Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter – Prima parte, capitolo primo

Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio

1.1 La persuasione e la rettorica

Volente o nolente ogni scrittore, e più in generale ogni uomo, è figlio del proprio tempo. Sebbene numerosi critici abbiano insistito sul carattere inattuale di Carlo Michelstaedter, non è possibile, o forse sarebbe meglio dire non è onesto, parlare di lui senza fare riferimento alla sua epoca – perché se è vero, come è vero, che le sue parole trascendono spazio e tempo adattandosi alla perfezione all’oggi, come accade di fatto ad ogni Classico, è altrettanto vero che esse sono state concepite in e per una determinata epoca [10] -. Ciò vale anche, e forse soprattutto, per la questione del linguaggio. Nel primo decennio del Novecento a tale problematica è dedicata infatti una particolare attenzione. In letteratura come in filosofia, in Italia come all’estero. Si pensi, ad esempio, a certi lavori di Vailati [11], di Prezzolini, di Pirandello – e di questi ultimi a due loro testi in particolare, L’arte di persuadere (1907) del primo [12] e la novella Il guardaroba dell’eloquenza (1908) del secondo [13] – e della Sprachkritik viennese [14], dalla Lettera di Lord Chandos (1902) di Hofmannsthal al Tractatus Logico-Philosophicus (1921) di Wittgenstein, il quale arriverà a dichiarare che «Tutta la filosofia è critica del linguaggio» [15]. Michelstaedter, nella scrittura della tesi di laurea – che nell’idea iniziale doveva essere una “semplice” analisi dei concetti di «persuasione» e «rettorica» in Platone ed Aristotele -, terminata nel 1910 e pubblicata per la prima volta tre anni più tardi [16], raccoglie questi stimoli atmosferici diffusi – peraltro presenti anche in un autore del passato particolarmente caro al goriziano, centrale nel suo precoce processo di formazione filosofico-letteraria, e come tale inserito nel canone dei persuasi stilato nella Prefazione della tesi: Giacomo Leopardi [17] – e fornisce il proprio radicale contributo.

La critica del linguaggio si concentra soprattutto nella seconda delle due parti in cui è divisa la tesi di laurea, Della rettorica. Dopo aver tracciato, nella prima parte, il ritratto del persuaso (colui che vive in se stesso, che possiede tutto nel presente, indipendente dal futuro e dalle contingenze, immune al dio della φιλοψυχία – “Amore alla vita, viltà”, come traduce lo stesso goriziano -, alla paura della morte, capace di sopportare il peso del dolore e di creare la presenza di ciò che è lontano con la sua parola luminosa) e aver indicato la via alla persuasione, Michelstaedter apre quello che è il fronte più caldo della sua guerra alle parole.

Per sé stesso un uomo sa o non sa; ma egli dice di sapere per gli altri. Il suo sapere è nella vita, è per la vita, ma quando egli dice «io so», «dice agli altri che egli è vivo» per aver dagli altri alcunché che per la sua affermazione vitale non gli è dato. Egli si vuol «costituire una persona» con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadeguata affermazione d’individualità: la rettorica.
Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare chiamano ragionare; ma ὁποῖα ἂν τίς ποτε λέγῃ οὐδὲν λέγει ἀλλ’ ἀπολογεῖται – qualunque cosa uno dica non dice, ma attribuendosi voce a parlare si adula.
Come il bambino nell’oscurità grida per farsi un segno della propria persona, che nell’infinita paura si sente mancare; così gli uomini, che nella solitudine del loro animo vuoto si sentono mancare, s’affermano inadeguatamente fingendosi il segno della persona che non hanno, «il sapere» come già in loro mano. – Non sentono più la voce delle cose che dice loro «tu sei», e nell’oscurità non hanno il coraggio di permanere, ma cerca ognuno la mano del compagno e dice: «io sono, tu sei, noi siamo», perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: «tu sei, io sono, noi siamo»; ed insieme ripetono: «noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta». – Così si stordiscono l’un l’altro.
Così poiché niente hanno, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione: poiché non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fingono parole che contengano il mondo assoluto, e di parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore; con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insensibili al dolore; ogni parola contiene il mistero – e in queste s’affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all’oscurità: καλλωπίσματα ὄρφνης : «Dio m’aiuti» – perché io non ho il coraggio d’aiutarmi da me. – [18]

Tra gli uomini in balia della «rettorica», definita «inadeguata affermazione d’individualità», non c’è comunicazione; le loro parole non significano niente. Essi non fanno altro che stordirsi l’un l’altro, sentendosi mancare «nella solitudine del loro animo vuoto». Del tutto privi di contenuto, gli uomini appaiono come inquietanti automi, cose fra le cose, e l’umana reificazione è un aspetto che Michelstaedter condivide con i coevi crepuscolari [19].

All’interno di questo quadro desolante, in questo indistinto chiacchiericcio privo di significato, una speranza di autenticità, di adeguata affermazione di individualità, potrebbe essere rappresentata dai giovani – e viene subito da pensare a quei giovani che «ancora / non abbiano messo / il loro Dio / nella loro carriera» [20], destinatari del Dialogo della salute -, ma la «rettorica» non lascia scampo, tale è la sua forza di omologazione.

Quando i giovani batton l’ali per levarsi dalla vita consueta, quando esce loro dal cuore, strano e incompreso a loro stessi, il grido della vita, quando chiedono d’esser uomini veramente – questo non è che «sete di sapere», si dice – e con l’acqua del sapere si spegne la loro fiamma. Il fine certo, la ragione d’essere, la libertà, la giustizia, il possesso, tutto è dato loro in parole finite che si applicano a cose diverse e da queste poi si astraggono. Se in ogni cosa essi chiedono la vita, d’ogni cosa vien dato loro in risposta «a questa curiosità» l’ὄνομα ἐπίσημον (Parmenide): il nome che sia per segno convenuto. Poi la rettorica «coinvortica» come la corrente d’un fiume ingrossato, che uno non si può tener presso la sponda ma è trascinato nel mezzo. «Dai un dito al diavolo e ti prende tutta la mano», dice il popolo. Infatti abituarsi a una parola è come prendere un vizio [21].

Parole e nomi non sono altro che etichette, utilizzate a seconda dei casi. Parole e nomi veicolano segni convenzionali, preconfezionati, prefabbricati, ed accontentarsi di essi è «il primo segno che uno dà della sua rinuncia a impossessarsi delle cose» [22].

Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale, pei quali mille volte e sempre avanti infinitamente la stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa [23].

Ma «non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la vita» [24]. Riecheggia in queste righe il messaggio michelstaedteriano, che esorta a lasciare da parte tutto ciò che è dato, stabilito, e a ricostruire da zero la «lingua», il «modo», «ogni cosa». Solo così si può possedere la vita, solo così si può essere persuasi e sfuggire alla morsa della «rettorica» che tutto livella, tutto appiattisce, tutto uniforma e conforma.

La via della persuasione non è corsa da «omnibus», non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato. I pochi che l’hanno percorsa con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a chi li intende appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della salute non si vede che con gli occhi sani ὅσον τ’ ἐπὶ θυμὸς ἱκάνοι (Parmenide) [25].

In questo passo fondamentale emerge una delle caratteristiche più singolari della «persuasione»: essa non si può comunicare (e di questo parleremo nell’ultima parte del presente lavoro). E torna alla mente l’incipit della Prefazione: «Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno» [26]. La «persuasione» è un’esperienza che l’uomo deve vivere in prima persona, senza mediazioni, se ne deve fare carico senza aspettarsi né domandare aiuto.

Il linguaggio è centrale nella riflessione di Michelstaedter, perché è proprio il mezzo attraverso cui l’uomo si costituisce, o meglio, nel caso della «rettorica» si illude di costituirsi.

Come quando un uomo per costituirsi una persona parla di sé e non c’è più limite e criterio a quel che dice, che qualunque cosa dica, volgare o strana, piccola o grande, piacevole o dolorosa, onorevole o vergognosa, perché la dice di sé, come propria a lui, come fatta da lui, egli la crede tale da costituirgli la persona che si sente mancare – così vaneggia la rettorica filosofico-letteraria, che a proposito di qualunque cosa metta in azione, col lavoro oscuro del sistema e del metodo, il suo pensiero che per le sue categorie partecipa dell’assoluto, sempre ha detto e ha dato cosa che ha valore assoluto, e che ad essa rettorica costituisce la persona della conoscenza assoluta [27].

La «rettorica» coinvolge, attanaglia ogni aspetto dell’esistenza: sociale, letterario, filosofico. E il goriziano individua in Aristotele il primo responsabile della deriva rettorica, che dà avvio alla degenerazione linguistico-conoscitiva. Michelstaedter ne parla nell’Esempio storico, vera e propria operetta morale all’interno della tesi di laurea [28].

Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava d’esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene stesse nell’indipendenza dalla gravità. Poiché è questa – pensava – che ci impedisce dal sollevarci fino al sole. –
Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non aver peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. – Ma consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù – lo spirito indipendente e la gravità – la necessità della terra e la volontà del sole – né volò al sole – né restò sulla terra; – né fu indipendente né schiavo; né felice né misero; – ma di lui con le mie parole non ho più che dire [29].

