«Vanno oltre il bello. Essi raggiungono la dignità del libro sacro». Così si esprime Giuseppe Antonio Borgese, il padre dei crepuscolari, a proposito dei Fratelli Karamazov, l’ultimo e più grande romanzo di Fëdor Dostoevskij [1]. È davvero complicato trovare parole che definiscano altrettanto giustamente, esattamente il capolavoro dello scrittore russo. Leggendo I fratelli Karamazov si ha davvero la sensazione di avere a che fare con un «libro sacro»; sensazione che si prova leggendo solamente un’altra opera: la dantesca Comedìa. Consapevole dell’imminenza della propria morte, consapevole che si tratti della sua ultima, definitiva parola, Dostoevskij inserisce nei Fratelli Karamazov tutto, tutto il suo pensiero e tutto ciò che contraddice il suo pensiero. Ed essendo Dostoevskij uno scrittore universale – come pochi, pochissimi altri – il suo tutto coincide con il tutto dell’intera umanità.
Ma la grandezza di Dostoevskij non ha certo bisogno delle mie misere parole per mantenere viva la sua fiamma. Passiamo dunque al romanzo. Un padre, Fëdor Pavlovič Karamazov, cinquantenne, sensuale e claunesco, ha avuto dalle sue due mogli, morte entrambe, tre figli: il maggiore, Dmitrj, ufficiale, sensuale come il padre, impulsivo e violento, eppure onesto, poi c’è Ivàn, intellettuale ateo e anarchico, dotato di grande intelligenza, arma a doppio taglio perché priva della fede, e infine Alëša, il più piccolo, che pensa di vestire l’abito monacale e ha nello stàrec Zòsima il suo mentore. In realtà, a questi tre giovani ne va aggiunto un quarto, Smerdjàkov, presunto figlio illegittimo di Fëdor Pavlovič e suo domestico. «Non sono personaggi, sono forze della natura. […] Guardate con che ansia e urgenza ciascuno di essi si sforza, ogni volta, in ogni episodio, di rivelarsi tutt’intero, di arrivare assolutamente e il più in fretta possibile in fondo a sé medesimo e di trascinarsi fuori “nel modo più brutale”, “una volta per tutte”», scrive giustamente Sibaldi [2]. E forze della natura lo sono anche le due donne che dominano la scena, meravigliose entrambe, entrambe figlie, chi per un verso e chi per un altro, dell’indimenticabile Nastas’ja Filippovna protagonista de L’idiota: Katerina Ivanovna, l’orgogliosa fidanzata di Mitja, e la flessuosa Grušenka. Ora, il guaio è che sia Mitja, legato già a Katerina, sia suo padre, sono invaghiti della stessa donna, Grušenka appunto. E lei, che «è la flessuosità fatta persona», incarnazione della lonza dantesca, gioca con entrambi, li provoca, senza concedersi mai. È straordinario come da una faccenda privata sembri dipendere il destino dell’intero universo. È questa una cifra di Dostoevskij. Egli, come nota Affinati, «ci fa capire che il caos non è fuori di noi: appare piuttosto celato dentro la personalità di ognuno. Al termine dei suoi romanzi spunta spesso una vocina misteriosa che fa così: stai attento, questo potrebbe capitare anche a te. Nessuno può dire: io non c’entro. Quando un uomo commette un delitto, piccolo o grave, si accende una luce rossa intermittente che non riguarda soltanto lui» [3].
Tra tutti i personaggi citati il più importante è senza dubbio Alëša, il più giovane, la cui anima è in divenire. Contrariamente al padre e ai fratelli, egli è in cerca del proprio io. All’inizio del romanzo, Alëša sembra aver fatto la sua scelta: il monastero. Ma il suo mentore, lo stàrec Zòsima, poco prima di morire, gli prescrive il mondo: «Che hai? il tuo posto per ora non è qui. Ti consacro a una grande opera nel mondo. Dovrai percorrere ancora molta strada. E dovrai sposarti, dovrai farlo. Dovrai sopportare ogni cosa, prima di ritornare qui. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te, ed è per questo che ti mando. Cristo è con te. Custodiscilo in te ed Egli ti custodirà. Conoscerai un grande dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità. Lavora, lavora senza posa» [4]. Nonostante lo slancio religioso, Alëša resta un Karamazov, e l’essenza dell’essere un Karamazov gliela svela Mitja, il fratello maggiore: «se precipito nell’abisso, lo faccio a capofitto, testa in giù e gambe all’aria, e anzi sono contento di cadere in una posizione così umiliante, ci trovo qualcosa di bello» [5]. Anche Alëša è inevitabilmente sottoposto alla «”forza terragna dei Karamazov”, […] una forza primitiva, frenetica e bruta…» [6].
