Come abbiamo visto nel precedente capitolo, per Michelstaedter «abituarsi a una parola è come prendere un vizio» [100]. Inoltre egli afferma, perentoriamente, che «non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi creare il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita» [101]. Il goriziano, anche in questo caso, non si limita a fare della teoria, egli la sua teoria la mette in pratica, e nella scrittura della tesi di laurea, come di ogni altra sua opera, si sforza proprio di creare una nuova lingua, innanzitutto attraverso un sistematico processo di risemantizzazione delle parole [102]. Risemantizzazione che riguarda in primis – e non potrebbe essere altrimenti, perché in caso contrario l’intero nostro discorso verrebbe a crollare – la coppia di parole che costituisce il nucleo fondamentale del pensiero di Michelstaedter: «persuasione» e «rettorica». In entrambi i casi, il goriziano fornisce queste due parole di significati che non appartengono loro nella secolare consuetudine filosofico-letteraria a lui precedente. Cosicché la «rettorica», molto succintamente, non indica più soltanto l’arte dell’uso della parola, né la «persuasione» più soltanto l’atto attraverso cui convincere qualcuno a credere, dire o fare qualcosa.
All’interno del pensiero michelstaedteriano, la parola «rettorica» ha un’implicazione innanzitutto ontologica, indicando una diffusa e colpevole inautenticità esistenziale. È lo stesso goriziano a dichiararlo, quando, nelle prime pagine della seconda parte della tesi di laurea, dedicata proprio alla «rettorica», la definisce «inadeguata affermazione d’individualità» [103]. La sua è una storia secolare, come abbiamo già visto, che nasce con Platone ed Aristotele, e che, salvo rarissime eccezioni, riguarda l’intera storia del pensiero del genere umano da Socrate in poi, senza interruzioni.
Dunque, riguardando in primis la dimensione ontologica, è evidente che la «rettorica», a cascata, si rifletta su ogni altro aspetto dell’essere, e soprattutto sull’aspetto linguistico, perché, ricordandolo per l’ennesima volta [104], per Michelstaedter è proprio attraverso la parola che l’uomo costituisce ed afferma se stesso. Riguardo questo aspetto linguistico – che ricollega in un certo senso la parola «rettorica» al suo senso vulgato – scrive la Taviani che ad essere rettorico «è anzitutto il linguaggio attraverso cui viene veicolato un insieme inautentico di valori, volto ad addomesticare l’esistenza dell’umanità» [105].
Ma anche l’aspetto sociale è interessato, e sottolinea Camerino come il concetto di «rettorica» nel goriziano finisca per investire «gli artificî e i meccanismi a vuoto di ogni aspetto dell’attività produttiva, economica, materiale o anche psicologica, con la quale l’uomo cosiddetto socializzato s’illude di realizzare il movimento della vita e il suo stesso progresso» [106].
Linguaggio e società: è innanzitutto in questi due ambiti che si riflette l’inautenticità esistenziale della «rettorica»; ed è per questo che l’aspra critica michelstaedteriana, nella tesi di laurea come anche nel Dialogo della salute e nelle Poesie, riguarda soprattutto questi due ambiti. Perché, come evidenzia la Taviani, «Michelstaedter intuisce che i valori dominanti di un’epoca sono connessi all’impalcatura rettorica di una società; che a veicolarli sono le stesse abitudini linguistiche di un paese» [107]. E il goriziano, che contro i valori dominanti della propria epoca è in trincea [108] – Michelstaedter il suo conflitto mondiale lo vive in anticipo; «Con le parole guerra alle parole» -, si scaglia contro le abitudini linguistiche, le sovverte.
Se la «rettorica» rappresenta il polo negativo della filosofia michelstaedteriana, la «persuasione» rappresenta il polo positivo, configurandosi come adeguata affermazione d’individualità, e indicando quindi, ontologicamente, l’autenticità esistenziale. In particolar modo, come sottolinea Harrison, nel goriziano la parola «è, di norma, sinonimo di autodeterminazione» [109]. «La persuasione è il possesso presente della propria vita» [110], scrive Michelstaedter in un appunto.
Dal punto di vista linguistico, la «persuasione» rappresenta «un modo diverso di usare la parola» [111], spingendosi al di là dei significati convenuti; la parola del persuaso è «luminosa» e «crea la presenza di ciò che è lontano» [112]. E torniamo così al passo della tesi di laurea citato in apertura di questo capitolo: il persuaso deve creare da zero la propria lingua.
Dal punto di vista sociale invece, come scrive Muzzioli, la «persuasione» si impone innanzitutto come «resistenza» alla «rettorica» [113].
L’intera produzione filosofico-letteraria di Carlo Michelstaedter è interessata da questo fondamentale e sistematico processo di risemantizzazione delle parole. Entrando nel dettaglio, esplorando il testo de La persuasione e la rettorica se ne trovano numerosi esempi.