Platone raccoglie l’eredità del «maestro», con il quale condivide l’amore per la libertà, e tenta di spingersi oltre, sforzandosi di trovare un meccanismo che permetta di innalzarsi fino al sole. Ma, a differenza di Socrate, «- ingannando la gravità – senza perdere il peso, il corpo, la vita» [30]. Emerge da queste parole la differenza sostanziale tra le due esperienze filosofico-esistenziali: rispetto al «maestro» Platone perde autenticità, inoltre in lui sembra mostrarsi – nella volontà di sollevarsi fino al sole senza perdere la vita – quella paura della morte che è una delle principali differenze tra il persuaso, di cui Socrate, con Cristo, è per il goriziano il modello ideale, e il non-persuaso. È questa una delle caratteristiche della storia del genere umano: sono sempre i discepoli i primi a tradire gli insegnamenti dei maestri (Socrate – Platone – Aristotele; Cristo – Apostoli – Chiesa; Michelstaedter – Chiavacci ed Arangio-Ruiz – …). Platone inventa così il «macrocosmo», il celebre «areostato» pieno d’Assoluto che conduce lui ed i suoi discepoli ai limiti dell’atmosfera, dove il meccanismo si ferma, «equilibrato nel mare d’aria» [31]. Passano giorni, mesi, anni senza che cambi nulla; gli «abitanti della leggerezza» – Platone compreso – invecchiano, «abbruttiti in un oscuro torpore disperato» [32]. Tra i discepoli ce n’è uno che, a differenza dei suoi compagni, non ha paura del vuoto che si dispiega al di sotto dell’«areostato». Tra costui e Platone avviene il seguente colloquio:

Allora fattosi innanzi così parlò al vecchio Platone:
«Maestro, tu dici che noi abbiamo la leggerezza?».
«Altrimenti almeno non saremmo invero qui su» disse Platone.
«E noi siamo leggeri per la presenza della leggerezza?».
«Certamente».
«E ogni cosa in quanto è leggera è tale per la presenza della leggerezza?».
«Senza dubbio».
«E all’inverso la leggerezza è tale da poter render leggera ogni cosa per la sua presenza».
«Allo stesso modo».
«Maestro, perché non potremmo noi prendere un po’ dell’aria che è qui attorno e metterla nella leggerezza? secondo il discorso su cui ora ci siamo accordati, essa perderebbe la sua natura di pesante e parteciperebbe anch’essa della leggerezza». E tacque. – Platone lo guardò a lungo negli occhi miopi coi suoi occhi che vedevano lontano, e vide ch’egli lo tradiva. Ma il giovine discepolo conosceva il meccanismo, e ragionava diritto e Platone non poteva sottrarsi alla conclusione. D’altronde egli conobbe quanto e dove egli stesso aveva errato – né poteva egli ormai vecchio negar la vita al giovane discepolo. –
Egli chinò tristemente il capo e disse al giovane: «Va bene, fallo!». Il discepolo s’affaccendava intorno alla valvola, e Platone seguiva melanconicamente i suoi movimenti. Ma d’altronde anche per lui l’altezza vertiginosa, l’aria irrespirabile – la mancanza di tutte le care cose della vita, e del commercio degli uomini – l’immobilità di tutte le cose nel giro dei giorni e delle notti – aveva un sinistro senso di vuoto cui le sue parole non riescivano a riempire – e che non era molto dissimile dalla paura. Sicché quando l’aria cominciò a fischiare penetrando impetuosamente nel globo e svegliò i poveri discepoli dal loro torpore, anche Platone si sentì allargare il vecchio cuore mentre la sua ξηρὴ ψυχή s’inumidiva di desideri lontani.
L’areostato scendeva, i discepoli erano tornati alla vita. «Scendiamo!». «Scendiamo!» altro non potevano pronunciare e questa parola non si saziavano di ripetere che anticipava loro la gioia della quale avevano ormai disperato, la gioia d’aver la terra sicura sotto i piedi, d’esser per sempre fuori, salvi da quella terribile, vertiginosa solitudine [33].

Consumato il tradimento, tornati sulla terra (Platone è ormai morto, disavvezzo all’aria grave), il miope discepolo

cominciò a introdurre l’una cosa e l’altra nel globo e predicò di tutte la «leggerezza», poi cominciò a osservarle nelle loro vicendevoli relazioni e poiché era fra loro e non sopra loro, andando da una in l’altra col suo meccanismo, cominciò a θεωρεῖν ὑπὲρ πάσης οὐσίας. Tutta la gente accorreva da lui per prendere la merce che veniva dall’assoluto; egli ch’era uno spirito pratico prendeva la merce ch’era più in voga e che più s’adattava alla vista, ai bisogni, ai gusti del pubblico, poi ci metteva su la marca di fabbrica coll’emblema della «leggerezza». E il pubblico era felice di poter dire che la merce veniva dal cielo e di potersene servire proprio come se fosse stata merce di questa terra.

Quell’uomo era Aristotele.

Il suo sistema, che allora ebbe il più largo seguito, ancora vive fra noi, se pur sotto nuove vesti, in quanti sul terreno positivo la voce delle cose ripetendo quale dai modi vicini e dalle vicine necessità è data, nel nome dell’assoluto sapere la elaborano e s’affaccendano a teorizzar sulle cose. – [34]

Commenta Muzzioli:

il bersaglio su cui Michelstaedter spara a zero senza risparmio è Aristotele: lui il punto d’arrivo della degenerazione, donde l’arida codifica del sapere estende le sue propaggini fino alla scienza moderna; in lui la teoria si separa dalla pratica, il linguaggio si istituzionalizza come tecnica a sé, la conoscenza si fa sistema dove tutto è inesorabilmente inquadrato […].
Ma già Platone, per quanto “tradito” dal diabolico discepolo (come narra l’Esempio), aveva immesso il germe letale della considerazione astratta dell’Assoluto, riducendo l’esistenza a problema e assumendo a valore “sufficiente” la soluzione dei problemi. Platone, in questa storia, fa la parte del ponte che collega la salute socratica alla malattia aristotelica. Anzi, secondo Michelstaedter, le parti buone di Platone – come la polemica anti-sofistica, che nel Gorgia, rifiuta una tecnica verbale non vivificata dal ‘bene’ e dal ‘giusto’ – sono da attribuire non a lui, ma a Socrate in persona. Nella domanda socratica che interroga, senza “fermata”, sul “valore adeguato alla vita assoluta”, lo scrittore goriziano riconosce uno dei massimi modelli di “persuasione” [35].

E ancora, Massimo Cacciari:

Come si spiega questa ‘decadenza’ platonica? Poiché Aristotele non abbandona semplicemente Platone, ma sembra convincerlo: Platone non può sottrarsi alla logica del “miope” allievo; anzi, è costretto a riconoscere quanto e dove egli stesso avesse errato. La Triste storia [36] appare, dunque, come il manifestarsi di un destino immanente allo stesso platonismo, che rende necessario per Platone il compromesso con la rettorica – ben oltre il fatto che la rettorica costringa comunque a dire, a comunicare, ché in ciò non v’è “errore”, ma si esprime l’aporia ontologicamente insuperabile della Persuasione. […] Il peccato originale del platonismo consiste nel fingersi “una vita assoluta nell’elaborazione del sapere”, nell’illudere che il “lavoro oscuro del sistema e del metodo” possa essere “via di salvezza”. Il platonismo riduce l’idea di Vita felice all’”organismo fittizio del sistema” […]. Il modo inadeguato, intellettualistico, in cui Platone pone l’esigenza della Vita assoluta, della felicità e del Bene, finiscono così col “condannarlo” al tradimento aristotelico [37].

Altro obiettivo polemico di Michelstaedter sono gli scienziati – discendenti diretti di Aristotele, del suo sistema, e strumenti della «comunella dei malvagi» – e i loro «termini tecnici», ornamenti dell’oscurità.

Ma soprattutto per la loro attività s’infiltrano, come segni di date relazioni, date parole sulle quali gli uomini senza conoscerle s’appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute le danno. I termini tecnici danno una certa uniformità di linguaggio agli uomini. Invano sognano i fautori delle lingue internazionali create con intenzione. La lingua internazionale sarà la lingua dei termini tecnici: dei καλλωπίσματα ὄρφνης.
Perciò i profani inneggiano agli scienziati come ai «pionieri della civiltà». – Io dico ch’essi, nei quali parla la voce degli elementari bisogni e si procura la futura vicinanza, sono strumenti inconsci nello svolgimento della κοινωνία κακῶν per la quale gli uomini se non riusciranno ad intendersi certo giungeranno ad intendersela [38].

Michelstaedter batte sempre, ostinatamente, sullo stesso punto. Egli polemizza contro un linguaggio prefabbricato dato e tramandato, che non affonda le proprie radici nella vita, anzi, che dalla vita è colpevolmente sradicato.

