto è sempre stato nel suo stile di uomo straordinario: abbandona tutto e tutti per farsi monaco. Una reazione clamorosa, dettata ancora una volta dal suo sconfinato orgoglio: «[…] si era fatto monaco per porsi più in alto di coloro che avevano voluto dimostrargli di essere più in alto di lui. […] Facendosi monaco egli dimostrava di disprezzare tutto ciò che pareva agli altri tanto importante e che anche a lui era parso tale, quando era ancora nella guardia, e si poneva a una nuova altezza, tale da permettergli di guardar dall’alto in basso coloro che prima aveva invidiati» [1].
Scegliendo la via monastica Kasatskij si pone dunque a una «nuova altezza», il suo amor proprio, oltraggiato, reagisce nel modo più radicale possibile, suscitando lo stupore dell’alta società (si ricordi l’incipit del racconto: «A Pietroburgo negli anni Quaranta avvenne un fatto che sorprese tutti»), ma non si tratta solo di questo. Perché in Kasatskij è presente anche un autentico, sincero slancio religioso: «Vi era in lui anche un altro sentimento, autenticamente religioso, […] che intrecciandosi con il sentimento dell’orgoglio e con il suo desiderio di primeggiare, lo guidava. La delusione datagli da Mary (dalla sua fidanzata), che egli s’era immaginata tanto angelica e l’offesa patita erano talmente forti, che l’avevano condotti alla disperazione, e la disperazione dove l’aveva condotto? – a Dio, a una fede infantile, che in lui non era mai venuta meno» [2].
Il tema principale del racconto di Tolstoj è l’affrancamento dal sé, il superamento della limitata dimensione dell’io in favore di una ben più ampia, o meglio, illimitata dimensione religiosa. Un tema particolarmente caro anche a Dostoevskij, che, nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità, risalenti alla primavera del 1864, scrive: «Màša distesa sulla tavola. La rivedrò io mai? Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime… E appunto questo è il paradiso di Cristo» [3].
In queste parole di Dostoevskij, annotate mentre veglia il cadavere della prima moglie, è compendiato il senso del racconto di Tolstoj. D’ora in avanti, dall’inizio del percorso monastico, Kasatskij dovrà sostenere una lotta continua e sanguinosa – nel vero senso della parola, come vedremo – contro se stesso, contro il suo orgoglio, che è il peggiore e più spaventoso che esista, perché Kasatskij «non va orgoglioso di una qualche sua dote, intelligenza, bellezza, onestà, no, il suo è esclusivamente l’orgoglio dell’io, inscindibile dal suo io, equivalente al suo io» [4]. Data questa perfetta coincidenza io-orgoglio, per eliminare l’uno occorre necessariamente eliminare l’altro.
Per un monaco russo, il modo più semplice e immediato per dare una prima, forte sferzata al proprio sé è affidarsi totalmente, incondizionatamente al proprio starec, ed è quanto fa Kasatskij. Viene in mente Alëša Karamazov e il suo rapporto con Zosima, ma è necessario sottolineare la differenza sostanziale delle due esperienze, diametralmente opposte: Kasatskij deve obliarsi, mentre Alëša deve formarsi, la sua anima è in divenire [5].
Kasatskij vive sette anni nel suo primo monastero, ricevendo la tonsura e divenendo padre Sergij. Nell’affrancamento dal sé l’abbandono del nome familiare è un passaggio necessario e fondamentale, come se si eliminasse, almeno formalmente, tutto ciò che è stato in precedenza, eliminando una vita, un uomo che non esiste più. Ma al sentimento subentra presto l’abitudine, dunque la noia: «verso il settimo anno della sua vita nel monastero Sergij cominciò ad annoiarsi. Tutto ciò che doveva imparare e raggiungere, l’aveva raggiunto, e dunque lì non aveva più nulla da fare» [6].
Padre Sergij si trasferisce in un monastero vicino alla capitale, e qui si ridesta in lui, prepotente, la tentazione della donna, e in una «forma definitiva». Inoltre sorge in lui una forte avversione nei confronti dell’igumeno arrivista. Avversione che prorompe durante il secondo anno nel nuovo monastero. L’igumeno soddisfa la curiosità di un generale ex comandante del reggimento di padre Sergij, quando era ancora il principe Kasatskij, e lo manda a chiamare. Veemente, ancora una volta, la reazione di padre Sergij, che offende così il suo superiore: «”Reverendo padre, io ho lasciato il mondo per trovare salvezza dalle tentazioni,” disse egli, impallidendo, e con un tremito delle labbra. “E dunque perché mi esponete ad esse proprio qui? Durante la preghiera e nel tempio di Dio”» [7]. Dopo questo episodio padre Sergij scrive al suo vecchio starec, che lo indirizza verso la reclusione. Emblematiche le sue parole: «ti occorre solitudine, per umiliare l’orgoglio» [8].
