I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte

Nel mondo si consuma la tragedia, concludevo nella prima parte di questo lavoro: al vecchio Fëdor Pavlovič Karamazov fracassano il cranio. Dell’efferato omicidio viene accusato Mitja, interrogato e arrestato dopo una notte di furiosa e disperata gozzoviglia con Grušenka, con i due che sanciscono la loro unione. Tutti gli indizi sono contro il maggiore dei fratelli Karamazov, ma i colpevoli del delitto sono altri. L’esecutore materiale dell’omicidio è il domestico Smerdjàkov, spinto – seppur inconsciamente – da Ivàn. Nel loro ultimo colloquio, Smerdjàkov glielo confessa apertamente.

«Perché siete così in collera?», Smerdjàkov questa volta lo guardò non solo con disprezzo, ma quasi con ripugnanza. «Forse perché domani comincia il processo? Ma a voi non accadrà nulla, rassicuratevi una volta per tutte! Tornate a casa, andate tranquillamente a dormire, non dovete avere alcun timore».
«Di che parli? Cosa dovrei temere domani?», domandò Ivàn, stupito, e si sentì davvero sfiorare l’anima da un alito gelido di terrore. Smerdjàkov riuscì a percepirlo.
«Non ca-pi-te?», scandì in tono di rimprovero. «Ma come può avere voglia, un uomo intelligente come voi, di recitare una farsa del genere!».
Ivàn lo guardava in silenzio. Anche quello strano tono, più che mai arrogante, con il quale ora l’ex domestico gli parlava, era inusuale. Non aveva parlato così neanche l’ultima volta!
«Vi ho assicurato di non temere. Non dirò nulla contro di voi, e poi non ci sono prove. Guarda come gli tremano le mani! Perché le vostre dita si agitano a quel modo? Andate a casa, non siete stato voi!».
Ivàn ebbe un brivido ricordandosi di Alëša.
«Lo so che non sono stato io…», disse con un filo di voce.
«Ne siete sicuro?», riprese Smerdjàkov.
Ivàn saltò in piedi e lo afferrò per una spalla.
«Parla, serpente! Di’ tutto!».
Smerdjàkov non si scompose. Ma piantò gli occhi su Ivàn con un odio folle.
«Allora, se parlate così, siete stato voi a ucciderlo!», gli sussurrò con rabbia.
Ivàn si lasciò cadere sulla sedia, come se avesse intuito qualcosa. Sorrise dolorosamente.
«È di nuovo la stessa storia? Siamo al punto dell’altra volta?»
«Sì, l’altra volta eravate qui di fronte a me e capivate tutto, come capite anche adesso».
«Capisco solo che tu sei pazzo».
«E non si stanca! Siamo qui, faccia a faccia: perché prenderci in giro a vicenda e continuare a recitare? O volete ancora addossare a me solo tutte le colpe? Voi avete ucciso, voi siete il responsabile principale, io non sono stato che il vostro braccio, il vostro fedele servitore Ličarda, ed ho agito seguendo le vostre indicazioni».
«Agito? L’hai ucciso tu allora?», e Ivàn si fece di ghiaccio.
Ebbe come una scossa al cervello e tremò tutto, agitato da un brivido di freddo. A questo punto lo stesso Smerdjàkov lo guardò con stupore: probabilmente l’orrore di Ivàn l’aveva infine convinto per la sua sincerità.
«Ma veramente voi non ne sapete proprio nulla?», balbettò sospettoso, sogghignandogli in faccia.
Ivàn ora non lo guardava, non riusciva più a muovere la lingua.

Se n’è andato Van’ka a Pìter,
io non l’aspetterò!