L’ultimo capitolo della seconda parte della tesi di laurea, La rettorica nella vita, si apre con il dialogo tra Michelstaedter e l’«uomo nella botte di ferro», «l’individuo sognato da Hegel» [39] – con Aristotele l’altro bersaglio filosofico del goriziano -, illustre esemplare della «rettorica» [40]. Precedentemente, abbiamo visto come una delle maggiori responsabilità dello stagirita sia quella di aver separato la teoria dalla pratica, e come da questa separazione derivi la degenerazione filosofico-linguistica. Ebbene, questo aspetto lo ritroviamo anche nell’«uomo nella botte di ferro», là dove dichiara:

Altro è compiacersi di letteratura, di scienza, d’arte, di filosofia nelle piacevoli conversazioni – altro è la vita seria. Come si direbbe: altro la teoria altro la pratica! [41]

Prodotto perfettamente riuscito del sistema sociale rettorico, l’«uomo nella botte di ferro» afferma di portare il proprio contributo «alla grande opera di civiltà in pro dell’umanità», e in lui parlano le «sante istituzioni» [42]. Ecco, la sua voce non è la sua voce, le sue parole non sono le sue parole, egli non fa che ripetere un messaggio inculcatogli dal sistema rettorico. In queste pagine Michelstaedter fornisce un esempio pratico di quel linguaggio contro il quale si scaglia.

Del linguaggio della «rettorica» il «capolavoro di persuasione» è il codice penale, che si cura di regolamentare le norme di quella sicurezza sociale che «asservisce l’uomo in ogni atto»:

Dal momento che l’uomo vuol poter dire «questo è legalmente mio», egli s’è reso schiavo attraverso il proprio futuro del futuro di tutti gli altri: egli è materia (la proprietà mobile) [43].

Determinate parole formano quello che Michelstaedter chiama il «pentagono dell’uomo sociale»: «non impegnarti con tutta la tua persona», «distingui fra teoria e pratica», «prendi la persona della sufficienza che t’è data», «misura i doveri coi diritti», «informati a ciò che è convenuto» [44]. È l’ennesima dimostrazione delle ragioni che hanno indotto Michelstaedter a porre al centro della generale critica della «rettorica» la critica del linguaggio. Fedele al primo verso del prologo del Vangelo giovanneo, tra le sue letture favorite [45], «In principio era il Verbo» [46], il goriziano colloca la parola alla base della costituzione di un individuo, come già sottolineato in precedenza.

Nella sua tesi di laurea Michelstaedter più volte fa riferimento ai sogni. Già nella prima parte, Della persuasione, quando sottolinea che, nonostante i vari empiastri che vi pone, in primis la fede, l’uomo non è in grado di ammutolire definitivamente il dolore, la cui «sorda voce» non tace, e anzi più volte «domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [47]. È in particolar modo nel buio, quando sono immersi nelle tenebre, che gli uomini tremano, «quando la trama dell’illusione s’affina, si disorganizza, si squarcia», quando «fatti impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò che non sanno: temono senza sapere di che tremano. Si trovano a voler fuggire la morte senza più aver la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando» [48]. Sono queste le «spaventevoli soste», quando gli uomini nel sonno sono visitati dai sogni, e il «ghigno sarcastico» gli scaraventa addosso tutta la loro miseria, tutta la loro nullità:

«ùuùuùuùu… niente, niente, niente, non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente…» [49].

Michelstaedter qui si spinge oltre Leopardi, lo attraversa e ne radicalizza il pensiero, privando l’uomo persino del conforto del sonno, mantenuto intatto dal recanatese, e anche nella più radicale e severa delle Operette morali, il Cantico del gallo silvestre [50]. Il goriziano riprende poi il tema del sogno anche nell’ultimo capitolo Della rettorica, sottolineando l’impossibilità, l’incapacità dell’uomo di comunicarne le sensazioni:

La realtà degli uomini è la figura del sogno, che di quella parlano come se narrassero un groviglio di sogni. «Poiché viene il sogno con groviglio di cose e la voce dello stolto con groviglio di parole» (Ecclesiaste, V, 2). – Ma mentre il sogno è l’intima misura della vita, quello che in riguardo alla vita ognuno sente – così che gli uomini non sanno comunicare le sensazioni del sogno; – per comunicare il groviglio di sogni della loro realtà essi trovano parole convenute per ogni riferenza particolare. – L’uomo nel sogno è nudo e davanti a dio così com’è – e pesa per quanto vale – tutte le forme, gli ingegni, le parole, che non sono sue e cui s’è adattato secondo la convenzione – cadono. Nell’intimità del sogno egli è come i suoi antenati che vivevano soli e nudi. – Difatti gli uomini se si mettono nella posizione come quando vogliono comunicare quelle misteriose sensazioni dei sogni, allora si trovano davanti all’impossibile, «non trovano parole» per «esprimere quello che sentono». Ma per gli usi della vita tutti dicono «tavolino, seggiola, piazza, cielo, colle» ecc. o «Marco, Filippo, Gregorio» ecc.

Οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε νῦν τε ἔασι,
καὶ μετέπειτ’ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα
τοῖς δ’ ὄνομ’ ἄνθρωποι κατέθεντ’ ἐπίσημον ἑκάστῳ.

(Parmenide, v. 151 sgg.)

Ma che ne sanno? Ben essi dicono che se li vedono davanti chiudendo gli occhi e che li conoscono a fondo – ma se vogliono dir cosa siano, la figura si dissolve in notizie date come ricevute e in dati coordinati che corrispondono alle diverse impressioni dei sensi e all’uso a cui la data cosa serve, e si riduce, quando non sia indifferente, alla inesplicata simpatia o antipatia, alla attrattiva o alla repulsione che la data persona o la data cosa risveglia. – Come quando uno si mette a disegnare ciò che dice di veder perfettamente – e finisce col far… ghirigori e monogrammi… «perché non sa disegnare». – [51]

È dunque nella materia dei sogni che il linguaggio della «rettorica» mostra tutti i suoi limiti, tutto il suo carattere prefabbricato. «Rettorica» che cristallizza la lingua, privandola delle sue luminose potenzialità.

Mentre l’artista, il vero artista, «vede le cose lontane come le vicine e perciò le può dare così ch’esse appaiono nella loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [52], il «semplice» va

a «veder da vicino le cose lontane» e le ha date via via come da vicino le ha viste. Egli ha ripetuto la vicinanza materiale per creare la vicinanza delle cose lontane. – Egli non ha comunicato l’intimità, la stessa natura dell’oggetto, ma lo ha significato con quelle apparenze che ogni volta lo fanno riconoscere a chi l’abbia già visto. –
Così quando parla egli si trascina attraverso le relazioni elementari dei concetti e per più girar che faccia non più ne prende.
E le parole, come nel parlare rimangono oscure e vaghe, perdono la possibilità della pienezza delle riferenze per cui altrimenti sono perspicue. Da corpi vivi che possono attaccarsi e determinarsi attaccando e determinando da tante parti e in tanti modi, esse diventano materia che per sua forza non può riferirsi che in un modo e talvolta in questa unione resta cristallizzata. Da individualità precise esse diventano partes materiales. –
Il loro modo congiunto, tanto più inadeguato quanto il loro sapere più limitato, è ridotto quasi esclusivamente alle elementari relazioni di tempo e alle finalità. Del resto il bell’organismo vivo d’un periodo rivelatore, è ridotto al pesante seguito di proposizioni incolori come una catena di forzati, legate pesantemente coi «che», coi «siccome», «e dopo», «e allora», «il quale» ecc. [53]

Allo stesso modo degli uomini, anche le parole perdono la loro vitalità e vengono ridotte a mera materia.

Di questo incessante processo di cristallizzazione, atrofizzazione della lingua, Michelstaedter fornisce in nota un esempio pratico.

Per esempio: «ministro» cristallizzato nel senso politico. Per supplire agli altri usi, da amministrare amministratore, senza più il senso che il ministro è un amministratore, l’amministratore un ministro; ma ognuna delle due parole basta ogni volta per significare la vicina relazione. – Chiaro è il processo d’atrofizzamento nelle parole composte con preposizioni; che perdono il senso della composizione in ciò che il prefisso perde la reggenza – e vengono legate come meno pregnanti nei modi comuni: se sono verbi coll’oggetto diretto, se sono sostantivi col genitivo (accennare una cosa, accenno d’una cosa).
– Un esempio caratteristico è l’incostanza dei temi nei verbi più comuni. La lingua nel suo nascere indica le diverse posizioni sintattiche o con l’aggiunta di nuove parole o con sempre nuove parole per ogni nuova posizione (come la natura nei suoi gradi inferiori unisce cellule inarticolate a complessi maggiori: vita minerale). – Le parole d’una lingua razionalmente vissuta, come gli organismi superiori più decisamente individuati, s’articolano nei diversi modi con elementi determinati e mutabili, immutabili restando nella essenziale loro caratteristica radicale. Così è reso perspicuo che la stessa cosa entra in una nuova relazione e la relazione [è] più profondamente vissuta. Ma anche nelle lingue che del resto compiono colla flessione ogni funzione sintattica, in quei verbi che, d’uso continuo, hanno più vita sociale, ha avuto il sopravvento la cura della significazione sufficiente su quella, che è degli uomini superiori, della comunicazione razionale, e fanno le forme diverse trasformando il tema […] [54].