Il centro del romanzo è rappresentato dal libro quinto, intitolato Pro e contro. È lo stesso Dostoevskij a dichiararlo, in numerose lettere. Eccone una.
«Questa quinta parte, secondo la mia concezione, deve costituire il punto culminante di tutto il romanzo […]. L’idea che ne sta alla base […] è costituita dalla rappresentazione dell’estremo a cui può arrivare il sacrilegio e del nucleo dell’idea di distruzione caratteristica del nostro tempo in Russia nell’ambiente della gioventù estraniatasi dalla realtà; ma accanto al sacrilegio e all’anarchia viene proposta anche la loro confutazione, che sto appunto esponendo nelle ultime parole del moribondo starec Zosima […]. Nel testo che Le ho or ora inviato io rappresento soltanto il carattere di uno dei principali personaggi del romanzo [Ivàn Karamazov] che esprime le sue fondamentali convinzioni. Tali convinzioni sono appunto ciò che io considero una sintesi dell’attuale anarchismo russo. È la negazione non di Dio, bensì del senso del mondo da Lui creato. Tutto il socialismo è derivato e ha preso le mosse dalla negazione del senso della realtà storica per concludere con il programma della distruzione e dell’anarchia. I più rappresentativi fra gli anarchici sono stati in molti casi persone sinceramente convinte. Il mio personaggio si serve di un argomento secondo me incontrovertibile, e cioè l’assurdità della sofferenza dei bambini, e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica. Non so se sono riuscito a realizzarlo adeguatamente, ma so che il mio personaggio è reale al massimo grado. […] Tutto ciò che viene detto dal mio personaggio nel testo che Le ho inviato è fondato sulla realtà. Tutti gli episodi che si riferiscono ai bambini sono accaduti nella realtà e sono stati pubblicati dai giornali, e io posso citarne anche la fonte esatta: niente è stato inventato di sana pianta da me. […] Il rifiuto di Dio proclamato dal mio personaggio verrà trionfalmente confutato nel fascicolo seguente […], a cui io sto attualmente lavorando in preda al timore, alla trepidazione e a un sentimento di venerazione, giacché io considero il mio compito (e cioè la confutazione dell’anarchismo) una vera e propria impresa civile» [7].
In questa «culminante» quinta parte dei Fratelli Karamazov Ivàn recita ad Alëša il suo poema – pensato ma non scritto, e questo è un aspetto da tenere sempre ben presente – Il grande inquisitore, «uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo d’una bellezza inestimabile», come scrive Freud. Ivàn Karamazov, che non accetta il mondo creato da Dio e basa il suo rifiuto sull’assurda sofferenza dei bambini, immagina il ritorno di Cristo sulla terra, nella Spagna del XVI secolo, «proprio là dove cominciavano a crepitare i roghi degli eretici. […] Egli giunge sulle “strade infuocate” di quella città del Meridione, che solo il giorno prima, in un “grandioso autodafé” aveva visto bruciare ad maiorem Dei gloriam quasi un centinaio di eretici per ordine del cardinale Grande Inquisitore e al cospetto del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali, delle più leggiadre dame di corte, dell’intera popolazione di Siviglia. Egli compare in silenzio, furtivamente, ma ecco – cosa strana – che tutti Lo riconoscono» [8]. Il popolo lo circonda e Cristo dispensa benedizioni e miracoli. Ridona la vista a un vecchio cieco, ridona la vita a una bambina, pronunciando ora come allora, ancora una volta: «Talitha Kum», e saranno queste le sole parole dette da Cristo in tutto il grandioso poema. Passa il Grande Inquisitore, un vecchio di quasi novant’anni, assiste al miracolo della resurrezione, poi ordina di arrestare Cristo, che viene condotto e rinchiuso in carcere. Cala la notte e il vecchio cardinale fa visita al Prigioniero. Il Grande Inquisitore accusa Cristo di aver concesso all’uomo – attraverso il rifiuto delle tentazioni nel deserto, ed in esse «è come compendiata e predetta tutta la storia dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili contraddizioni storiche della natura umana su tutta la terra» [9] – una libertà illimitata assolutamente ingestibile, perché «Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il ricercare al più presto un essere di fronte al quale prostrarsi» [10]. Cristo ascolta l’impressionante monologo del Grande Inquisitore – una delle vette più elevate dell’umano pensiero – in assoluto silenzio. Questo l’epilogo del poema: «[…] l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha notato che il Prigioniero gli ha sempre prestato ascolto, fissandolo negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante, lontano da ogni desiderio di obiezione. Il vecchio vorrebbe che rispondesse in una qualche forma, sia pure amara, terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui. Ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra si contraggono in un fremito; va verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non tornare più… non tornare mai più… mai più!”. E lo lascia andare per “le oscure vie della città”. Il Prigioniero si allontana» [11].