Al sesto anno di reclusione – nel racconto il tempo è relativo, la sua dimensione non ha importanza -, nei giorni di carnevale, di notte, fa visita a padre Sergij una donna divorziata, la bella e provocante Makovkina. Ella ha scommesso con i suoi ridenti compagni di divertimenti, che passerà la notte con padre Sergij – nonostante l’abbandono del primo nome la sua vecchia identità è nota a tutti -. Padre Sergij, dopo un debole tentativo di resistenza, ospita la donna nella sua cella. Egli è tentato, si aggrappa disperatamente alla preghiera, ma non c’è niente da fare. Ed ecco che Tolstoj scrive alcune delle pagine più sconvolgenti dell’intera storia della letteratura [9]:
«[…] aveva udito ogni cosa. L’aveva udita, quando aveva fatto frusciare la stoffa di seta, mentre si toglieva il vestito, e anche quando aveva camminato a piedi nudi sul pavimento; aveva udito come si era massaggiata le gambe con la mano. Aveva sentito di essere debole, e d’essere ad ogni istante sul punto da cadere, e perciò aveva pregato incessantemente. Provava qualcosa di simile a ciò che deve provare quell’eroe delle fiabe quando deve camminare senza guardarsi intorno. Così anche Sergij sentiva, percepiva che il pericolo, la rovina era lì, sopra di lui, intorno a loui, e che avrebbe potuto salvarsi soltanto se non avesse guardato verso di essa neppure per un attimo. Ma tutt’a un tratto il desiderio di guardare lo prese. E in quello stesso istante lei disse:
“Sentite. È inumano. Potrei morire”.
“Sì, ci andrò, ma così come fece quel padre che mise una mano sulla peccatrice e l’altra mano su un braciere. Ma qua il braciere non c’è.” Si guardò attorno. La lampada. Mise il dito sulla fiamma e corrugò le sopracciglia, preparandosi a sopportare, e per un tempo abbastanza lungo gli parve di non sentire nulla, ma improvvisamente – non aveva ancora capito se e quanto gli facesse male, ma fece una smorfia con tutto il viso e ritrasse la mano, scuotendola. “No, questo non riesco a farlo.”
“Per l’amor di Dio! Oh, venite da me! Io muio, oh!”
“E dunque, cadrò? Ma no, no.”
“Adesso vengo da voi,” proferì, e aperta la porta, senza guardare verso di lei, passandole accanto andò nel vestibolo, dove di solito spaccava la legna, trovò a tastoni il ceppo su cui spaccava la legna, e la scure, appoggiata alla parete.
“Adesso,” disse, e presa la scure nella mano destra, mise l’indice della mano sinistra sul ceppo, sollevò la scure e lo colpì sotto la seconda falange. Il dito saltò via più facilmente di quanto non avvenisse con legni di quello stesso spessore, si rigirò in aria e cadde, con un suono molle, prima sull’orlo del ceppo e poi a terra.
Udì quel suono, prima di sentire il dolore. Ma non fece in tempo a stupirsi di non sentire dolore, che avvertì un dolore bruciante e il sangue che fluiva caldo. Strinse in fretta la falange mozza con l’orlo della tonaca e, premendola contro il fianco, rientrò dalla porta e, fermandosi dinanzi alla donna, e abbassando gli occhi, disse piano:
“Cosa volete?”
Lei guardò il suo volto impallidito, con la guancia sinistra che tremava, e tutto a un tratto ebbe vergogna. Balzò su, afferrò la pelliccia e gettatasela indosso vi si avvolse tutta.
“Sì, stavo male… ho preso freddo… io… Padre Sergij… io…”
Lui alzò verso di lei gli occhi, che risplendevano d’una soave luce gioiosa, e disse:
“Cara sorella, perché volevi perdere la tua anima immortale? Le tentazioni devono venire nel mondo, ma guai a colui attraverso il quale entra la tentazione… Prega che Dio ci perdoni.”
Lei lo ascoltava e lo guardava. Guardò e vide il sangue che scorreva lungo la tonaca.
“Che avete fatto alla mano?” Lei ricordò il rumore che aveva udito e, afferrata la lampada, corse fuori nel vestibolo e vide sul pavimento il dito insanguinato. Più pallida di lui tornò nella stanza e avrebbe voluto dirgli qualcosa; ma lui entrò in silenzio nel ripostiglio e chiuse a chiave la porta dietro di sé.
“Perdonatemi,” disse lei. “Come posso riscattare il mio peccato?”
“Vattene.”
“Lasciate che fasci la vostra ferita.”
“Vattene di qua.”
Lei si rivestì, in fretta e in silenzio. E pronta, con la pelliccia indosso, sedeva, in attesa, Fuori si udirono i sonagli.
