Intelletto, quando ti levi nell’aria: i saggi sono lì che ti seguono con gli occhi.
All’interno della vasta ed eterogenea produzione letteraria di Heinrich von Kleist (1777-1811), oltre a drammi e racconti, saggi ed epigrammi, poesie e aneddoti, troviamo anche due brevi favole, pubblicate nel marzo del 1808 nel terzo numero di «Phöbus», la sfortunata rivista fondata dallo stesso autore e dallo studioso e critico Adam Müller (1779-1829), il cui nome trae emblematicamente ispirazione da Febo Apollo, il dio del sole.
Il raggiungimento della grazia è il tema che caratterizza la favola intitolata I cani e l’uccello. Tema caro, carissimo a Kleist, che lo tratterà anche nell’impressionante saggio Il teatro delle marionette (1810), che rappresenta uno dei momenti più elevati del puro e incompreso genio kleistiano. E proprio come la snodata marionetta, anche l’uccello protagonista di questa favola raggiunge la grazia solamente riuscendo a vincere la forza di gravità. Quando poi l’intelletto, ed è proprio questo il messaggio conclusivo della favola, espresso sotto forma di massima aforistica, non riesce a spiccare il volo diviene inevitabilmente il bersaglio di menti modeste, limitate, che Kleist definisce ironicamente «saggi». Una sottile, beffarda e mordace critica a molti, presunti intellettuali dell’epoca.
Tra la natura e la cultura vi è un abisso incolmabile. È questo il tema che sta al centro della Favola senza morale, e che Kleist ricava dalla sua personale lettura e interpretazione di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il filosofo probabilmente a lui più affine. La piena consapevolezza di una tale e irreversibile cesura che separa la natura e la cultura, conduce inevitabilmente al pessimismo, e per questo motivo la favola in questione non può condurre ad alcuna morale, come annuncia già il titolo stesso. Nel testo appare inoltre una visione utopica dell’umanità, che più tardi culminerà nella conclusione del già citato Teatro delle marionette, e che qui confluisce tutta nell’ideale dell’uomo nudo che ignora le arti, eppure ne conosce gli effetti negativi e deleteri, assurgendo così al ruolo di custode della grazia – ancora una volta – e della conoscenza.
I cani e l’uccello e La favola senza morale sono due testi minori di Kleist, insignificanti al cospetto dei suoi straordinari capolavori, eppure sono piccole gemme preziose e brillantissime, vivide manifestazioni dell’immenso talento dell’autore tedesco. Buona lettura.
I CANI E L’UCCELLO
Due onesti bracchi, fattisi furbi alla scuola della fame, si buttavano su qualunque cosa apparisse sul terreno, s’imbatterono in un uccello. L’uccello, impacciato dal non trovarsi nel suo elemento, gli sfuggiva saltellando qua e là, e i suoi avversari stavano per avere la meglio; ma poco dopo, incalzato da troppa furia, aprì le ali e si librò nell’aria: ed eccoli lì come allocchi, gli eroi dei campi, la coda fra le gambe, a guardarlo pieni di stupore.
Intelletto, quando ti levi nell’aria: i saggi sono lì che ti seguono con gli occhi.
LA FAVOLA SENZA MORALE
Se io solo ti avessi, diceva l’uomo a un cavallo che gli stava davanti con sella e morso e non voleva lasciarsi montare; se io solo ti avessi com’eri quando, indomato figlio della natura, eri appena arrivato dai boschi! Allora ti condurrei, leggero, come un uccello, per monti e per valli a mio talento; e tu ed io come staremmo bene. Ma a te hanno insegnato delle arti, arti delle quali nudo come ti sto davanti io non so nulla, e dovrei scendere a te sulla pista (e Dio me ne guardi), se volessimo intenderci.
Trad. it. di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, p. 1073.