Commenta così il passo Camerino, evidenziando le numerose analogie tra Michelstaedter e la Sprachkritik viennese, e soprattutto con Wittgenstein e Weininger:

Questo passo non meritava di essere relegato in nota in quanto, oltre all’attenzione tutt’altro che occasionale rivolta agli elementi costitutivi del linguaggio – i prefissi, la flessione (che riguarda, com’è noto, radici, suffissi e desinenze), il tema -, rivela una grande importanza per la notevole coincidenza che ci è data cogliere col postulato della razionalità logica della lingua, che Michelstaedter avverte insieme alla cultura viennese d’inizio secolo e che prelude alle rigorose formulazioni di Wittgenstein. Non deve inoltre sfuggire la distinzione tra la lingua dell’uso comune, ridotta a significazione sufficiente, e quella creativa e razionale degli uomini superiori; distinzione e terminologia adottate già da Weininger, che aveva scritto tra l’altro (il corsivo è nostro): «Ogni parola fu creata da un uomo che era superiore alla media, come succede quasi sempre ancor oggi (prescindendo, com’è naturale, da nomi per invenzioni tecniche). E come altrimenti sarebbe nata la lingua?» [55].

Se l’«intenzione» di colui che vive senza persuasione, e senza volerla ottenere, implica un rapporto di finalità, necessità, potenzialità, egli

non la può comunicare col nesso perspicuo dell’organismo congiunto, ma deve con moltiplicar di parole affannarsi a significarla: per esempio, s’egli vuol dire che è necessario che un altro faccia una tal cosa perché poi la faccia lui stesso a sua volta, non dice: «lo farò quando tu l’abbia fatto», ma deve dire: «non lo farò né oggi né domani né mai; prima devi farlo tu, solo dopo lo farò io». Per dire: «lo farei se tu lo facessi», deve dire: «io per me lo faccio – ma fallo prima tu» [56].

«Questione d’accontentatura», scrive Michelstaedter. Perché

Se uno si è sufficiente nei modi della vita offerti dalla società, può accontentarsi di significare per i suoi usi nei modi convenuti le cose convenute e adagiarsi a ripetere senza intendere quello che gli altri in quei casi dicono, per esser inteso allo stesso modo da altri iniziati alla stessa κοινωνία. – Così egli può anzi avere uno «stile», una «lingua» perfetti e pur non dir mai niente. – Ma quanto uno vuol camminar sulle sue gambe, tanto deve sanguinar le sue parole, poiché «egli è cieco, senza patria, miserabile se concede alle frasi fatte» (Carlyle, p. 78) [57].

L’adeguata affermazione di individualità richiede uno straordinario sforzo linguistico: le parole si devono sanguinare. E la possibilità di un linguaggio autentico richiede un necessario affrancamento dalla società.

Ed ecco che a questo punto Michelstaedter arriva a proclamare la sua ultima, estrema e severa parola, profetizzando l’avvento del «regno del silenzio».

La lingua arriverà al limite della persuasività assoluta, quello che il profeta raggiunge col miracolo, – arriverà al silenzio quando ogni atto avrà la sua efficienza assoluta. Ma se a uno di questi poveri rimasugli d’umanità [in] un giorno di sole verrà un brivido di vita, quasi una reminiscenza attraverso i tempi al suo tardo cervello – e s’indugerà sul manubrio della sua macchina turbato, e s’allontanerà dal lavoro, – il compagno avrà poca pena a farlo rinsavire. «Vieni» gli dirà «è il tuo dovere morale!». L’altro capirà subito: «è il pane», e andrà al lavoro con la testa bassa. Καλλωπίσματα ὄρφνης! – Prima di giungere al regno del silenzio ogni parola sarà un Καλλώπισμα ὄρφνης: un’apparenza assoluta, un’efficacia immediata d’una parola che non avrà più contenuto che il minimo oscuro istinto di vita. Tutte le parole saranno termini tecnici quando l’oscurità sarà per tutti allo stesso modo velata, essendo gli uomini tutti allo stesso modo addomesticati. Le parole si riferiranno a relazioni per tutti allo stesso modo determinate. Come oggi si dice «forza d’attrazione», che non dice niente ma vuol significar solo quel complesso di effetti che tutti hanno vicini, ai quali bisogna pur supporre una causa sufficiente, così allora si dirà: virtù, morale, dovere, religione, popolo, dio, bontà, giustizia, sentimento, bene, male, utile, inutile ecc. e s’intenderanno rigorosamente quelle date relazioni della vita: i τόποι κοινοί saranno fermi come quelli scientifici. Gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera. Allora sì avrà buon gioco chi vorrà scriver una rettorica. Ché la vita dell’uomo sarà davvero la divina μεσότης che dalla notte dei tempi futuri rifulse all’anima sociale d’Aristotele. Gli uomini parleranno, ma οὐδὲν λέξουσιν [58].

Parole tanto chiare, nella loro lucida spietatezza, che non abbisognano di ulteriori commenti. Più o meno tutti i critici, in riferimento al passo sopracitato, hanno ceduto alla tentazione di identificare il proprio tempo con il «regno del silenzio» michelstaedteriano, dimenticando troppo facilmente che il goriziano stesso subito dopo puntualizza di parlare «del futuro per avere il caso di limite, ma gran parte del futuro è nel presente» [59]. Se proprio si vuole ricollocare temporalmente le parole di Michelstaedter, più che soffermarsi sul proprio oggi (e noi ne avremmo ben donde, in questo oscuro e nauseante coacervo di social media che «danno diritto di parola a legioni di imbecilli», ricordando Eco), occorrerebbe dilatarle lungo tutta la storia del genere umano, con la consapevolezza che al peggio non c’è mai fine.

1.2 Appendici critiche

Riguardo le Appendici critiche, scrive Asor Rosa:

Più in generale, quello delle Appendici, più che essere un discorso di documentazione e di appoggio alla Persuasione e la rettorica, è un discorso parallelo, che ripete, ma con strumenti diversi, quello precedentemente svolto. In particolare su di un punto: quello della costituzione e dello sviluppo della filosofia greca, dai presocratici a Socrate a Platone e Aristotele. A voler tener presenti per forza le distinzioni di “genere”, direi che la vera “tesi di laurea” è questa; la parte iniziale non è che un’anomala e sproporzionata premessa all’esibizione vera e propria di sapienza disciplinare contenuta nelle Appendici. Rispetto al modello del “genere”, nel lavoro di Carlo è corpo quel che dovrebbe essere marginalia e marginalia quel che dovrebbe essere corpo [60].

Dopo essersi soffermato, nella prima appendice, sui modi di significazione sufficiente (diretto, congiunto, correlativo e imperativo, il modo, o meglio, il non-modo del persuaso, quello nel quale restano intatte vita e attualità [61]), Michelstaedter si concentra totalmente sulla filosofia greca, e anche in questo caso la questione del linguaggio e la critica ad esso restano centrali. Nelle Appendici critiche la polemica nei confronti di Platone ed Aristotele (di fatto in esse si conserva il nocciolo dell’idea aurorale della tesi di laurea, l’analisi dei concetti di «persuasione» e «rettorica» nei due filosofi greci) si fa scoperta, sfiorando talvolta il tono aspro dell’invettiva.

Ciò che nell’Esempio storico il goriziano aveva in un certo senso solo adombrato, nelle Appendici critiche lo dichiara apertamente: il primo a tradire Socrate è Platone [62]. Con Platone tramonta il principio morale, egli, ammettendo di poter raggiungere il sapere pur senza persuasione, «rinuncia al postulato della vita». Ma il sapere lungi dalla vita

non è che l’indifferente, illimitato sistema dei nomi. Questo sistema, che non dà le cose, ma parla a proposito delle cose, egli sostituisce come scopo alla persuasione nella vita, quando si propone di cercar cosa sia la giustizia come altra cosa che cercar se sia un bene [63].

Con Platone «tutto è degno d’esser detto» [64], le parole vanno via via degradandosi, e anche quelle «che ebbero la loro vita nella via della persuasione», non sono ormai che nomi come segni convenzionali «di date relazioni – di quelle quali si siano relazioni che altri voglia poi intendervi sotto per aver puntelli alla sua qualunque sufficienza: nodi nella qualunque trama ch’egli vada contessendo a riparo dell’oscurità: ὄρφνης καλλωπίσματα» [65].

Riprendendo il consueto nesso tra parola ed affermazione, costituzione di se stessi, alla base della riflessione michelstaedteriana sul linguaggio, il goriziano individua nella «maldicenza» l’aspetto peculiare della «rettorica».