“Padre Sergij. Perdonatemi.”
“Vattene. Dio perdonerà.”
“Padre Sergij. Io cambierò la mia vita. Non abbandonatemi.”
“Vattene.”
“Perdonatemi e datemi la vostra benedizione”.
“In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,” si udì da dietro il tramezzo. “Vattene.”
Lei scoppiò a piangere e uscì dalla cella» [10].
Sì, padre Sergij afferra la scure e senza esitazione si mozza un dito per non cedere alla tentazione. E questo gesto clamoroso ha persino il potere di redimere per sempre la sensuale e provocante Makovkina. Non è un’azione disperata fine a se stessa, ma salva l’esistenza di una donna vittima della depravazione. Qui padre Sergij si spinge oltre il limite, giungendo all’eliminazione di una parte fisica di sé. La mutilazione come mezzo per salvaguardare l’integrità spirituale. Eccezionale.
La fama di padre Sergij cresce, cresce a dismisura, si diffonde, e nell’ottavo anno di reclusione arriva anche la sua prima guarigione. Padre Sergij è ora un celebre taumaturgo, i pellegrini giungono da tutta la Russia pur di vederlo e riceverne la benedizione. Ma la fama porta a un mutamento radicale, e ovviamente in negativo. La vita interiore va in frantumi lasciando spazio solo ed esclusivamente alla vita esteriore. Padre Sergij non agisce più per Dio, ma per gli uomini, per preservare e magari accrescere la loro venerazione. Padre Sergij è consapevole del suo negativo cambiamento, pensa alla fuga, procurandosi degli abiti da muzik, proprio come il suo creatore – ed è forse questo il momento di massima corrispondenza, coincidenza tra il protagonista del racconto e il suo autore -, ma non mette in atto questo proposito, non ancora almeno.
«”Vi era una debole sorgente d’acqua viva, che scorreva piano da me, attraverso di me. Quella era la vera vita, quando lei (ricordava sempre con entusiasmo quella notte, e lei. Adesso era diventata madre Agnja) mi aveva tentato. Lei l’assaggiò quell’acqua pura. Ma da allora l’acqua non fa a tempo a raccogliersi, che vengono degli assetati, e si affollano, e si spingono via l’un l’altro. E loro hanno calpestato tutto, è rimasto soltanto fango”» [11], pensa padre Sergij. Egli sa, ma sapere non basta, in lui svaniscono umiltà e purezza; sorge di nuovo il suo orgoglio, maestoso, domato, sì, ma non definitivamente abbattuto dalla solitudine. Padre Sergij si piega alle esigenze del suo nuovo ruolo di mondano taumaturgo. È il preludio della definitiva, rovinosa caduta.
Padre Sergij non è più capace di resistere, e cede alle sensuali lusinghe di una giovane nevrastenica. Dopo la caduta pensa di uccidere la tentatrice («Lei è il diavolo», si dice, afferrando la scure, quella stessa scure), ma alla fine si dà alla fuga. Indossa gli abiti da muzik, si taglia i capelli e scappa, nel gelido crepuscolo del mattino. Padre Sergij non è più padre Sergij, ma di nuovo Kasatskij. Che lo sia sempre restato, eccetto la parentesi della reclusione, della solitudine totale, dell’automutilazione? Kasatskij rifiuta Dio, pensa al suicidio, ma ha una visione:
«Ed ecco, si rivede quasi ancora bambino, nella casa di sua madre, in campagna. E gli si avvicina una carrozza, e dalla carrozza scendono: lo zio Nikolàj Sergèevič, con la sua enorme barba nera, quadrata come una vanga, e con lui la fanciulla Pàšen’ka, magrolina, con grandi occhi miti e un viso misero, timido. Ed ecco che questa Pàšen’ka la conducono da loro, verso il loro gruppetto di ragazzi maschi. E bisogna giocare con lei, ma è noiosa. È stupida. Va a finire che la deridono, e la obbligano a far vedere come fa quando nuota. Lei si distende per terra e lo fa vedere, così, per terra. E tutti ridono e le fanno fare la figura della scema. E lei se ne accorge e arrossisce a chiazze, e diventa proprio penosa, talmente penosa a vedersi che se ne ha vergogna e che poi non si riesce a dimenticare mai più quel suo sorriso storto, buono, sottomesso. E ricorda, Sergij, di quando la rivide poi. La rivide molto tempo dopo, prima d’entrare in monastero. Era sposata con un proprietario terriero, che aveva sperperato tutto il patrimonio di lei e la picchiava. Aveva avuto due figli: un maschio e una femmina. Il maschio era morto quand’era ancora piccolo» [12].
