Scigaliovismo

Nei Demòni tre memorabili personaggi costituiscono una sorta di triade dell’inquietudine: Stavrògin, che «è Tutto», come scrive in un appunto lo stesso Dostoevskij, Kirillov, il nichilista perfetto, l’Uomo-Dio, e infine Šigalëv, il più evoluto dei membri che compongono la cinquina terroristica guidata da Pëtr Stepànovič Verchovenskij. Dei primi due ci siamo già occupati [1], ora concentreremo le nostre attenzioni sul terzo. Ecco come ce lo descrive il narratore-cronista dei Demòni:

«Questo Šigalëv doveva trovarsi ormai da un paio di mesi nella nostra città; non so da dove fosse venuto; di lui avevo sentito soltanto che aveva pubblicato un articolo su una rivista progressista di Pietroburgo. Virginskij me l’aveva presentato per caso, per la strada. In vita mia non avevo mai visto in faccia un uomo così fosco, così cupo, così tetro. Sembrava che aspettasse la distruzione del mondo, e non in un’epoca indeterminata, secondo profezie che potevano anche non avverarsi, ma con assoluta sicurezza, per esempio, per due giorni dopo, alle dieci e venticinque esatte del mattino. Del resto, quando eravamo stati presentati, non ci eravamo scambiati nemmeno una parola, limitandosi a stringerci la mano con l’aria di due congiurati. Soprattutto mi avevano colpito le sue orecchie di una grandezza innaturale, lunghe, larghe e grasse, proiettate all’infuori in modo strano. I suoi movimenti erano goffi e lenti. Liputin sognava che un giorno o l’altro si sarebbe realizzato nella nostra provincia il falansterio: Šigalëv sapeva certamente il giorno e l’ora esatta in cui sarebbe accaduto. Mi aveva fatto un’impressione lugubre […]» [2].

Ad una fisionomia così nera ed inquietante corrisponde una mente altrettanto nera ed inquietante (nei personaggi di Dostoevskij c’è sempre una perfetta corrispondenza psico-fisica), capace di concepire ed elaborare una teoria politica che rappresenta l’esito più estremo, radicale del socialismo. Molto brevemente Šigalëv, questo studioso «della struttura sociale della futura società», come dichiara egli stesso, partendo dall’idea della libertà illimitata approda al dispotismo illimitato. È attraverso l’eliminazione totale dell’educazione, dell’istruzione, e attraverso la riduzione in schiavitù dell’intera società che lo scigaliovismo intende fondare il «paradiso». Si tratta dell’ennesima dimostrazione delle qualità profetiche di Dostoevskij, come pochi, pochissimi altri scrittori nella storia della letteratura, capace di precorrere i tempi. Sì, nei libri di Dostoevskij c’è già tutto.

Ma leggiamo ora quei passi dei Demòni in cui viene enunciato e descritto lo scigaliovismo, attraverso le parole dello stesso Šigalëv, e attraverso le parole di un suo fervente seguace, il saltimbanco del male Pëtr Stepànovič Verchovenskij.