Stomaco vuoto – bocca amara: se mi sento mancare, bisogna che mi ricostituisca la persona almeno a parole. La mia apologia posso farla o fingendo finita la mia qualunque vita – o demolendo la vita altrui per affermar me stesso implicitamente libero da quel male che negli altri noto. E poiché, s’io voglia aver del mio parlar un qualche frutto, bisogna che qualcuno mi presti compiacente ascolto – meglio riuscirò nel mio intento dicendo male degli altri che dicendo bene di me. Infatti il bene ch’io fingo alla mia vita, che non è bene che per me nel punto che lo dico, non dà niente all’altro se non forse invidia e noia; – il male ch’io dico degli altri – dal quale, come implicitamente escludo me stesso, escludo anche il mio interlocutore – concedendogli la stessa persona ch’io voglio affermare di me e facendolo del mio stesso piacere partecipe, lo rende compiacente al mio parlare e di più udire desideroso. – Quando due persone hanno detto male d’una terza, si sentono bene e, per questo bene ch’è comune possesso, come per un nuovo vincolo, stretti da più sincera amicizia. – Epperò dalle «conversazioni» che s’avvivano come per nuova legna quando uno incomincia a guidar la noia generale per i retroscena poco puliti delle migliori conoscenze – agli uomini di lettere che con più o meno buona grazia devono per forza dar dell’asino a quanti nello stesso assunto li precedettero, perché il loro proprio lavoro acquisti inadeguatamente il valore che per sé non abbia – ai giovani che non avendo niente da dire, per poter pur commescer anche la loro voce al concerto generale, si mettono ad ogni modo in posizione catastrofica per tutto il resto dell’umanità passata e presente, e tirano pugni all’aria: – la maldicenza è il più consueto, il più facile, il più caro aspetto della rettorica [66].

Strada facendo il tono anti-platonico di Michelstaedter si inasprisce. Con Platone i nomi che costituiscono la sapienza, la vera sapienza, «e che rifulsero di tutta la loro luce nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono ora per la loro stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza all’oscurità» [67].

Dal discorso fugge la vita, e nel discorso Platone si finge «vita sufficiente». Così le parole vengono ridotte, degradate all’infimo rango di «arnesi del mestiere: sono termini tecnici» [68].

Nell’integralista prospettiva filosofica di Michelstaedter il mondo non è cosa da dirsi, ma da viversi.

Ma s’io pur ci sono e dico cose ch’io non viva, ogni volta in ognuna di queste si ripete l’illusione elementare del mio essere, che sono qui soltanto perché non sono altrove; e come per me è il mondo, così ora in ogni punto dove io abbia fisso lo sguardo senza vita, quella cosa non sarà solo essa vera per me in quel punto, in quell’attimo, in quel modo che alla mia vita sia necessario; ma essa sarà un mondo per sé: non una cosa da viversi ma da dirsi [69].

Ed è soprattutto con Aristotele che si verifica ciò. Egli porta alla perfezione l’impianto rettorico. Nella sua memoria «il sistema delle parole è sempre un diverso dall’attualità», perché egli stesso «è fuori dell’attualità e nella vita non reagisce direttamente» [70], ma solo ed esclusivamente secondo ragione. Ed al cospetto di questa sua ragione l’intera realtà è ridotta a mera «materia».

Ecco cosa Aristotele insegna ai suoi discepoli:

«non parlate di essere o non essere, ma fateli significar qualche cosa». Infatti, data una qualsiasi significazione, positiva o negativa, scettica, agnostica, catastrofica – in ogni modo è dato il presupposto per la necessità del diritto di dire […] [71].

Michelstaedter, quasi fosse impegnato nella realizzazione di una delle sue irriverenti caricature, effettua il ritratto di un Aristotele distante dall’uomo e dalla vita, che non ha «nella propria natura il criterio della natura umana» [72]. E tra le maggiori responsabilità dello stagirita, vi è quella di aver separato la teoria dalla pratica, o quantomeno di aver acuito tale separazione, quando invece

La teoria della pratica per esser pratica non deve esser teoria, non deve finger una qualunque realtà sufficiente nella qualunque elaborazione dei suoi dati, ma deve esser un imperativo, che sia sferza ai dorsi inerti degli uomini a far sentir loro la loro insufficienze, essa stessa come in ciò attiva, […] permanendo infinita, che il suo fine abbia nella cessazione dell’insufficienza […].
Essa vuole, con la attualità di tutta la persona chiede qualche cosa nella vita: in ciò parla agli uomini della lor vita, essa vuole la propria stessa vita; la «sufficienza» che trova cristallizzata nelle parole e nelle istituzioni degli uomini, essa esperimenta come insufficiente con la misura unica della propria richiesta; e molti mali fa manifesti e «un» bene nell’eliminazione del male. – [73]

In questo passo riecheggia lo scopo dell’esistenza del persuaso – e si pensi ai persuasi citati nella Prefazione della tesi di laurea – e l’aspirazione dello stesso Michelstaedter, il quale, una volta costretto dalla «rettorica» a scrivere quest’opera, decide di non cedere ad ulteriori compromessi e di impugnare la spada, smascherando molti di quei «mali» che attanagliano il proprio tempo. Ma lo smascheramento non porta in automatico ad un cambiamento, anzi, e di questo il goriziano si mostra assolutamente consapevole (si ricordi quanto Michelstaedter scrive nella Prefazione: «Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole» [74]). Aristotele parla la voce della nebbia, e come questa stessa nebbia è «invincibile».

Il regno delle parole in lui è così ben costituito che ogni ribellione rientra anch’essa nelle istituzioni preparate. A ogni obiezione è opposto un τόπος. Le negazioni, i dubbi dei filosofi anteriori, dove vive la loro richiesta della persuasione, egli ha tacitati, finta loro nella qualunque argomentazione artificiosa sufficiente risposta.
E dei modi di questa richiesta infine, e della forza della persuasione egli s’è fatto soggetto alle teorie della Topica e della Rettorica [75].

Con questa amara riflessione, che ha il tono sommesso della resa, si conclude la Appendice II. Ma di appendici ce ne sono altre quattro, e dopo aver rifiatato, Michelstaedter ricomincia con il suo tono martellante e bellicoso la guerra alle parole.

Dire di dire invece che dire, e nelle parole dette fingersi ogni volta una prova reale di ciò che si dice, a questo giunge necessariamente chi delle parole si sia fatta la sua vita: che come una persona parla della realtà, così esso parlerà delle parole.
Le parole e i modi della lingua che esistono per chi parla solo in ciò che con questi egli abbia a significare complessi di determinazioni attuali nella sua coscienza, diventano per Aristotele «cose» essi stessi: si cristallizzano. – E il suo parlare, che queste parole e questi modi cristallizzati muove, che in questo ha la vita, non può avere la significazione complessa, ché non ha più l’attualità dei modi, ma è come il parlare d’uno che non vedesse, che non sapesse altro che miriadi di cose, tutte uguali l’una all’altra, girarsi come una nebbia intorno a lui; che direbbe: questo è questo. «Questo è questo» e non potrebbe dir altro. – Così congiunge Aristotele le sue parole che, come gli hanno preso persona ognuna per sé, gli sono sempre un «questo» finito che non ha più la necessità né la possibilità d’esser maggiormente significato [76].

Michelstaedter distingue tra «Chi è tutt’uno col suo soggetto e parla perché questa è la sua vita», e «ha sempre tagliati dietro a sé tutti i ponti e combatte sull’ultimo a vincere o a morire» [77], e chi invece di morire ha paura. Rispetto ai primi, i secondi non hanno la volontà «di dire, ma d’aver detto; non vivono in ciò che dicono, ma dicono questo e quello per vivere. La necessità di ciò che dicono non è in ciò che dicono, bensì nella loro qualunque necessità di uomini di quel tempo e quel luogo che vogliono aver quel bene… o quel male nella vita» [78].

Altra significativa distinzione operata dal goriziano è quella tra la parola del filosofo e la parola di tutti gli altri.

L’unica potenza della parola è quella della viva parola del filosofo, come questa è per questo l’unica forma d’attività. Ogni cosa scritta già ferma arbitrariamente i concetti, mentre solo nell’incontro di due individui nasce e s’afferma il valore individuale. Chi s’accontenta in ciò che ha scritto […] e non lo sa far vivere per ognuno, vuol dire che non possiede il valore individuale e non è un filosofo, ma quello è o un poeta o un legislatore ecc., porta in ogni caso il nome dell’irrazionalità del suo soggetto [79].