Il giovane e incompiuto Alëša si trova tra due fuochi, il fratello Ivàn e lo stàrec Zòsima. Il vecchio monaco muore, tutti si aspettano da lui qualcosa di straordinario, un miracolo, e invece accade l’impensabile, un vero e proprio «scandalo». Il cadavere dello stàrec è vittima delle implacabili leggi della natura: «Il fatto è che cominciò a esalare dalla bara, a poco a poco, ma sempre più forte, l’odore della putrefazione […]» [12]. Questo scabroso, ma naturalissimo evento turba l’intero monastero e sconvolge Alëša. In lui avviene una metamorfosi, la sua anima in divenire, per la prima volta, si ribella. Cita il fratello Ivàn («Non mi ribello al mio Dio, ma “non accetto il suo mondo”») e si fa condurre da Grušenka. Ma è solo un momento. Rientrato in monastero, si reca nella cella dello stàrec. La finestra è spalancata – si era fatto insostenibile, insopportabile «l’odore della putrefazione» -. Oltre a padre Pàisij, impegnato nella lettura del Vangelo, non c’è nessuno. Alëša si inginocchia e inizia a pregare. Lo assale la stanchezza, e brandelli di pensieri si alternano a passi dell’episodio evangelico delle nozze di Cana, il primo miracolo di Cristo, che tramuta l’acqua in vino. Ed ecco che Alëša sente la voce del suo amato stàrec… Addormentatosi in ginocchio, il giovane si desta e si precipita fuori.
«Scese giù velocemente, senza fermarsi un istante sulla scala. La sua anima in estasi era assetata di libertà, di ampi spazi, d’infinito. Sopra di lui la volta celeste, disseminata di quiete stelle luminose, si aprì immensa, sconfinata. Dallo zenit all’orizzonte si diramava, vaga, la Via Lattea. Tutto era immobile e la notte fresca e tranquilla avviluppava la terra. Le torri bianche e le cupole dorate della cattedrale risaltavano sullo sfondo di un cielo di zaffiro. I bellissimi fiori autunnali, che adornavano le aiuole intorno alla casa, si erano addormentati aspettando il mattino. Il silenzio della terra e del cielo erano una cosa sola, il mistero terrestre si univa a quello del firmamento… Alëša stava in piedi a contemplare e, a un tratto, come spinto da una forza, si gettò a terra.
Senza sapere perché stava abbracciando la terra e non comprendeva quel suo desiderio irresistibile di baciarla. Continuava a baciarla e piangeva singhiozzando, la bagnava delle sue lacrime, e giurava, nella sua esaltazione, che l’avrebbe amata in eterno. “Bagna la terra con le lacrime della tua felicità e ama queste lacrime…”, gli risuonò nell’anima. Perché stava piangendo? Oh, egli nell’estasi piangeva anche per quelle stelle che dall’abisso delle tenebre gli donavano la loro luce, e “non provava vergogna per la sua esaltazione”. Era come se i fili degli infiniti mondi divini si fossero intrecciati insieme nella sua anima ed essa vibrasse “al contatto con altri mondi”. Avrebbe voluto perdonare tutto a tutti e chiedere perdono, non per se stesso, ma per tutti e per tutto, “per me saranno gli altri a chiederlo”, gli risuonò ancora nell’anima. Ma a ogni istante percepiva con più chiarezza, quasi a poterlo toccare, che qualcosa di forte e d’incrollabile, come quella volta celeste, gli scendeva nell’animo. Una certezza s’impadroniva del suo spirito, e ormai per tutta la vita e per l’eternità. Fragile e adolescente era caduto a terra, ma ora alzandosi aveva avuto coscienza, proprio nello stesso momento della sua estasi, di essere un lottatore, temprato per tutta la vita. E nei giorni a venire, per tutta la sua esistenza, Alëša non poté mai e poi mai dimenticare quel momento. “Qualcuno visitò l’anima mia in quell’ora!”, diceva, credendo fermamente alle proprie parole…
Tre giorni dopo lasciò il monastero, in accordo con le parole del suo defunto stàrec, che gli aveva ordinato di “abitare nel mondo”» [13].
Nel mondo si consuma la tragedia, ma di questo ci occuperemo nella seconda parte di questo studio.
NOTE
[1] In realtà, d’accordo con Freud, reputo I fratelli Karamazov non solo il più grande romanzo di Dostoevskij, ma il più grande romanzo di sempre.
[2] Igor Sibaldi, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994.
[3] Eraldo Affinati, Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 12.
[4] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., p. 93.
[5] Ivi, pp. 123-124.
[6] Ivi, pp. 232.
[7] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 154-156.
[8] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, op. cit., pp. 259-260.
[9] Ivi, p. 263.
[10] Ivi, p. 265.
[11] Ivi, p. 273.
[12] Ivi, p. 338.
[13] Ivi, pp. 368-369.