Quel ritornello gli risuonò a un tratto in testa.
«Sai? Temo che tu sia uno spettro, un fantasma», mormorò.
«Qui non c’è nessuno spettro, solo noi due, e poi ancora un terzo. Sapete, adesso è qui, quel terzo, proprio tra noi due».
«Di chi parli? Chi si trova qui? Chi è il terzo?», chiese Ivàn Fëdorovič, sgomento, guardandosi intorno e frugando con gli occhi in tutti gli angoli.
«Il terzo è Dio, la Provvidenza, e ora è qui accanto a noi, ma non cercatela, non la troverete».
«Tu menti affermando di averlo ucciso!», gridò Ivàn, fuori di sé. «Tu sei pazzo, o forse vuoi portarmi all’esasperazione come l’altra volta!».
Smerdjàkov, senza spaventarsi affatto, continuava ad osservarlo attentamente. Non riusciva ancora a superare la propria incredulità, gli sembrava sempre che Ivàn “fosse al corrente di tutto” e che fingesse soltanto, per “scaricare su di lui tutta la colpa”.
«Un momento», disse infine con voce fioca, e tirata fuori da sotto il tavolo la gamba sinistra, prese a tirare su i pantaloni, ripiegandoli. Indossava delle calze bianche ed era in pantofole. Lentamente Smerdjàkov si levò l’elastico e infilò le dita nella calza. Ivàn Fëdorovič lo seguiva con gli occhi e improvvisamente fu preso da un tremore convulso.
«Pazzo!», urlò e, saltato in piedi, indietreggiò fino a sbattere con la schiena contro la parete, restandovi come incollato, con il corpo rigido. Guardava Smerdjàkov con un terrore folle. Quello, senza preoccuparsi del suo spavento, continuava a cercare nella calza, come se con le dita tentasse di afferrare e tirare fuori qualche cosa. Finalmente ci riuscì. Ivàn Fëdorovič scorse qualcosa, sembravano delle carte, o un paccheto di carte. Smerdjàkov lo tirò fuori e lo mise sul tavolo.
«Ecco!», disse a bassa voce.
«Cos’è?», domandò Ivàn, tremante.
«Guardate, su, guardate», rispose Smerdjàkov, sempre a voce bassa.
Ivàn si avvicinò al tavolo, appoggiò la mano sul pacchetto e si accinse ad aprirlo, ma di colpo si ritrasse, come se avesse toccato un serpente freddo e viscido.
«Le vostre mani tremano, siete molto agitato», osservò Smerdjàkov e scartò lui stesso il pacchetto, con calma. Dall’involto uscirono tre pacchetti di banconote colorate da cento rubli.
«Sono tutti qui, tremila, contateli pure. Prendeteli», e invitò Ivàn, accennando al denaro. Ivàn si accasciò sulla sedia. Era bianco come un cadavere.
«Tu mi hai spaventato… con questa calza…», disse, con una strana espressione.
«Ma com’è possibile che voi ancora non sapeste?», domandò un’altra volta Smerdjàkov.
«No, non sapevo, non sapevo! Ho sempre creduo che fosse stato Dmìtrij. Ah! Fratello, fratello mio!». A un tratto si strinse la testa fra le mani. «Ascolta: hai fatto tutto da solo? Senza mio fratello o insieme a lui?»
«È con voi, solo con voi che ho ucciso, Dmìtrij Fëdorovič è innocente».
«Va bene, ho capito… Di me parleremo dopo. Ma perché continuo a tremare?… Non riesco neanche a parlare».
«Allora eravate tanto spavaldo, “tutto è permesso”, dicevate, e ora come siete spaventato!», osservò Smerdjàkov, meravigliato [1].

L’atea e anarchica legge del «tutto è permesso» si ritorce contro Ivàn. E questo è un colpo durissimo per lui; la sua mente vacilla, fino ad andare definitivamente in frantumi. Prima di approfondire la figura di Ivàn Karamazov vorrei soffermarmi un istante su quella di Smerdjàkov. Un individuo contemplativo – all’inizio del romanzo Dostoevskij lo paragona al contadino raffigurato da Kramskoj nel dipinto Il contemplatore [2] -, in apparenza ingenuo, persino sciocco, ma dotato in realtà di una grande intelligenza, come dimostra l’omicidio di Fëdor Pavlovič, pianificato nel dettaglio e messo in pratica con una freddezza straordinaria. Ma Smerdjàkov è anche un’anima malvagia, e a riprova di ciò si ricordi che è proprio lui a suggerire al povero Il’juša il crudele scherzo dello spillo, come racconta Kòlja ad Alëša:

«L’ho interrogato a lungo e sentite cosa ho scoperto: aveva conosciuto, non so come, Smerdjàkov, il domestico di vostro padre (che all’epoca era ancora vivo), e quello stolto gli aveva insegnato uno scherzo ignobile, cioè crudele e vigliacco: mettere uno spillo dentro un pezzo di mollica di pane e darlo a qualche cane da cortile, di quelli che, per fame, mandano giù qualsiasi cosa senza masticare, per vedere che cosa sarebbe successo. Prepararono dunque un boccone così e lo gettarono proprio a quello Žučka di cui parlavamo; un cane da guardia, di un cortile dove nessuno gli dava da mangiare, e che abbaiava inutilmente tutto il giorno. (Sapete quel modo insistente di abbaiare, Karamazov? Io non lo sopporto). Quello come vide il pane ci si avventò, lo inghiottì e mandò un lamento, poi prese a girare su se stesso e a correre, e correva e guaiva, finché non lo videro più: così mi raccontò lo stesso Il’juša. Mentre raccontava piangeva, e mi abbracciava scosso dai singhiozzi: “Correva e guaiva, correva e guaiva”, continuava a ripetere, tanto era rimasto colpito da quella scena» [3].

Inoltre Smerdjàkov è animato da uno sconfinato amor proprio, come evidenzia Fetjukovič, il celebre avvocato chiamato da Katerina Ivanovna in difesa di Mitja:

«Niente affatto ingenuo, al contrario, mi è parso che sotto una maschera di candore celasse una grande diffidenza, e una mente in grado di elaborare molte congetture! Oh, l’accusa è stata troppo superficiale, considerandolo un povero spirito! L’impressione che ha suscitato in me è molto nitida: io me ne andai da lui con la convinzione che quell’uomo era pieno di rancore, di un’ambizione sconfinata, desideroso di vendetta e oppresso dall’invidia. Ho messo insieme qualche informazione: odiava la propria origine, provava vergogna e ricordava, con rabbia, di essere “figlio di una donna indegna”. Non era rispettoso nei confronti del servo Grigòrij e della moglie, che erano stati i protettori della sua infanzia. Ingiuriava e derideva la Russia. Sognava di trasferirsi in Francia per diventare cittadino francese. Già da tempo si lamentava spesso di non avere mezzi sufficienti per farlo. A me pare che quell’uomo non fosse in grado di amare se non se stesso, aveva di sé un concetto altissimo fino alla stravaganza. La civiltà stava secondo lui nell’eleganza, nelle camicie pulite e negli stivali lucidi. Reputandosi (si sa, con sicurezza) figlio illegittimo di Fëdor Pavlovič, riteneva ingiusta la sua posizione di fronte ai figli legittimi del suo padrone, loro avevano tutto e lui niente, a loro tutti i diritti, l’eredità, mentre lui era solo un cuoco. Mi raccontò di aver sistemato lui stesso, con Fëdor Pavlovič, i soldi in una busta. La destinazione di quella somma – somma che avrebbe potuto realizzare i suoi sogni – gli risultava oltremodo sgradita. Inoltre, aveva visto tremila rubli in banconote da cento fiammanti (lo interrogai apposta sull’argomento). Oh, mai mostrare a un uomo invidioso e presuntuoso molti soldi insieme! Ora, lui vedeva per la prima volta una cifra tanto sostanziosa tutta in una mano. L’impressione ricevuta dal mucchio colorato poté lasciare un’ombra maligna nella sua fantasia, senza però provocare conseguenze all’inizio» [4].

Smerdjàkov uccide Fëdor Pavlovič per compiacere Ivàn e se stesso, soprattutto se stesso, ma non ha la forza di andare fino in fondo, di fuggire con i tremila rubli sottratti al vecchio. Consegna i soldi a Ivàn e si suicida, impiccandosi.

Dopo l’ultimo colloquio con Smerdjàkov Ivàn, sconvolto, già delirante, torna a casa, e qui avviene il memorabile incontro con il suo incubo: il diavolo. Si tratta forse del secondo capitolo più straordinario dei Fratelli Karamazov dopo Il Grande Inquisitore, e non è un caso che al centro vi sia lo stesso personaggio, Ivàn, colui che inaugura – insieme all’io poetico dei Fiori del Male di Baudelaire – quella crisi dell’individuo moderno che rappresenta il fulcro della letteratura primonovecentesca: Kafka, Musil, Joyce, Mann, Pessoa, il nostro Svevo. «In Ivàn […] entra in crisi il fondamento della responsabilità umana. Se Dio non esiste, tutto è concesso. C’è in lui una deflagrazione del soggetto, il primato dell’individuo, insieme alla disperazione più cupa che sembra volgersi contro l’insufficienza della ragione. Dostoevskij sentì la potenza del limite, ma insieme la forza dell’uomo che si propone di abbatterlo. Mentre Raskòl’nikov, inebriato dalle teorie superomistiche, aveva trovato in Delitto e castigo la sua Siberia [5], Ivàn, troppo tardi ravveduto, cade in preda a una febbre cerebrale, come se avesse toccato un punto estremo, oltre cui non si può andare» [6], scrive Affinati.