Questo passo offre diversi spunti particolarmente interessanti. La parola del filosofo mantiene quella vitalità assente nella parola morta, prefabbricata della «rettorica». Eppure, nel canone dei persuasi stilato nella Prefazione della tesi di laurea, compaiono non solo filosofi, ma anche, e in maggior numero, artisti, nel senso generale del termine. Ma per i vari Eschilo, Sofocle, Simonide, Petrarca, Leopardi, Ibsen, Beethoven valga ciò che vale per Tolstoj, e che Michelstaedter scrive nell’articolo pubblicato sul «Corriere Friulano» del 18 settembre 1908, in occasione degli ottant’anni del grande scrittore russo (uno dei pochissimi testi – si contano sulle dita di una mano – pubblicati in vita dal goriziano): «Perché egli ci ha fatto vivere la sua vita e il suo pensiero nei suoi romanzi e si è rivelato a noi filosofo ed apostolo soltanto in quanto è stato artista. Dall’Anna Karenina alla Resurrezione c’è tutta la sua intima resurrezione; e l’ultimo gesto del Tolstoj, che egli ha compiuto perché “ha dovuto” compierlo in omaggio alle sue idee, il gesto che poteva costargli la vita, l’articolo fremente contro le condanne a morte, non è che l’ultimo capitolo che chiude la serie dei suoi romanzi. Come in ognuno degli uomini veramente grandi, nel Tolstoj arte, vita e pensiero sono un tutto inscindibile» [80].

Inoltre, nel passo sopra citato, emerge un aspetto del pensiero di Michelstaedter che approfondiremo nell’ultima parte del presente lavoro: l’insufficienza della parola scritta, differita dunque, che «ferma arbitrariamente i concetti, mentre solo nell’incontro di due individui nasce e s’afferma il valore individuale».

Michelstaedter carica la parola, come ogni altro aspetto dell’umana esistenza del resto, di un valore etico; essa deve incidere, segnare l’animo, e non solo di colui o di coloro al quale o ai quali è rivolta, ma di tutti. Qualunque cosa si dica o si scriva che non muova, che non solleciti l’animo di ciascuno

«lavorando» in qualunque «materia», sarà sempre arbitrario, oscuro, irrazionale; e tu stesso sarai oscuro e avrai della natura della tua «materia», se non saprai comunicarlo e farlo vivere in ogni anima [81].

Universale è il messaggio michelstaedteriano, non si pone limiti spazio-temporali, e anche quando la sua attenzione è rivolta prevalentemente alla filosofia greca, come nel caso delle Appendici critiche, il goriziano non manca di rivolgersi ai propri contemporanei [82], perché egli «si serve della civiltà greca come dello scenario ideale per ricostruire l’origine della malattia moderna: la scissione della cultura dalla vita, l’autonomia astratta del dire e del sapere rispetto al vivere» [83].

1.3 Il dialogo della salute

Contemporaneamente a La persuasione e la rettorica, nel suo ultimo anni di vita, il 1910, Michelstaedter scrive Il dialogo della salute. Ed è innanzitutto per questa perfetta corrispondenza temporale che esso si configura «come vera e propria epitome dell’opera maggiore» [84]. In tal senso, anche nel Dialogo della salute la questione del linguaggio e la critica ad esso occupano una posizione di assoluto rilievo.

Rispetto a La persuasione e la rettorica, Il dialogo della salute non è il frutto di un’imposizione istituzionale, ma di una libera scelta dell’autore. Autore che elegge persino un pubblico ideale al quale destina l’opera, come dimostra la dedica:

Al mio Emilio
in memoria delle nostre sere
e a quanti giovani
ancora
non abbiano messo
il loro Dio
nella loro carriera [85]

È senza dubbio questa la differenza più rilevante tra le due opere, e che si riflette anche sulla scrittura dei due testi. Mentre infatti nella tesi di laurea la penna del goriziano finisce talvolta per tradire – inevitabilmente – tutta la fatica che lo affligge nella realizzazione di un lavoro d’obbligo, nel Dialogo della salute mantiene sempre una certa scioltezza.

Il dialogo – ispirato al grande modello dei dialoghi di Platone, quelli precedenti alla deriva aristotelica, «con un innesto del moralismo leopardiano delle Operette» [86] – presenta due interlocutori, Nino e Rico, nei quali si riflettono i due cari amici goriziani di Michelstaedter, Nino Paternolli ed Enrico Mreule. Tra i due c’è uno scarto evidente, mentre infatti «il primo parla come l’uomo rettorico, incapace di consistere nel presente e allettato dal fantasma del piacere, il secondo ribatte con gli strumenti socratici della dialettica e dell’ironia tragica» [87]. In base a questo, è evidente che tutte le battute dedicate alla critica del linguaggio, e che più ci interessano rispetto alle altre, sono pronunciate proprio dal socratico Rico.

Come già ribadito più volte, secondo Michelstaedter esiste un legame inscindibile tra parola ed individualità; l’uomo si costituisce e si afferma parlando. E anche nel Dialogo della salute egli parte proprio da qui, da questo nesso parola-individualità – costitutivo nella sua riflessione sul linguaggio – legandolo innanzitutto al concetto di maldicenza, che rappresenta, come si legge nelle Appendici critiche, «il più consueto, il più facile, il più caro aspetto della rettorica» [88]. Perché, come sottolinea Muzzioli, «l’impoverimento di un vocabolario ridotto alle ‘parole d’ordine’ si accoppia – secondo un’altra felice intuizione del nostro autore – a un’inversamente proporzionale proliferazione del materiale verbale» [89]. Così ne parla Rico:

E gli uomini s’affannano a parlare, e colla parola s’illudono d’affermare l’individualità che loro sfugge. – Ma gli altri vogliono parlare e non ascoltare – così l’un l’altro macella e contraddice. Non importa loro che la cosa sia detta, ma ad ognuno importa d’esser lui ad averla detta. È ben perciò che le particelle introduttive del discorso hanno preso le armi e son divenute avversative [90]. Quanto un uomo è vano, tanto ha bisogno di parlare – quanto gli manca in realtà il giusto sapore dei suoi atti e quella coerenza dell’intima εὐλάβεια, tanto è necessitato a parlare per affermarla pel fatto stesso che enumera le cose. Raccontando gli atti più meschini della sua vita egli presume d’essersi costituito una persona. Un buon giocatore di scacchi tace, che in ogni mossa gode il proprio piano – parla invece chi vuol illudersi d’averlo. Ma il solo parlar nulla rivela – meno ancora se non trova orecchio compiacente che gli conceda la momentanea illusione. Per la cura di questa nascono le κοινωνίαι «intellettuali» con la tacita intesa della vicendevole compiacenza. Ognuno dà perché gli sia dato. E ognuno, se racconta la sua vita sciagurata e i fatti dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei compagni integra almeno l’illusione della sua individualità. –
La funzione parallela al mutuo incensamento è la maldicenza, dove chi biasima un male o l’apparenza d’un male degli altri si afferma implicitamente libero da quello, e concede a quelli che lo ascoltano d’esserne liberi anch’essi, per aver da loro quando che sia a sua volta la concessione. – Nelle comunità amichevoli che fioriscono nella comune vanità ognuno vive della morte di chi è fuori della comunità. –
– Ma nella sua solitudine ognuno si ringhiotte nel suo stomaco vuoto il marcio e l’amaro di quelle conversazioni micidiali. –
Questo sono le compagnie di cui son lieti i tuoi uomini. – [91]

La critica di Michelstaedter non risparmia l’arte, perché «Neppure il linguaggio dell’arte scampa alle spire del levitano “rettorico”. Da un lato c’è il “virtuoso”, che sfrutta una ripetitiva abilità tecnica; dall’altro lato il cacciatore di “emozioni” che, proprio perché le attende o le produce in funzione della pagina, non potrà mai provare un’”emozione” autentica e spontanea – e in compenso, pretende di sfruttare, volgendolo al sublime, qualsiasi inopinato borborigmo» [92].

Caustico il socratico Rico:

Te lo immagini il giorno grigio e nebbioso nell’officine spente di questi artieri affamati, quando curvi negli angoli oscuri essi cercano fra i ferri vecchi quale sia abbastanza artistico – e fanno tesoro d’ognuno? E se esce loro dal diaframma un noioso sbadiglio per la vuotezza dello stomaco, si sollevano sorridono e dicono: «questo m’è sorto dal mezzo del cuore» – lo riguardano alla luce, gettano uno sguardo all’arte, prendono le frasi convenute della stanchezza dell’esistenza – ed ecco una composizione che i giornali compiacenti diranno «pervasa da un’amara intuizione della vita». E dire che quell’amaro era acido di stomaco. – [93]

Anche nell’arte, come in ogni altro aspetto della vita, non c’è più autenticità, ma tutto è artefatto, costruito, prefabbricato. Michelstaedter si riferisce evidentemente al coevo estetismo decadente, e anche in questo caso può essere utile ricorrere al già citato articolo su Tolstoj, testo che all’interno del corpus michelstaedteriano riveste una particolare importanza.

Nella letteratura internazionale contemporanea, mentre l’arte scende ovunque alla ricerca del dettaglio – da Oscar Wilde a Gabriele D’Annunzio – Ibsen e Tolstoj emergono dalla folla perché non s’accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima, ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. – Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le gridarono in faccia: verità! verità! [94]

Grido che dal quel momento in poi – ricordo che l’articolo è del settembre 1908 – è passato «a significare il senso della ricerca stessa di Carlo Michelstaedter ed il suo bisogno di autentico e di assoluto» [95].