In generale, tutte le citazioni presenti subiscono tale operazione, ma di questo ci occuperemo in modo approfondito più avanti, in un capitolo specifico. Oltre a ciò, è possibile notare come uno dei procedimenti cardine nei testi del goriziano, notato da Muzzioli e inscrivibile all’interno del più generale processo di risemantizzazione, sia «il ribaltamento dei contrari: egli dimostra, in tal modo, non solo la falsità del linguaggio quotidiano, ma anche la complessità semantica dei nuclei verbali. […] il positivo contiene il negativo e viceversa» [114]. Così un inautentico dare o fare è in realtà un subire [115], mentre un autentico dare è in realtà avere [116]; così il dolore, nel persuaso che sa farsene carico, che sa sopportarne il peso senza porvi empiastri, è in realtà gioia [117]. Sono numerosissimi i casi analoghi.
Un altro caso particolarmente interessante all’interno della tesi di laurea, è il ribaltamento del cogito ergo sum cartesiano, attraverso il quale Michelstaedter capovolge, svalutandola completamente, da cima a fondo, l’intera moderna filosofia razionalistica occidentale.
Ma cogito non vuol dire «so»; cogito vuol dire cerco di sapere: cioè manco del sapere: non so. Ma per gli uomini volere una cosa è averla, voler conoscere è conoscere, esser sulla via della conoscenza, aver in sé modi e mezzi finiti per la conoscenza. Se già conoscessero non si muoverebbero più, non avrebbero più bisogno d’affermarsi; se non avessero via alla conoscenza non si muoverebbero come coloro che non avrebbero via per muoversi: Sappiamo o non sappiamo: ἢ πάμπαν πελέμεν χρεών ἐστιν ἢ οὐκί (Parmenide).
Ma la necessità per gli uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero, ma grigio; sono e non sono, conosco e non conosco: il pensiero diviene. I dati per sé non sono niente, dicono gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni, contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la realtà è la via: la macchina che muove i concetti: l’attività filosofica.
Ma se pensare vuol dire agitare concetti, che appena per questa attività devono divenire conoscenza: io sono sempre vuoto nel presente e la cura del futuro dove io fingo il mio scopo mi toglie tutto il mio essere. Cogito = non-entia coagito, ergo non sum [118].
Tra i casi più singolari, più originali vi è senza dubbio quello del passaggio dal singolare di IXΘΥΣ («Pesce») al plurale di IXΘΥEΣ («Pesci») [119]. Spiega Campailla:
Come è noto, le iniziali di Ἰησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Ὑὸς Σωτήρ («Gesù Cristo di-Dio Figlio Salvatore») formano IXΘΥΣ («Pesce»). Quelle di Ἰησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Ὑὸς Ἑαυτοῦ Σωτήρ («Gesù Cristo di-Dio Figlio di-Se stesso Salvatore») formano IXΘΥEΣ («Pesci»). Per gli antichi Cristiani il pesce era il simbolo soteriologico di Cristo. Convertendo il singolare nel plurale, come spiega nel testo («…avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero…») Michelstaedter vuol intendere che nessuno può aspettare la salvezza da un altro, nemmeno da Cristo; ma deve ottenerla da se stesso, deve essere Pesce egli stesso. Su questa complessa simbologia l’autore inventa la creatura autobiografica di Itti, il Pesce figlio del mare, nel poemetto intitolato appunto I figli del mare, che rivive liricamente le istanze della filosofia della Persuasione [120].
Un altro caso evidente di risemantizzazione riguarda la parola «salute». Scrive Campailla che la salute «è valetudo e nello stesso tempo salus, salute e nello stesso tempo salvezza» [121], individuandola infine nel «Bene» [122], e sottolineando la posizione platonica e stilnovistica di Michelstaedter, in contrapposizione ad un D’Annunzio o ad un Thomas Mann.
Personalmente, credo che nel goriziano, vista l’intima interdipendenza esistente tra la tesi di laurea ed il Dialogo, anche la parola «salute», come «rettorica» e «persuasione», abbia una valenza eminentemente ontologica, indicando lo stato complessivo – morale soprattutto, e poi di conseguenza anche organico – del persuaso, di colui che afferma adeguatamente la propria individualità, vivendo in se stesso, possedendo tutto nel presente, indipendente dal futuro e dalle contingenze, immune al dio della φιλοψυχία, alla paura della morte, capace di sopportare il peso del dolore. La «salute» in questo senso si configurerebbe come una diretta conseguenza dell’essere persuaso, in opposizione a quella malattia che caratterizza la letteratura decadente dell’epoca, e che invece è conseguenza della «rettorica» [123].
In precedenza ho scritto che la risemantizzazione delle parole interessa l’intera produzione filosofico-letteraria di Michelstaedter, e dunque anche le Poesie. Anche qui si assiste al già segnalato «ribaltamento dei contrari» individuato da Muzzioli:
Ad esempio: in ciò che è ritenuto “vita” scopre la “diuturna morte” del divenire; mentre la “morte” tanto paurosa non è una fine, ma un punto di passaggio delle forme viventi […] [124].