Nel suo colloquio con Ivàn il diavolo, questo «parassita di lusso» dall’«apparenza elegante», ma dalla «sostanza misera», permette di addentrarci nel pensiero del giovane intellettuale, di approfondirlo, poiché tutto ciò che dice il demonio è in realtà frutto di Ivàn; il diavolo è un suo riflesso: «Sei l’incarnazione di me stesso, ma solo di una parte di me… dei miei pensieri, dei miei sentimenti, di quelli vili e inutili» [7]. Ivàn, disperato, si scaglia contro il diavolo, lo insulta, e insultando lui insulta se stesso.

Da una parte la disperazione cupa di Ivàn, la cui mente si sfilaccia attimo dopo attimo, diretta verso la follia, dall’altra parte l’ironia tagliente del diavolo, che spiega e giustifica così la sua esistenza: «Mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno obbligato a oppormi, e la vita ha avuto inizio. Noi la comprendiamo questa messa in scena: io, per esempio, aspiro solamente alla mia autodistruzione. No, mi viene ordinato, resta in vita perché senza di te nulla durerebbe. Se tutto sulla terra fosse frutto della razionalità, nulla accadrebbe mai. Senza di te non ci sarebbero mutamenti; invece sono necessari. Così eccomi qua, impegnato a contravvenire, a provocare cambiamenti, e a realizzare cose irragionevoli a comando. Gli uomini, con tutta la loro innegabile intelligenza, scambiano questa messa in scena per una cosa seria. Questa è la tragedia. Certo, soffrono, ma… Il rovescio della medaglia è vivere, vivere una vita concreta e non fantastica; soffrire infatti è vivere. Senza dolore, come potrebbe esistere il piacere? Tutto si trasformerebbe in un interminabile Te Deum: una vita da santi sì, ma che noia! E io allora? Io sono come un fantasma che ha perso la cognizione della realtà, e alla fine ha dimenticato anche il suo nome. Tu ridi… ma non stai ridendo, ti sei arrabbiato ancora. Ti arrabbi sempre, solo lo spirito ti interessa, e invece, ti ripeto, rinuncerei alla mia vita negli spazi, a tutti i miei titoli e onori, solo per incarnarmi in una mercantessa pesante più di un quintale e per accendere candele votive a Dio» [8]. Ancora una volta, il diavolo si fa portavoce delle idee di Ivàn. E frutto della laboriosa mente di Ivàn è anche la leggenda del pensatore negazionista:

«È una leggenda sul paradiso. Si racconta che qui, sulla terra, vivesse un certo pensatore e filosofo che “negava ogni cosa: le leggi, la coscienza, la fede”, e soprattutto l’aldilà. Quando giunse la sua ora, era sicuro di entrare nell’oscurità del nulla, ed ecco che gli apparve davanti la vita eterna. Si stupì e s’indignò: “Tutto questo”, disse, “non rientra nelle mie convinzioni”. E per ciò fu condannato… cerca di capirmi, io ti riferisco quello che si tramanda, è solo una leggenda… insomma fu condannato a camminare per un quadrilione di chilometri (ormai anche noi misuriamo a chilometri); solo alla fine del suo cammino, gli avrebbero concesso il perdono e le porte del paradiso si sarebbero aperte».
«Quali altri supplizi ci sono nel vostro mondo, oltre a quello del quadrilione?», lo interruppe Ivàn con un insolito fervore.
«Quali supplizi? Ah, sapessi! Prima ce n’erano di ogni sorta, ma adesso vanno sempre più di moda le pene morali, “i rimorsi di coscienza” e questo genere di stupidaggini. E tutto grazie a voi, all'”indebolimento dei vostri costumi”. A chi ha giovato? Soltanto alle persone senza coscienza, perché cosa vuoi che interessi loro dei rimorsi, quelli la coscienza non ce l’hanno neanche! Mentre chi ci ha rimesso sono stati i galantuomini, per i quali ancora la coscienza e l’onore avevano importanza… Ecco a cosa portano le riforme attuate in un ambiente non preparato, e per giunta riprese da istituzioni straniere: fanno solo del male! Le pene corporali del passato funzionerebbero meglio. Comunque il condannato al quadrilione si fermò, guardò in giro e si allungò di traverso sulla strada: “Non ho nessuna intenzione di camminare, per principio non camminerò!”. Prendi l’anima di un russo non credente e istruito, e combinala con quella del profeta Giona, che per tre giorni e tre notti fece il broncio nel ventre della balena, e otterrai il carattere di quel pensatore che si stendeva sulla strada».
«Ma su che cosa mai poté stendersi?»
«Be’, qualche cosa doveva esserci! Non mi prendi in giro?»
«Bravo!», gridò Ivàn, con lo stesso insolito fervore. Ora ascoltava con una vivace curiosità. «E dunque, è ancora là disteso?»
«Assolutamente no. Rimase coricato più o meno per mille anni, poi si alzò e prese a camminare».
«Che asino!», esclamò Ivàn, ridendo nervosamente, con la solita espressione di uno che medita profondamente. «Alla fine non è lo stesso, giacere in eterno o camminare per un quadrilione di verste? Ci vogliono sempre un bilione di anni?»
«Veramente molto di più; se avessimo carta e penna potremmo fare il calcolo. Ma lui è già arrivato da un pezzo ed è da qui che prende avvio la leggenda».
«Com’è potuto arrivare? Da dove vengono fuori un bilione di anni?»
«Perché tu ti riferisci sempre alla nostra terra attuale. Ma la terra si è riprodotta forse un bilione di volte: ha cessato di vivere, si è congelata, spaccata, frantumata, risuddivisa nei suoi elementi, è ridiventata acqua, l’acqua “che sovrastava la terra”, poi stella cometa, poi ancora sole, e dal sole è venuta fuori una nuova terra: e questo ciclo potrebbe essersi ripetuto già innumerevoli volte, e sempre allo stesso modo, nei minimi particolari. Una noia tremenda…».
«Ebbene, cosa avvenne poi che fu arrivato?»
«Appena gli fu aperto il paradiso ed egli vi si fiondò, prima ancora che fossero trascorsi due secondi, due secondi di orologio (sebbene il suo orologio, mi pare, da un pezzo avrebbe dovuto essersi decomposto nei suoi elementi, durante il cammino), esclamò che, anche solo per quei due secondi, valeva la pena fare non solo un quadrilione di chilometri, ma un quadrilione di quadrilioni, elevato per giunta alla quadrimilionesima potenza! Insomma, cantò “osanna” in modo così esagerato, che gli altri uomini di pensiero un po’ più dignitosi che si trovavano là, all’inizio non si degnavano neanche di rivolgergli il saluto: troppo immediato era stato il suo voltafaccia. È l’indole russa. Però te lo ripeto, si tratta di una leggenda. Prendila per quello che vale. Queste sono le idee che circolano laggiù, fra noi, a proposito di questi argomenti».
«Ti ho beccato questa volta!», gridò Ivàn con un piacere quasi infantile, come se fosse riuscito finalmente a ricordarsi di qualcosa d’importante: «questa storia del quadrilione di anni l’ho inventata io stesso! Avevo diciassette anni, andavo al ginnasio a Mosca… e la raccontai a un compagno che si chiamava Koròvkin… Questa storia è così particolare che non posso averla ripresa da qualcuno. L’avevo dimenticata del tutto… ma ora mi è tornata in mente, e non sei stato tu a raccontarmela! È così che riemergono i ricordi e senza averne coscienza; capita nelle situazioni più diverse, magari anche quando si va al patibolo… l’ho rammentata in sogno. Infatti tu sei il mio sogno! Tu sei un sogno e non esisti!».
«Dalla passione con la quale neghi la mia esistenza», sorrise il gentiluomo, «appare evidente che tu credi in me» [9].