La «rettorica» in particolar modo – sia essa dei piaceri, dell’autorità, artistica, filosofica e scientifica – scaturisce dalla corruzione, dal traviamento dell’autentico:

la preoccupazione della vita spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni dove videro vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche tempo vivere. Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la degenerazione sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d’un uomo che ha una missione da compiere, l’ambizione della potenza – e la rettorica dell’autorità; dall’opera d’un uomo che aveva qualche cosa da dire – la posa dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che mostrarono agli altri la retta via – la presunzione dei pensatori – e la rettorica filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [96].

Chi, tuona Rico, non è preda della «rettorica», ma vede la vanità della vita, nei confronti di se stesso non deve provare pietà, ma sdegno,

che in te, nel tuo cuore che batte e ribatte, che esulta e si lamenta, che spera e dispera, nella tua bocca che parla e si riempie di niente, nel tuo stomaco che chiede il pane, nel tuo corpo che pesa inerte, nelle tue membra, nella tua carne, nel tuo sangue, – la devi sentire. Non pietà ma nausea devi sentire di te stesso che sei e non sei: sicché dolce ti sia il ferro che ti ferisce e un rovaio il giaciglio dove pesa la tua inerzia, sicché amaro ti sia il pane e intollerabili le parole [97].

Perché «con le parole della nebbia – vita morte, più e meno, prima e dopo, non puoi parlare di colui che nel punto della salute consistendo ha vissuto la bella morte» [98]. Termina così la seconda stesura della conclusione del Dialogo della salute; della prima ci occuperemo più avanti.

Come ho sottolineato più volte nel corso di questo primo capitolo, Michelstaedter individua nella parola il mezzo attraverso cui l’uomo costituisce ed afferma se stesso. Per questo motivo all’interno della sua produzione filosofico-letteraria la questione del linguaggio – e la critica ad esso – occupa una posizione di assoluto rilievo. E alla parola prefabbricata, vuota, priva di significato, di autenticità e di vitalità della «rettorica», anticamera del «regno del silenzio», egli contrappone la parola «luminosa» della «persuasione», quella che «con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano» [99]. La parola di Parmenide, Eraclito, Empedocle, Socrate, Qoelet, Cristo, Eschilo, Sofocle, Simonide, Petrarca, Leopardi, Ibsen, Beethoven. La parola di Carlo Michelstaedter, e di pochi, pochissimi altri dopo di lui. La parola di nessuno, oggi.

Note

[10] Riporto il monito della Taviani, da lei riferito nello specifico alle interpretazioni di Michelstaedter risalenti agli anni Ottanta del secolo scorso: «Sospesa fra i poli estremi del tutto e del nulla, del “pieno” ontologico e del “vuoto” nichilistico, La persuasione e la rettorica è ancora una volta decontestualizzata, portata alla deriva, messa a tacere. Solo riportando l’opera al contesto e alle dinamiche storico-culturali di un’epoca, essa potrà “tornare sulla terra”: ribadire il valore conoscitivo del sospetto, per opporsi, comunque, alla tentazione assolutoria del nulla». Giovanna Taviani, Michelstaedter, G.B. Palumbo & C. Editore, Palermo 2002, p. 163.

[11] Per un confronto tra Michelstaedter e Vailati rimando a Piero Pieri, Due opposte interpretazioni di Socrate: Michelstaedter, Vailati, la scienza e le funzioni rappresentative del linguaggio, in Piero Pieri, La scienza del tragico. Saggio su Carlo Michelstaedter, Cappelli, Bologna 1989, pp. 211-226.

[12] Secondo alcuni critici, come Asor Rosa e Pieri, La persuasione e la rettorica di Michelstaedter sarebbe proprio una risposta a L’arte di persuadere di Prezzolini. Si vedano: Piero Pieri, Michelstaedter, Prezzolini e l’arte di persuadere, in Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., pp. 363-369; Asor Rosa, Ritratto dell’intellettuale da Giovane, in Giuseppe Prezzolini, L’Arte di Persuadere, Liguori, Napoli 1991; Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., pp. 284-285.

[13] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., pp. 125-126.

[14] Per un confronto tra Michelstaedter e la Sprachkritik rimando a Giuseppe Antonio Camerino, La “rettorica” di Michelstaedter e la “Sprachkritik” viennese, in Giuseppe Antonio Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper, Liguori, Napoli 2005, pp. 9-17.

[15] Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, in Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, traduzione di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 21.

[16] Dall’editore Formiggini, per intercessione di Vladimiro Arangio-Ruiz.

[17] Sia in Leopardi che in Michelstaedter, come scrive la Pagnanelli, è presente «una serrata critica nei confronti del linguaggio e della sua perduta capacità di aderire all’essenza delle cose». Fabiola Pagnanelli, Il sorriso tragico di Carlo Michelstaedter, in AA.VV., «Quel libro senza eguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di N. Bellucci e A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2000, p. 58.

[18] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 98-100. Chiedo venia per la lunghezza delle citazioni, ma preferisco sempre far parlare chi ha davvero qualcosa da dire.

[19] E non è il solo. Entrambe queste esperienze, centrali nel ricco panorama letterario italiano primonovecentesco, scaturiscono dal rifiuto del modello dannunziano (che anche Michelstaedter subì, verrebbe quasi da dire inevitabilmente, il fascino del «sogno di Sperelli», come scrive Gozzano nella poesia A Massimo Bontempelli, lo dimostra questa lettera scritta a Iolanda de Blasi e datata 25 aprile 1907: «Pure io la libertà la voglio, e la saprò raggiungere… o soccomberò. – E se non più posso comperare l’illusione della libertà a prezzo dell’imbestialimento, né posso stendere la schiena sopra una cima di monte irraggiato dal sole, alzar gli occhi al cielo e contemplare, voglio e potrò foggiarmi la vita come un’opera d’arte, sentire in ogni cosa l’infinita bellezza della natura (nel senso più lato) e del “primo motore” – come dice Leonardo da Vinci – e ritrarre da ogni visione, da ogni sentimento lieto o triste un esaltamento della forza, un innalzamento della mia individualità e un aumento della mia vitalità, e sfuggire alla necessità delle cose, idealizzandole, impadronendomene idealmente». Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 203); entrambe ricorrono massicciamente all’ironia. Ma a tracciarne la distanza, sottolineando l’insuperabile incompatibilità etico-filosofica esistente tra le due esperienze, è lo stesso Michelstaedter, in un appunto scritto a Firenze e datato 27 novembre 1908: «In tanto nel caminetto della mia piccola stanza arde la legna in una chiara e crepitante conflagrazione, e il colore s’irraggia, che m’accarezza le membra, e la caffettiera fuma e promette il buon caffè che mi sferzi i nervi, e il fumo della sigaretta scende aromatico e forte a molcermi e la bocca e i polmoni; e il benessere costituito di tutte queste care piccole cose m’avvolge il caro corpo, lo seduce, lo ammorbidisce, lo illibidinisce, lo rende frollo, pesante, vile. E nella fronte congestionata il pensiero s’addormenta domesticamente, e lo sguardo lucido fissa la fiamma compiacente, stupido. Vuoi anche la gioia vanitosa che qualcuno ti veda e creda che tu pensi? E miri come nella tua grave macchina si compie il prezioso miracolo? O vuoi sorridere di pietà sull’attività altrui? sì che altri pensi che ben più alto tende l’arco della tua vita. – E se pur pensi, ben miserevole cosa sei, che volgi le spalle a ogni forma di vita più forte, per illanguidirti nelle piccole gioie della tua solitudine: non l’amore, non la lotta, non la gloria: hai distrutto in te ogni umanità» (Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 664). Motivo ripreso nella quarta delle sette poesie che compongono il canzoniere A Senia, risalente al 1910: «Non ho temuto il vento avverso e l’onda / canuta, né la mensa famigliare / e l’usato giaciglio / ho rimpianto o il commercio delle care / e dolci cose» (Carlo Michelstaedter, Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 89). Troppo forte l’imperativo morale del goriziano, perché potesse abbracciare la quotidiana e familiare poetica crepuscolare delle «care / e dolci cose». Per un approfondimento su Michelstaedter e i crepuscolari rimando a Piero Pieri, La scienza del tragico, op. cit., pp. 47-50.

[20] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 27.

[21] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 100-101.

[22] Ivi, p. 101.

[23] Ivi.

[24] Ivi, p. 103.

[25] Ivi, p. 105.

[26] Ivi, p. 35.

[27] Ivi, pp. 108-109.

[28] «L’Esempio storico è una vera e propria operetta morale all’interno de La persuasione e la rettorica in cui si alternano parti diegetiche e parti dialogiche». Fabiola Pagnanelli, Il sorriso tragico di Carlo Michelstaedter, in AA.VV., «Quel libro senza eguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, op. cit., p. 64.

[29] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 109.

[30] Ivi, p. 110.

[31] Ivi, p. 111.

[32] Ivi, p. 113.

[33] Ivi, pp. 114-115.