Perché proprio la povera, sfortunata Pàšen’ka? Pàšen’ka è la salvezza, come conferma a Kasatskij un angelo, in sogno: «”Va da Pàšen’ka e chiedi a lei cosa devi fare, qual è il tuo peccato e qual è la tua salvezza”» [13]. Kasatskij ritrova la fede in Dio e si reca dalla donna. Bellissimo è il momento del riconoscimento:
«”Pàšen’ka. Sono venuto da te. Non mandarmi via.”
E i suoi bellissimi occhi neri la guardavano fissamente, supplicandola, e avevano cominciato a luccicare per le lacrime che vi spuntavano. E sotto i baffi incanutiti le labbra tremavano, muovendo a pietà.
Praskov’ja Michàjlovna si strinse le mani al petto rinsecchito, aprì la bocca e rimase immobile con le pupille abbassate verso il volto del pellegrino.
“Ma non può essere! Stëpa! Sergij! Padre Sergij.”
“Sì, proprio lui,” disse piano Sergij. “Solo che non è Sergij, non è padre Sergij, ma il grande peccatore Stepàn Kasatskij, uomo caduto, grande peccatore. Non mandarmi via, aiutami”» [14].
Kasatskij ascolta il racconto della vita di Pàšen’ka, si informa su come ella viva – la sua è un’esistenza misera, fatta di stenti e sacrifici, ma senza mai perdersi d’animo -, e andandosene comprende finalmente il senso più profondo e autentico del precedente sogno: «”Ecco dunque cosa significava il mio sogno. Pàšen’ka è proprio ciò che io dovevo essere e non sono stato. Io ho vissuto per gli uomini con il pretesto di Dio, e lei vive per Dio, immaginandosi di vivere per gli uomini. Sì, una sola azione buona, una tazza d’acqua offerta senza pensiero di ricompensa, è più preziosa di tutti i benefici che io ho portato alla gente. Ma c’era in me almeno un poco di desiderio sincero di servire Dio?”, domandava a se stesso, e la risposta fu: “Sì, ma tutto è stato sporcato, soffocato dalla gloria degli uomini. Sì, non c’è Dio per chi ha vissuto come me per la gloria degli uomini. Lo cercherò.”» [15]
E Kasatskij sceglie la strada; va di villaggio in villaggio, «unendosi e congedandosi da pellegrini e pellegrine e chiedendo per amore di Cristo pane e un giaciglio per la notte» [16]. Con la sua mitezza vince tutti, dispensando favori e consigli, appianando liti e andandosene prima che i suoi beneficiari possano ringraziarlo. Di gratitudine non ha più bisogno, il suo orgoglio è oramai vinto e sepolto, per sempre.
La sua vita errante dura otto mesi, il nono viene arrestato per mancanza di documenti. Egli non è più nessuno ormai, solamente un «servo di Dio», come risponde alle autorità alla domanda: chi sei? Egli ha finalmente schiacciato il suo io, non c’è più nessuna sanguinosa lotta. Messo tra i vagabondi, viene processato e condotto in Siberia: «In Siberia andò a vivere da un muzik ricco, a servizio, e adesso vive là. Lavora nell’orto del suo padrone, e insegna ai bambini, e accudisce i malati» [17]. Si conclude così il racconto di Tolstoj.
Due ultime considerazioni: 1) come già in Delitto e castigo [18], il primo dei quattro grandi romanzi di Dostoevskij, anche qui l’ampia, sconfinata Siberia si configura come patria ideale della rinascita, luogo simbolo di un’esperienza esistenziale finalmente autentica, sincera, e nel nome di Dio; 2) il passaggio dal passato al presente – «e adesso vive là» -, che eterna, immortala la vicenda, tanto da far venire voglia di recarsi in Siberia e cercare la casa del ricco muzik dove vive e lavora lui, il protagonista di Padre Sergij, un tempo principe Stepan Kasatskij, un tempo monaco e taumaturgo, oggi e per sempre «servo di Dio».
NOTE
[1] Lev Tolstoj, Padre Sergij, a cura di Igor Sibaldi, Feltrinelli, Milano 2015, p. 26.
[2] Ivi, pp. 26-27.
[3] Fëdor Dostoevskij, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 153-154.
[4] Igor Sibaldi, Introduzione a Lev Tolstoj, Padre Sergij, op. cit., p. 9.
[5] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Dostoevskij si vedano gli articoli: I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.
[6] Lev Tolstoj, Padre Sergij, op. cit., p. 33.
[7] Ivi, p. 37.
[8] Ivi, p. 38.
[9] Si veda l’articolo I Fondamentali – Pagine sconvolgenti.
[10] Lev Tolstoj, Padre Sergij, op. cit., pp. 51-54.
[11] Ivi, pp. 61-62.
[12] Ivi, p. 73.
[13] Ivi, p. 74.
[14] Ivi, p. 77.
[15] Ivi, pp. 83-84.
[16] Ivi, p. 84.
[17] Ivi, p. 86.
[18] Si veda l’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.