A proposito di osanna, il diavolo confessa a Ivàn di aver avuto la tentazione di unirsi al coro dei serafini durante l’ascesa di Cristo in cielo: «Ero presente quando il Cristo morto sulla croce saliva al cielo, portando con sé l’anima del ladrone crocifisso alla sua destra, io potei sentire l’esultanza dei cherubini che cantavano e lodavano: “Osanna!” e la fragorosa contentezza dei serafini, che faceva tremare il cielo e tutto l’universo. Ebbene, ti giuro su quello che c’è di più sacro che anche a me venne il desiderio di unirmi al coro e di cantare con gli altri: “Osanna!”. Già questa lode mi sfuggiva, già mi sgorgava dal cuore… Tu lo sai, io sono molto sensibile, e impressionabile dalle cose artistiche. Ma il buon senso – la caratteristica più sciagurata della mia natura – anche quella volta mi frenò dall’uscire dai limiti, e mi fermai trattenendo il respiro! Infatti, che cosa sarebbe successo, pensai appena in tempo, se anch’io avessi gridato “osanna”? Tutto, nel mondo, sarebbe svanito, e non sarebbe successo più nulla. Fu così che, solamente per senso del dovere e per la mia posizione sociale, fui obbligato a soffocare un mio nobile impulso e a restare nell’infamia» [10].

La missione del diavolo è «far cadere migliaia di anime in cambio della salvezza di una sola», e cita il caso di Giobbe. A proposito del noto e grandioso episodio biblico (reputo il Libro di Giobbe uno dei vertici della letteratura d’ogni tempo e luogo), nel libro VI, intitolato Il monaco russo, che rappresenta la risposta di Dostoevskij all’ateismo anarchico espresso da Ivàn attraverso Il Grande Inquisitore, lo stàrec Zòsima offre la seguente interpretazione: «”Come ha potuto il Signore lasciare il prediletto tra i Suoi santi in balia del diavolo, rapirgli i figli, coprirlo di mali e di piaghe al punto che egli doveva raschiarne il marciume con un coccio, e a che scopo poi? Solo per gloriarsi agli occhi di Satana: ‘Ecco quello che può sopportare in Mio nome uno dei Miei santi!'”. Ma la grandezza qui sta nel mistero, sta in questo: che la fugace apparenza terrena e l’eterna verità si sono qui congiunte. Al cospetto della verità terrena si compie l’opera della verità eterna. Qui il Creatore – come nei primi giorni della creazione, quando concludeva ognuna delle sue giornate con la lode: “Bello è ciò che ho creato!” – guarda Giobbe e torna a vantarsi della Sua opera. E Giobbe, lodando il Signore, si pone non solo al Suo servizio, ma a quello di tutto il creato, di generazione in generazione e nei secoli dei secoli, perché questo era il suo destino» [11].

Dal diavolo sappiamo che Ivàn ha composto – anche in questo caso di certo solo mentalmente – oltre al Grande Inquisitore anche un’altra opera, intitolata Cataclisma geologico. Purtroppo Dostoevskij ci fornisce solo il titolo, ma, conoscendo le convinzioni di Ivàn Karamazov, è possibile farsi un’idea del contenuto. Il delirio di Ivàn, il suo incubo termina con l’arrivo di Alëša, che lo informa del suicidio di Smerdjàkov. È l’ennesimo colpo durissimo per Ivàn, a un giorno dal processo. Un giorno dal processo, un’indicazione temporale dunque, ma del tutto originale è la concezione del tempo nei Fratelli Karamazov, come rileva Sibaldi: «Durante la maggior parte degli episodi dei Karamazov il tempo è fermo, non scorre, si estende soltanto in profondità, proprio come la luce intensa a teatro sui corpi degli attori che essa plasma, cilindro di essere nel buio del non-essere. E anche quando questa luce diviene la struggente luminosità radente dei “raggi obliqui del sole al tramonto” […] non è l’ora che conta: soltanto l’effetto-luce, lo squarcio improvviso d’un paesaggio dell’anima, sempre immobile anch’esso da decenni. Nulla scorre, in quel tempo, davvero. La durata dei Karamazov procede per blocchi d’eternità» [12].

Nonostante l’innocenza Mitja, quest’uomo che «vive solo nel presente», che consuma la sua vita come una candela che brucia da entrambi i lati, capace di contemplare due abissi contemporaneamente, secondo le parole dell’accusa, viene condannato a vent’anni di lavori forzati. L’errore giudiziario più celebre della storia della letteratura.