[34] Ivi, pp. 116-117.

[35] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 15-16.

[36] Così Michelstaedter definisce l’Esempio storico nelle Appendici critiche.

[37] Massimo Cacciari, La lotta “su” Platone. Michelstaedter e Nietzsche, in AA.VV., Eredità di Carlo Michelstaedter, op. cit., p. 95.

[38] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 135-136.

[39] Ivi, p. 140.

[40] Definito dalla Taviani «l’equivalente del grande uomo d’affari denigrato da Svevo». Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 60.

[41] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 138.

[42] Ivi, p. 139.

[43] Ivi, p. 151.

[44] Ivi, p. 160.

[45] «È facile capire come il grido “verità! verità!” sia passato presto a significare il senso della ricerca stessa di Carlo Michelstaedter ed il suo bisogno di autentico e di assoluto: lo stesso senso, e lo stesso bisogno, che sorreggono e giustificano da parte sua in quegli stessi mesi la scoperta dei Vangeli: “Leggo fra altro il Vangelo, e ci trovo con gioia la grandezza e la profondità che aspettavo – tanto superiore alle filosofie e alla scienza moderne”.
In questa ricerca di un pensiero che travalichi i confini del mero argomentare razionale, Carlo risale all’indietro, fin su alla Bibbia e in particolare all’Ecclesiaste, – libro decisivo per capire il suo particolarissimo “timbro”, – o si sposta verso altre culture ed orizzonti spirituali: la sapienza indiana e Buddha rientrano in questo suo percorso, che si direbbe circolare. E, naturalmente, accanto a Matteo, Isaia, Buddha, Carlo mette sovente il Giovanni dell’Apocalisse e del Vangelo». Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 273.

[46] Vangelo secondo Giovanni, in La sacra Bibbia, edizione ufficiale della C.E.I., Cooperativa Promozione Culturale S.r.l., Roma 1999, p. 1058.

[47] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 56.

[48] Ivi.

[49] Ivi, pp. 58-59.

[50] Di cui la poesia di Michelstaedter Alba. Il canto del gallo, datata 1° giugno 1905, potrebbe essere una parodia.

[51] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., pp. 164-165.

[52] Ivi, pp. 166-167.

[53] Ivi, pp. 167-169.

[54] Ivi, pp. 168-169.

[55] Giuseppe Antonio Camerino, La “rettorica” di Michelstaedter e la “Sprachkritik” viennese, in Giuseppe Antonio Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper, op. cit., p. 14.

[56] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 170.

[57] Ivi, pp. 170-171.

[58] Ivi, pp. 173-174.

[59] Ivi, p. 174.

[60] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 295.

[61] «IV. Modo imperativo (che non è modo)
Non è realtà intesa, ma vita; è l’intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge un’attualità in ogni modo finita e sufficiente: è reale tanto quanto è reale il Soggetto, perché appunto come questo non è finita nel presente, ma è attuale come volontà d’una cosa. È il soggetto che qui invade con la propria vita il regno delle proprie parole: non fa parole, ma vive.
Evviva l’imperativo!».
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., pp. 141-142.

[62] Michelstaedter distingue tra due Platone, un primo Platone socratico – anche se, come ricordato da Muzzioli, «le parti buone di Platone […] sono da attribuire non a lui, ma a Socrate in persona» (Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., p. 15) – e un ultimo Platone aristotelico, i cui dialoghi, scrive il goriziano in nota all’Esempio storico, «sembrano un preludio alle categorie e alla metafisica d’Aristotele» (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op cit., p. 117).

[63] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 144.

[64] Ivi, p. 155.

[65] Ivi, p. 165.

[66] Ivi, p. 166.

[67] Ivi, p. 176.

[68] Ivi, p. 197.

[69] Ivi, p. 207.

[70] Ivi, p. 205.

[71] Ivi, p. 211.

[72] Ivi, p. 215.

[73] Ivi, p. 216.

[74] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 35.

[75] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 220.

[76] Ivi, pp. 221-222.

[77] Ivi, p. 227.

[78] Ivi, p. 228.

[79] Ivi, p. 246.

[80] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 650-654. Corsivo mio.

[81] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 247.

[82] E, seppur inconsciamente, come ogni Classico, a tutti coloro i quali sono giunti e giungeranno dopo di lui.

[83] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., p. 40.

[84] Sergio Campailla, Della salute ovvero della malattia, in Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 16.

[85] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 27.

[86] Sergio Campailla, Della salute ovvero della malattia, in Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 12.

[87] Giovanna Taviani, Michelstaedter, op. cit., pp. 83-84.

[88] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 166.

[89] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 46-48.

[90] Nella sua riflessione sul linguaggio, Michelstaedter dedica una particolare attenzione alle particelle avversative. Tra gli appunti se ne trova uno intitolato proprio Delle particelle avversative, risalente al 1910, in cui il goriziano affronta approfonditamente l’argomento:
«Quasi tutte le congiunzioni avversative in qualsiasi lingua sono divenute tali nell’uso generale, in quanto pel loro senso originale introducendo un pensiero nuovo e affermandolo “tale” con maggiore o minore importanza, si dovettero riferire con senso negativo a una parte più o meno essenziale del pensiero precedente.
A proposito della derivazione del magis e del suo senso in origine affermativo, considera il Tommaseo come “lo spirito umano non sappia negare una cosa senza nel tempo stesso affermarne un’altra”.
Certo la negazione è sempre negazione fatta da “qualcuno”, il quale in ciò che nega afferma la sua ragione per cui nega. Ma è questa l’affermazione “implicita” in ogni discorso come in ogni atto, che non altro essendo che manifestazione d’una volontà vitale, in quanto si compie afferma questa volontà.
Per ciò appunto che l’uomo sente d’affermare se stesso quando nega, egli non può sentire la mancanza di questa affermazione onde doverla “esplicitamente” enunciare.
Io non conosco infatti parola con senso negativo che l’uso abbia spinto a introdurre pensieri affermativi.
Ora poiché il nostro è il caso di questi passaggi “espliciti” di senso delle parole, non dell’”implicito” valore che esse hanno per l’individuo che le enuncia – l’osservazione del Tommaseo non conviene al senso del “ma” più di quanto convenga al senso d’ogni altra parola dei suoi sei volumi del dizionario della lingua italiana – che ognuna in quanto detta da una persona è un’implicita affermazione d’individualità – o dice il contrario di quanto il nostro caso palesemente dimostra.
Come ogni esistenza individuale significa negazione del resto, così ogni pensiero dell’individuo non è che in quanto nega i pensieri altrui. O meglio li nega in quanto appartenenti ad altri e li afferma come propri. Già l’uomo come mangiando uccide per sé la vita al frutto del campo, così quando pensando si fa centro della realtà la quale non è che un groviglio di “centri”, uccide per sé la vita degli altri centri (in quanto centri).
Ma l’uomo come non s’accontenta di mangiare quando che sia il frutto del campo, e afferma la propria individualità assicurandosene il possesso; così non s’accontenta di pensare, ma enuncia il pensiero e non come “un” pensiero, ma il “proprio pensiero”. E se nei grandi uomini “è il pensiero stesso che si afferma” prendendo “forma”, ed essi che sono tutti nel loro pensiero s’affermano nella sua affermazione; gli uomini comuni che parlano “per affermare la propria individualità”, hanno nel discorso più che l’interesse del pensiero quello di affermare la “proprietà” del pensiero. E come per affermare come propria una cosa bisogna opporsi alla pretesa degli altri, così l’uomo per affermare come “suo” un pensiero non ha altro mezzo che quello d’opporlo al pensiero degli altri. Il mezzo per significare la “proprietà” materiale sono le difese e le armi che violentando altrui lo impediscono dall’usarne per sé. E il mezzo per affermare la proprietà intellettuale è la negazione dell’intellettuale altrui.
Ogni “protesta di” qualche cosa è una “protesta contro” qualche cosa.
Ed è così che le più usuali congiunzioni introduttive del pensiero hanno dovuto prender le armi contro i pensieri altrui e sono divenute “avversative”». Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 708-710.

[91] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 55-57.

[92] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, op. cit., pp. 46-48.

[93] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., pp. 62-63.

[94] Carlo Michelstaedter, Opere, op. cit., pp. 650-654.

[95] Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, op. cit., p. 273.

[96] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, op. cit., p. 64.

[97] Ivi, p. 80.

[98] Ivi, p. 86.

[99] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 88.

Il piano dell’opera

Introduzione

Prima parte. Il linguaggio
Capitolo primo. La critica del linguaggio
Capitolo secondo. La risemantizzazione delle parole

Seconda parte. La scrittura
Capitolo primo. La commistione di generi, stili e toni
Capitolo secondo. Il plurilinguismo
Capitolo terzo. Il citazionismo
Capitolo quarto. Il riso
Appendice

Terza parte. L’insufficienza della parola
Capitolo primo. Parola scritta e parola parlata. Socrate e Cristo
Capitolo secondo. Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj
Capitolo terzo. Rico e Nino. Il fallimento

Conclusione

Bibliografia

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