«Avendo consacrato le mie energie allo studio della struttura sociale della futura società, che succederà alla nostra, sono giunto alla conclusione che tutti gli ideatori di sistemi sociali, dai tempi più antichi fino ad oggi, anno 187…, altro non sono stati che sognatori, favolisti, gente sciocca, in contraddizione con se stessi, che non capivano assolutamente nulla di scienze naturali e di quello strano animale, che si chiama uomo. Platone, Rousseau, Fourier sono colonne d’alluminio, buone al massimo per i passeri, non per la società umana. Ma dato che la forma sociale dell’avvenire è necessario ci sia presente proprio ora, mentre tutti noi finalmente ci prepariamo a passare all’azione, per non por più tempo in mezzo, vorrei proporvi il mio sistema di ordinamento del mondo. Eccolo!», e batté il pugno sul quaderno. «Volevo riassumere ai presenti il mio libro nella forma più concisa possibile; ma mi accorgo che occorrerebbe aggiungere una gran quantità di spiegazioni orali, sicché l’intero riassunto dovrebbe occupare almeno dieci serate, una per ogni capitolo del mio libro». (Si sentì una risata.) «Inoltre, avverto fin d’ora che il mio sistema non è concluso.» (Un’altra risata.) «Io mi sono perso nelle mie stesse argomentazioni, e le mie conclusioni si trovano in diretta contraddizione con l’idea iniziale, dalla quale sono partito. Partendo dal principio della libertà illimitata ho dovuto concludere con il dispotismo illimitato. Aggiungo però che, oltre alla soluzione da me prospettata per la questione sociale, non può essercene nessun’altra.»
Le risate diventavano sempre più forti, ma ridevano soprattutto i giovani e gli ospiti, per così dire, poco iniziati. Sui volti della padrona di casa, di Liputin e dell’insegnante zoppo apparve un’espressione di un certo dispetto.
«Ma se voi stesso non avete saputo organizzare il vostro sistema, e siete ridotto alla disperazione, cosa possiamo fare noi?», osservò prudentemente un ufficiale.
«Avete ragione, egregio signor ufficiale», Šigalëv si voltò bruscamente verso di lui, «tanto più che avete usato la parola “disperazione”. Sì, mi sono ridotto alla disperazione; e nondimeno tutto quello che è esposto nel mio libro è insostituibile, non c’è altra via d’uscita; nessuno potrà ideare un’altra soluzione. Perciò mi affretto, senza perder tempo, a invitare tutta la comunità presente ad esprimere il suo parere, durante la lettura del mio libro, articolata in dieci serate. E se i membri di questa comunità non vorranno ascoltarmi, faremo bene a dividerci subito, al principio: gli uomini torneranno al loro impiego statale, e le donne alla loro cucina, giacché rifiutando il mio libro, essi non troveranno nessun’altra soluzione. Nessuna! Se lasceranno cadere l’occasione, danneggeranno se stessi, perché inevitabilmente in seguito torneranno a questo punto.»
Ci fu una certa agitazione, si sentirono delle voci: «Ma cos’è, un pazzo?»
«L’essenziale ora è la disperazione di Šigalëv», concluse Ljamšin, «e la questione più urgente è questa: Šigalëvha motivo di essere disperato o no?»
«Il fatto che Šigalëv sia vicino alla disperazione è un problema personale», sentenziò il ginnasiale.
«Propongo di mettere ai voti la questione, per sapere quanto la disperazione di Šigalëv abbia attinenza con la causa comune, e insieme, se valga la pena di ascoltarlo o no», concluse allegramente un ufficiale.
«No, signori miei, la questione è un’altra», intervenne finalmente lo zoppo. Parlava con una specie di strano sorriso beffardo, cosicché era difficile capire se dicesse sul serio o se scherzasse. «La questione è un’altra. Il signor Šigalëv è troppo seriamente impegnato nel suo compito, per di più è troppo modesto. Io conosco il suo libro. Egli propone, come soluzione finale del problema, la divisione dell’umanità in due parti diseguali. Un decimo riceve la libertà personale e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi devono perdere la loro personalità e trasformarsi in una sorta di gregge e in completa obbedienza, attraverso una serie di rigenerazioni, raggiungere l’innocenza primigenia, una specie di paradiso primordiale, anche se, d’altronde, dovranno lavorare. Le misure proposte dall’autore per giungere a togliere ai nove decimi dell’umanità la volontà e tramutarli in gregge, per mezzo della rieducazione di intere generazioni, sono oltremodo ammirevoli, fondate su dati naturali, estremamente logiche. Si può non essere d’accordo con talune deduzioni, ma è ben difficile porre in dubbio l’intelligenza e le cognizioni dell’autore. Peccato che la proposta della lettura in dieci serate sia assolutamente incompatibile con le circostanze, diversamente avremmo potuto ascoltare molte cose curiose.»
«Possibile che parliate sul serio?», disse madame Virginskaja allo zoppo, un po’ inquieta. «E quest’uomo, non sapendo dove ficcare gli uomini, osa proporre la trasformazione di nove decimi dell’umanità in schiavi? Da un pezzo lo sospettavo.»
«Parlate di vostro fratello, vero?», chiese lo zoppo.
«Di che parentela state parlando? Mi prendete in giro?»
«Per di più lavorare per i membri di un’aristocrazia e prestare loro obbedienza come a degli dei, è un’infamia!», osservò rabbiosamente la studentessa.
«Io non propongo l’infamia, ma il paradiso, il paradiso terrestre, e sulla terra non può essercene un altro», concluse con autorità Šigalëv.
«Invece del paradiso», si mise a gridare Ljamšin, «io prenderei questi nove decimi d’umanità, che non si sa dove ficcare, e li farei saltare in aria, e lascerei soltanto il gruppo delle persone istruite che comincerebbero a vivere secondo la scienza.»
«Discorsi da pagliaccio!», la studentessa prese fuoco.
«È un pagliaccio, ma è utile», le sussurrò madame Virginskaja.
«Forse sarebbe davvero la migliore soluzione del problema!», Šigalëv, tutto infervorato, si rivolse a Ljamšin. «Voi certamente non vi rendete conto di quale profonda idea siate riuscito ad esprimere, mio gaio signore. Ma dato che la vostra proposta è pressoché inattuabile, bisogna limitarsi al paradiso terrestre, come è stato definito.» [3]