I fratelli Karamazov si concludono con i funerali del povero, piccolo Il’juša – e il suo cadavere, al contrario di quello del santo Zòsima, non emana l’odore della putrefazione – e il discorso di Alëša ai suoi giovani compagni:

«Amici, presto ci separeremo. Io resterò ancora un po’ di tempo con i miei due fratelli: uno sarà mandato in Siberia e l’altro è gravemente malato. Ma presto partirò da questa città, forse starò via per molto. Dunque ci separeremo. Scambiamoci una promessa, qui, vicino alla pietra di Il’juša: per prima cosa, di tenerlo per sempre nei nostri cuori; e poi, di ricordarci gli uni degli altri. E qualunque cosa ci dovesse accadere nella vita, anche se per vent’anni non ci incontreremo più, non dimenticheremo tuttavia come abbiamo perduto per sempre il povero ragazzino che una volta era stato preso a sassate, là, vicino al ponticello – ricordate? – ma che poi tutti abbiamo amato. Era un ottimo ragazzo, generoso e pieno di coraggio, aveva il senso dell’onore e si era ribellato alla terribile offesa fatta a suo padre. E così, promettiamo soprattutto di ricordarci di lui per tutta la vita. E, anche se avessimo carichi importantissimi, o diventassimo delle autorità, o se qualche sventura ci piombasse addosso, anche in quei casi, non dovremo mai dimenticare come è stato dolce ai nostri cuori sentirci una volta, qui, tutti insieme, legati da un sentimento così bello e sincero, che forse ha reso anche noi, nell’amore per il povero fanciullo, migliori di quanto non eravamo prima. Colombelle mie – voglio chiamarvi così: colombelle, perché tutti voi, in questo momento, mentre guardo i vostri bei volti, assomigliate molto a quelle graziose creature variopinte – miei piccoli, cari amici, voi forse non capirete bene tutte le mie parole, perché non sempre mi esprimo con chiarezza, ma quando sarete più grandi vi torneranno in mente, e vi troverete d’accordo con quello che ora vi dico. Sappiate dunque che non esiste niente di più nobile, e forte, e importante, e utile per la vostra vita futura, dei buoni ricordi, soprattutto se appartengono ai primi anni della vostra vita, alla casa dei genitori. Quante volte si parla della vostra educazione! Eppure uno di questi buoni e cari ricordi, portato nel cuore fin dall’infanzia, è forse la migliore delle educazioni. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Ma se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza. Forse, anche noi un giorno diventeremo malvagi, non saremo in grado di astenerci dalle azioni crudeli, ci befferemo del dolore degli altri, e di coloro che affermano, come Kòlja poco fa: “Voglio soffrire per tutti gli uomini”, anche di questi forse rideremo malvagiamente. E tuttavia, per quanto la nostra natura potrà diventare cattiva, e mi auguro che Dio ce ne scampi, quando ci ricorderemo come abbiamo salutato per l’ultima volta Il’juša, come l’abbiamo amato negli ultimi giorni, e come ora abbiamo parlato tutti insieme, da amici, vicino alla sua pietra, allora neppure il più spietato e il più cinico di noi, se mai dovessimo diventare tali, avrà il coraggio, nel suo animo, di prendersi gioco dei buoni sentimenti provati in questo momento! Potrebbe anche accadere che proprio questo ricordo possa distoglierlo dal fare del male; egli tornerà sulle sue decisioni, e penserà: “Sì, allora ero buono, coraggioso e integro”. Ne rida pure tra sé, non importa, spesso l’uomo deride ciò che è buono e bello: questo accade solo per superficialità; ma vi assicuro, amici miei, che appena ne avrà riso, subito si dirà dentro di sé: “No, ho fatto male, perché di questo non si può ridere!”».
«Avete ragione, Karamazov, io vi comprendo, Karamazov!», esclamò Kòlja, con gli occhi che brillavano. I ragazzi si animarono e anche loro avrebbero voluto gridare qualche cosa, ma restarono in silenzio, commossi, senza distogliere lo sguardo dall’oratore.