Leggiamo i versi in questione, tratti rispettivamente da Marzo, Aprile, Alla sorella Paula e dalla terza lirica del canzoniere A Senia:
Ed il pavido borghese
che nell’ossa porta il gelo
dell’inverno trapassato
e col corpo imbarazzato
geme il reuma ed il torpore,
che nel volto porta il velo
della noia ed il pallore
della diuturna morte,
si rinchiude frettoloso
si rinvoltola accidioso
e incardina le porte [125].Così nel giorno grigio si continua
ogni cosa che nasce moritura,
che in vari aspetti pur la vita tiene –
ed il tempo travolge – e mentre viva
vivendo muor la dïuturna morte [126].Ma l’augurio che ciò ch’ei mai non ebbe
pur un istante
promette in lunghi anni luminosi
dia la sua luce presa dal futuro
al giorno natalizio, e l’illusione
moltiplicando gli finga la fame
esser un bene e vita sufficiente
la diuturna morte [127].Ahi, non questa sognammo amara morte
nel suo pallido aspetto pauroso,
questa che va a picchiar tutte le porte
e ai morti dalla nascita il riposo
finge nel tempo eterno e tenebroso,
ma la giovane morte che sorride
a chi per la sua cura non la teme,
la morte che congiunge e non divide
la compagna e il compagno e non li preme
con l’oscuro dolore – ma che insieme
li accoglie nel suo seno, come il porto
di pace chi ha saputo navigare
nel mar selvaggio, nel deserto mare,
che a terra non s’è vòlto per conforto [128].
Inoltre, nota sempre Muzzioli, «Il discorso poetico procede sottilizzando sulle sfumature dei significati. Parole che sembrerebbero equivalenti si ritrovano su barricate nemiche» [129]. Leggiamo, e questa volta i versi sono tratti dalla sesta poesia di A Senia:
Ti son vicino e tu mi sei lontana
mi guardi e non mi vedi, o s’io ti parlo,
pur amando ascolti, non però m’intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son un dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi [130].
Michelstaedter crea così una nuova lingua, priva le parole dei loro significati convenuti, prefabbricati, prestabiliti, imposti dalla «rettorica», e gliene assegna di nuovi, oppure insiste sui più inconsueti. Si potrebbe quasi creare un vocabolario michelstaedteriano, ma «a che bene?» – riprendendo il fondamentale quesito di Nino nel Dialogo della salute -, visto che «abituarsi a una parola è come prendere un vizio», e che «non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel creare tutto da sé», lingua compresa? Sarebbe forse l’atto rettorico per eccellenza.
[100] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 101.
[101] Ivi, p. 103.
[102] Sergio Campailla, Introduzione a Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1982, p. 17; Angela Michelis, Un uomo di fine / inizio secolo: l’eco del canto nell’oscurità del cuore, in AA.VV. Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., pp. 18-19.
[103] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 98.
[104] Del resto lo stesso Michelstaedter, nell’Appendice IV, scrive che «Chi è tutt’uno col suo soggetto e parla perché questa è la sua vita, vedrà in ogni cosa tutto e a proposito d’ogni cosa dirà sempre lo stesso». Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 227.
[105] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., pp. 30-31.
[106] Giuseppe Antonio Camerino, La “rettorica” di Michelstaedter e la “Sprachkritik” viennese, in Giuseppe Antonio Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper, op. cit., pp. 11-12.
[107] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 30.
[108] Siano essi sociali – la borghesia -, filosofici – Croce -, letterari – D’Annunzio -.
[109] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di M. Codebò e F. Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, p. 72.
[110] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., p. 728.
[111] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 43.
[112] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 88.
[113] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., p. 23.
[114] Ivi, pp. 65-66.
[115] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 81.
[116] Ivi, p. 82.
[117] Ivi, p. 88.
[118] Ivi, p. 102.
[119] Ivi, pp. 103-104.
[120] Sergio Campailla, Note a Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 201-202.
[121] Sergio Campailla, Della salute ovvero della malattia, in Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 14.
[122] Ivi, p. 15.
[123] Con le dovute cautele, si potrebbe anche accostare alla concezione michelstaedteriana di salute quella gadameriana: «la salute non è precisamente un sentirsi, ma è un esserci, un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita». Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, a cura di A. Grieco e V. Lingiardi, Cortina Raffaello, Milano 1994, p. 122.
[124] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 65-66.
[125] Carlo Michelstaedter, Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1987, p. 62.
[126] Ivi, p. 65.
[127] Ivi, pp. 71-72.
[128] Ivi, pp. 88-89.
[129] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., p. 66.
[130] Carlo Michelstaedter, Poesie, op. cit., p. 94.
Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole
Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice
Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento
Conclusione
Bibliografia