***

«Prendetevi Šigalëv, e lasciate in pace me…»
«Šigalëv è un uomo geniale! Sapete, è un genio, come Fourier; ma più audace di Fourier, più forte di Fourier; me ne occuperò senz’altro. Ha inventato l'”uguaglianza”!»
«Deve aver la febbre. Sta delirando. Dev’essergli successo qualcosa di molto strano», pensò Stavrògin guardandolo ancora una volta. Camminavano tutti e due, senza fermarsi.
«C’è del buono in quel suo quaderno», continuava Verchovenskij. «C’è lo spionaggio. Ogni membro della Società cura il comportamento dell’altro ed è tenuto a denunciare. Ognuno appartiene a tutti, e tutti appartengono a ciascuno. Tutti sono schiavi, e nella schiavitù tutti sono uguali. Nei casi estremi si arriva alla calunnia e al delitto, ma l’essenziale è l’uguaglianza. Per prima cosa si abbassa il livello dell’educazione, delle scienze e dei talenti. Si può raggiungere un alto livello scientifico e artistico solo con capacità superiori, e non ci devono essere capacità superiori! Le capacità superiori hanno sempre conquistato il potere e sono diventati despoti. Le capacità superiori non possono non essere despoti e sempre hanno fatto più male che bene; perciò vengono espulse o castigate. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi. Shakespeare viene lapidato, questo è lo scigaliovismo! Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c’è ancora stata né libertà, né uguaglianza, ma nel gregge deve esserci uguaglianza, questo è lo scigaliovismo! Ah, ah, ah, vi sembra strano? Io sono per lo scigaliovismo!»
Stavrògin cercava di affrettare il passo e di arrivare più in fretta a casa. «Quest’uomo deve essere ubriaco, ma come ha fatto a ubriacarsi», pensava, «possibile che sia stato il cognac?»
«Sentite, Stavrògin: livellare le montagne è una buona idea, non è ridicolo. Io sono per lo scigaliovismo! Niente educazione, basta scienza! E senza scienza il materiale basta per altri mille anni, ma bisogna adattarsi alla disciplina. Una cosa sola manca al mondo: la disciplina. La sete dell’istruzione è già una sete aristocratica. Non appena spuntano la famiglia e l’amore, subito compare il desiderio di proprietà. Noi stermineremo il desiderio: daremo via libera all’ubriachezza, al pettegolezzo, alla delazione; avvieremo un’inaudita corruzione; soffocheremo ogni genio nella più tenera età. Tutti ridotti a un comun denominatore, assoluta uguaglianza. “Noi abbiamo imparato un mestiere, siamo uomini onesti, non abbiamo bisogno d’altro”, così hanno risposto non molto tempo fa gli operai inglesi. È necessario solo il necessario, ecco, d’ora in poi, la parola d’ordine del globo terrestre. Ma ci vogliono anche degli spasimi; ce ne occuperemo noi, governanti. Perché gli schiavi devono avere dei governanti. Piena disciplina, piena assenza di personalità, ma una volta ogni trent’anni Šigalëv ammette degli spasimi; tutti, d’un tratto, cominceranno a divorarsi l’un l’altro, fino a un determinato limite, unicamente per allontanare la noia. Giacché la noia è un sentimento aristocratico; nello scigaliovismo non ci saranno desideri. Il desiderio e la sofferenza saranno per noi, per gli schiavi ci sarà lo scigaliovismo.»
«E così voi vi escludete?», scappò detto di nuovo a Stavrògin.
«Ed escludo anche voi. Sapete, ho pensato di consegnare il mondo al papa. Che venga fuori a piedi, scalzo, e si mostri alla plebe: “Ecco, gente, a questo punto mi hanno ridotto!”, e tutti lo seguiranno a frotte, anche gli eserciti. Il papa in alto, noi intorno a lui, e sotto di noi lo scigaliovismo. Occorre solo che l’Internationale si accordi con il papa; e così sarà. Il vecchiaccio poi dirà subito di sì. Non ha altra scelta, ve lo dico io, ah, ah, ah, vi sembra stupido? Dite un po’: vi sembra stupido?»
«Basta», mormorò Stavrògin con stizza [4].