«Io lo dico temendo che si diventi malvagi», riprese Alëša, «ma perché mai dovremmo diventare cattivi, non è così, amici? Prima di ogni altra cosa siamo buoni, poi onesti, poi non dimentichiamoci gli uni degli altri. Ve lo voglio dire ancora. Vi do la mia parola, amici, che ognuno di voi resterà nel mio cuore; ciascuno dei volti che in questo momento mi guardano, mi resterà impresso, me lo ricorderò anche fra trent’anni. Poco fa Kòlja ha detto a Kartašòv che noi “non volevamo prenderlo in considerazione”. Ma come posso io dimenticare che Kartašòv è uno di noi e che adesso, per esempio, non si fa tutto rosso come quando parlò di Troia, ma mi guarda con i suoi cari occhi, buoni e vivaci? Amici, miei cari amici, siamo tutti generosi e coraggiosi come Il’jušečka, intelligenti, intrepidi e nobili come Kòlja (che però da grande sarà molto più intelligente), e siamo anche timidi, ma vispi e cortesi come Kartašòv! Ma perché parlo solo di loro? Voi tutti, amici, mi siete cari, vi porterò tutti nel mio cuore e vi prego di tenere me nel vostro! Ecco, chi ci tiene uniti in questo buon sentimento, del quale da adesso e per tutta la vita ci ricorderemo e saremo felici di ricordare, chi, se non Il’jušečka, il ragazzino generoso, gentile, che ameremo per sempre? Non dimentichiamolo mai, teniamolo nei nostri cuori, ora e per sempre!».
«Sì, per sempre, per sempre», esclamarono tutti i ragazzi con le loro voci squillanti, con i visi commossi.
«Ricorderemo la sua faccia, e i suoi vestiti, gli stivaletti, e la sua piccola bara; suo padre, e come lui, il figlio, non ebbe paura di difenderlo, solo contro tutta la classe!».
«Ricorderemo tutto!», urlarono ancora i ragazzi, «il coraggio e la generosità!».
«Ah, gli volevo davvero bene!», esclamò Kòlja.
«Ragazzi, miei dolci amici, non abbiate paura di affrontare la vita! La vita è buona con noi, quando compiamo atti di bontà e di giustizia!».
«Sì, sì», approvarono i fanciulli con entusiasmo.
«Karamazov, noi vi amiamo!», esclamò qualcuno con calore, forse Kartašòv.
«Noi vi amiamo, noi vi amiamo», fecero eco tutti gli altri. Molti avevano occhi lucidi.
«Un urrà per Karamazov!», ordinò Kòlja, solenne.
«E un eterno ricordo per il piccolo amico morto!», aggiunse ancora Alëša, commosso.
«Un eterno ricordo!», ripeterono in coro i ragazzi.
«Karamazov!», esclamò Kòlja, «la religione dice la verità quando ci insegna che resusciteremo dalla morte e, tornati in vita, saremo ancora tutti insieme e rivedremo anche Il’jušečka?»
«Resusciteremo certamente e senza dubbio ci rivedremo e ci racconteremo con gioia e allegria tutto il passato», rispose Alëša, con un’espressione sorridente ed estatica.
«Ah, sarà meraviglioso!», sfuggì a Kòlja.
«Su via, ora basta con i discorsi e andiamo al pranzo funebre. Non siate turbati dal fatto che ci offriranno le frittelle. Questa è un’antica tradizione, e anche in essa c’è del buono», rise Alëša. «Forza, ora dobbiamo andare! Ecco, teniamoci per mano!».
«E così per sempre, tutta la vita per mano! Un urrà per Karamazov!», gridò ancora una volta Kòlja con entusiasmo, e ancora una volta i ragazzi fecero coro al suo grido [13].

Nelle intenzioni di Dostoevskij, nel progettato seguito dei Fratelli Karamazov, Alëša sarebbe diventato un terrorista anarchico, e avrebbe attentato alla vita dello zar. Ma lo scrittore non ebbe il tempo di realizzare questo progetto, e il discorso presso la pietra resta la sua ultima, luminosa parola [14], il suo testamento spirituale. Così come Alëša resta il più bello dei fratelli Karamazov, una luce nelle tenebre di questa stirpe bramosa d’oblio.

Un urrà per Dostoevskij!

NOTE

[1] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 607-609.

[2] Per un approfondimento si veda l’articolo Smerdjàkov, il contemplatore.

[3] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., p. 527.

[4] Ivi, p. 715.

[5] Per un approfondimento si veda l’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[6] Eraldo Affinati, Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., pp. 9-10.

[7] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., p. 620.

[8] Ivi, p. 625.

[9] Ivi, pp. 626-628.

[10] Ivi, pp. 630-631.

[11] Ivi, pp. 300-301.

[12] Igor Sibaldi, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994.

[13] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., pp. 745-747.

[14] Nel senso michelstaedteriano del termine. Con la sua parola luminosa il persuaso crea la presenza di ciò che è lontano.

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