Figure 10. Philip Johnson at the New York State Theater (now the David H. Koch Theater), Lincoln Center, New York, New York, ca. 1964.

Novecentismi architettonici – Philip Johnson

Per chi non lo conoscesse, Philip Johnson è stato uno dei personaggi più scaltri del XX secolo, è quello che nel gergo sportivo verrebbe chiamato “talent scout”, è un trovatore di tesori, un pirata dell’architettura, un capitano coraggioso in grado di riuscire a capire le potenzialità delle persone e del loro operato semplicemente passandovi lo sguardo sopra. Fu un rabdomante di talento, e come fece anni dopo per la truppa decostruttivista (Zaha Hadid, Frank Gehry e soci), così percepì immediatamente un’esigenza contemporanea: dare un nome alle cose, dare un nome a tutto ciò che accadeva in Europa, captando l’enormità di talento che scorreva nel vecchio continente.

Tutto iniziò al MoMA di New York, nel 1932: a pochi anni dall’apertura del museo d’arte contemporanea, Johnson e Hitchcock (critico e storico dell’arte) decisero di organizzare la prima mostra dedicata all’architettura, segnalando come portavoce del nascente movimento quella schiera di architetti che oggi sono noti come i “padri del movimento moderno”. I due statunitensi avevano da poco intrapreso un viaggio europeo nel quale avevano conosciuto Gropius, Le Corbusier, Mendelsohn, Oud, Mies van der Rohe, e fu proprio su quell’esperienza che venne immaginata la mostra dal titolo “Modern Architecture: International exhibition”, che dal 10 febbraio del 1932 aprì i battenti.

Henry-Russell Hitchcock, Philip Johnson, The International Style: Architecture Since 1922, 1932

Si può dunque affermare che il libro che nacque successivamente la mostra, dal titolo “The International Style: Architecture Since 1922”, ha avuto la sua stessa genesi, forse anche lo stesso concepimento: come due gemelli biovulari, hanno condiviso un “utero” così la mostra ed il libro si trovano uniti in quella che sembra la loro pangea, ma mentre la mostra prende una strada più analitica e informale, le circa 200 pagine di libro rosso sono la risposta statunitense e architetturale al libro rosso di Mao: infatti non ci sarà niente di più capitalistico e uniformante dell’International Style.
Ma politica a parte, la grande novità del libro fu il tentativo, anche piuttosto riuscito, di sintetizzare in maniera scientifica (come solo Hitchcock, da bravo storico dell’arte, poteva riuscirvi) in tre punti principali questo nuovo stile, carpirne i punti in comune e metterli a sistema. Quello che ne uscì fu un’analisi estremamente arguta e interessante nella quale Hitchcock delineò i contorni di questo “nuovo” movimento moderno come uno stile unitario al pari del Gotico e del Barocco: l’architettura nell’era tecnica deriva dalla logica delle funzioni ma non è mera costruzione ed è sostanzialmente riconoscibile da tre principi fondamentali. Il primo gira intorno al concetto di massa e volume: l’opera architettonica è una composizione di superfici e di sezioni che alleggeriscono l’aspetto “massiccio” che aveva caratterizzato gran parte degli edifici fino a quel momento. Inoltre le superfici, spesso lisce o vetrate, alleggeriscono ancora di più la materia rendendole più chiare. Il secondo invece riguarda la così detta “regularity”, che deve sostituirsi alla progettazione simmetrica, nel senso di rompere una monotona regolarità assoluta. Il terzo è un retaggio ancora presente all’epoca dell’insegnamento di Loos, ovvero l’assenza di elementi ornamentali: la qualità estetica è dovuta dall’utilizzo dei materiali e delle proporzioni.

La risonanza che raggiunse negli Stati Uniti fu tale che nello stesso anno la mostra e il libro fecero il giro del paese, portando con metodi “propagandistici” (come affermò Wright, scontento della definizione assolutistica di “stile”) i precetti moderni nel nuovo continente.

Qualche anno più tardi Hitchcock rinnegherà molte delle loro perentorie affermazioni, mentre Johnson salterà su altre correnti, progettando in lungo e in largo nella sua vita da centenario. I risultati ad anni di distanza rimasero decisivi nella storia dell’architettura statunitense, spianando la strada all’arrivo di Gropius ad Harvard, spingendo Mies van der Roohe a stabilirsi a Chicago, gli Stati Uniti si ritrovarono di fatto dei nuovi maestri in casa.

Letture consigliate:

Henry-Russell Hitchcock, Philip Johnson, The International Style: Architecture Since 1922, 1932

Piano delle uscite

Novecentismi architettonici – Un secolo, i suoi padri e i suoi figli
Adolf Loos, Ornament und verbrechen, 1908
Frank Lloyd Wright, Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright, 1910
Tony Garnier, Une Cité industrielle: Etude pour la construction des ville, 1917
Bruno Taut, Die Stadkrone, 1919
Le Corbusier, Vers une Architecture, 1923
Walter Gropius, Internationale Architektur, 1925
Henry-Russell Hitchcock, Philip Johnson, The International Style: Architecture Since 1922, 1932
Sigfried Giedion, Space, Time and Architecture. The Growth of a New Tradition, 1941
Aldo Rossi, L’Architettura della Città, 1966
Robert Venturi, Complexity and contradiction in Architecture, 1966
Rem Koolhaas, Delirious New York: A retroactive Manifesto for Manhattan, 1978 / S,M,L,XL, 1995

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