Nei libri di Dostoevskij niente è scontato. Da un uomo come Šigalëv ci aspetteremmo una partecipazione entusiastica all’omicidio di Šatov, e invece no, egli se ne va.

«Sin da ieri sera ho riflettuto su quest’impresa», attaccò, sicuro e metodico, come sempre (credo che, se anche gli si fosse spalancata la terra sotto i piedi, non per questo avrebbe forzato il tono, o avrebbe cambiato di uno iota la metodicità del suo discorso), «e dopo aver riflettuto, ho concluso che questo progettato assassinio equivale non soltanto a una perdita di tempo prezioso, ben altrimenti utilizzabile in modo più autentico e concreto, ma costituisce anche di per sé un esempio di quella perniciosa tendenza a deviare dalla strada maestra, tendenza che ha sempre nuociuto grandemente alla causa e ne ha ritardato il successo di decine d’anni, sottoposta com’è all’influenza di gente sconsiderata, principalmente di politici, in luogo di socialisti puri. Io sono venuto qui al solo scopo di protestare contro l’iniziativa intrapresa, ad edificazione generale, e, personalmente, di ritirarmi dall’attuale momento, che voi non so per quale motivo chiamate momento del pericolo, del vostro pericolo. Io mi allontano non per paura di questo pericolo né per sentimenti delicati nei confronti di Šatov, che non ho affatto intenzione di baciare, ma unicamente perché tutta questa impresa, dal principio alla fine, contraddice alla lettera il mio programma. Quanto a denunce e vendite al governo, per quel che mi riguarda potete stare assolutamente tranquillo: non ci sarà nessuna denuncia.»
Si voltò e se ne andò.
«Accidenti, li incontrerà prima di noi e avvertirà Šatov!», gridò Pëtr Stepànovič e afferrà la rivoltella. Si sentì lo scatto del grilletto che si alzava.
«Potete esser sicuro», Šigalëv si voltò ancora una volta, «che, se incontrerò Šatov, può darsi che lo saluti, ma non l’avvertirò di certo.»
«Questo vostro atteggiamento potrà costarvi caro, lo sapete, signor Fourier?»
«Vi prego di notare che io non sono Fourier. Confondermi con quel dolce, astratto chiacchierone, dimostra soltanto da parte vostra una totale ignoranza del mio manoscritto, anche ammesso che vi sia mai passato per le mani. Quanto alla vostra vendetta, vi assicuro che avete alzato inutilmente il grilletto; al momento attuale non vi conviene affatto. E se anche le vostre minacce sono per domani o dopodomani, sparandomi, non guadagnerete niente lo stesso, a parte i fastidi personali: mi ucciderete, ma prima o poi dovrete per forza accettare il mio sistema. Addio.» [5]

Il passo indietro di Šigalëv non è certo dovuto ad un improvviso scrupolo di coscienza, no, e neppure alla paura. Egli è talmente pervaso dalla sua idea da non ammettere inutili, superflue deviazioni da essa. Nei Demòni è Šigalëv l’unico vero rivoluzionario.

NOTE

[1] Negli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte, Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.

[2] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 183.

[3] Ivi, pp. 451-454.

[4] Ivi, pp. 466-467.

[5] Ivi, pp. 656-657.

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