Considerato da molti il libro più complesso del Novecento, e non solo, l’Ulisse di Joyce segna una svolta nella storia della letteratura. Con il suo ultra-sperimentalismo – uso massiccio del monologo interiore e del flusso di coscienza, realismo integrale, pluralità di stili (epico, biblico, medievale, fiabesco, giornalistico, dialettale) e registri (comico, sublime), una sperimentazione linguistica così accanita da rasentare talvolta la depravazione e preludio del nuovo linguaggio di Finnegans Wake – Joyce si spinge fino al limite estremo della letteratura, giungendo laddove è la sua fine. Oltre l’Ulisse è il silenzio.
Il romanzo presenta tre protagonisti: Leopold Bloom, trentottenne agente pubblicitario di origine ebraica, esule atavico, perfettamente solo, figlio di un ungherese mercante di cianfrusaglie morto suicida e padre di due figli: una femmina adolescente già fuori di casa e Rudy, un maschio morto pochi giorni dopo la sua nascita; Molly Bloom, consorte di Leopold, abbondante e sensuale cantante lirica dal seno enorme, fedelissima infedele tutta carne e sangue; Stephen Dedalus, ventiduenne artista già protagonista del joyciano Ritratto [1], esule volontario, malato d’erudizione e, a detta di un conoscente del blasfemo studente di medicina Buck Mulligan, di p.g.a. ovvero paralisi generale degli alienati.
Ritroviamo Dedalus di nuovo a Dublino, dopo la fuga annunciata nel precedente libro. A Parigi ricevette il seguente telegramma dal padre Simon, uno degli innumerevoli personaggi minori che ruotano attorno alla santissima Trinità quel 16 giugno 1904: «Manna morente torna a casa papà». Lo apprendiamo sin dal primo episodio dell’Ulisse, ambientato nella torre Martello, Dedalus è roso dal verme del rimorso: ha detto no a sua madre morente che lo invitava a inginocchiarsi e pregare con e per lei. Il ricordo della madre si impone nel giovane spesso, talvolta come una vera e propria ossessione, ispirandogli riflessioni sull’amore materno che ritengo straordinarie. Vediamone alcune.
Dopo aver lasciato per sempre, almeno nelle intenzioni, la torre e Buck l’«usurpatore» Mulligan, Dedalus si reca nella scuola diretta da Mr Deasy, dove insegna. Terminata la lezione, si avvicina a lui uno studente, tale Sargent: «Brutto e nullo: collo magro e capelli folti e una macchia d’inchiostro, una traccia di lumaca. Eppure c’era una che lo aveva amato, portato in braccio e dentro al cuore. Se non fosse stato per lei la maratona del mondo lo avrebbe schiacciato sotto i piedi, spiaccicata lumaca senza vertebre. Lei aveva amato quel debole sangue acquoso trasfuso dal proprio. Era dunque vero? La sola cosa autentica della vita?» [2]. E nel brutto e nullo Sargent Dedalus rivede se stesso.
Passiamo al nono episodio. Nella Biblioteca Nazionale Dedalus espone la sua teoria sull’Amleto, e la sua mente elabora le seguenti riflessioni sulla paternità e l’amore materno: «La paternità, in quanto generazione cosciente, è sconosciuta all’uomo. È uno stato mistico, una successione apostolica, dall’unico generatore all’unico generato. Su quel mistero e non sulla madonna che lo scaltro intelletto italiano ha gettato in pasto alle genti d’Europa è fondata la chiesa e fondata irremovibilmente in quanto è fondata, come il mondo, macro e microcosmo, sul vuoto. Sull’incertezza, sull’improbabilità. Amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l’unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa?» [3].
In questo passo Dedalus evidenzia tutta l’incommensurabile differenza tra uomo e donna. Differenza ancestrale, fondativa dell’Ulisse. L’amore materno è una forza paragonabile a quella degli elementi naturali. Una forza terragna sconosciuta all’uomo. Mentre l’uomo è incline all’astrazione, alla metafisica, alla dialettica, la donna affonda le proprie radici in profondità nella terra. In un mondo di sole donne Dio non sarebbe mai esistito.
Nei due passi sopracitati Dedalus si domanda dapprima se l’amore materno sia la sola cosa autentica della vita, rispondendo poi affermativamente, ma con un forse. Eliminiamo anche questo forse. La vera risposta è quella di Molly: «e sì dissi sì voglio Sì». Sono le parole che concludono il suo monologo e l’Ulisse. Molly è tutto. È la Donna, e come tale non può concepire l’amletico dilemma. Per lei all’essere non ci sono alternative, non esistono. Bloom e Dedalus fantasticano, filosofeggiano, entrambi, chi per un motivo e chi per un altro, sono tormentati dal rimorso. Nel loro vano e sterile elucubrare, e mi riferisco soprattutto al giovane artista, si allontanano dall’essenza della vita. Colei che sa è Molly, è lei l’omphalos, grumo di carne e sangue dotato di un’energia vitale straordinaria. Non è un caso che Joyce, servendosi del modello omerico, estraneo dunque alla cultura cattolica, costruisca una nuova santissima Trinità: padre-Leopold Bloom-Ulisse, figlio-Stephen Dedalus-Telemaco e non Spirito ma madre-Molly Bloom-Penelope. E non solo la madre sostituisce lo Spirito, ma si impone come la più importante delle tre persone, come indica la collocazione nel romanzo del monologo di Molly. Penelope all’inizio, perché nel primo episodio è identificata con la defunta madre di Dedalus, e alla fine. Perché è la donna l’inizio e la fine del genere umano.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul romanzo si veda l’articolo Lo sviluppo artistico-intelletuale di Stephen Dedalus nel Ritratto dell’artista da giovane.
[2] James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, pp. 28-29.
[3] Ivi, p. 202.