Émile Friant, Espiazione, 1908

Il principe Myškin e la pena di morte

Ce ne accorgiamo sin dalle primissime pagine de L’idiota, la pena di morte è tra gli argomenti preferiti del principe Myškin. E nei vari passi del romanzo dedicati a questo delicato tema, riecheggia l’esperienza dello stesso Dostoevskij, condannato a morte e poi graziato, un istante prima dell’esecuzione della pena, quando tutto ormai era pronto ed i fucili spiegati davanti ai prigionieri. In tal senso, non è certo un caso che il grande scrittore russo conceda proprio al principe Myškin, a questa «natura umana pienamente bella» [1], la facoltà di discutere diffusamente, approfonditamente di uno degli episodi più dolorosi e toccanti della sua travagliata esistenza.

Per la prima volta ne L’idiota il principe Myškin affronta l’argomento della pena di morte mentre, durante la sua prima visita in casa Epančin, in attesa di essere ricevuto dal generale, si intrattiene con il cameriere Alekses. Si tratta di una sequenza particolarmente significativa, che costituisce un esempio luminoso di quella «atmosfera carnevalizzata» che il grande critico russo Michail Bachtin indica come una delle caratteristiche principali, peculiari dei romanzi dostoevskiani, «intendendo con ciò la casualità degli ambienti e dei personaggi, nonché l’indeterminatezza sociale dei partecipanti al dialogo. Tutto si svolge come nel carnevale, dove ognuno abbandona o nasconde sotto la maschera il proprio ruolo sociale, lasciando piena libertà di espressione alla propria genuina natura» [2].

In questa scena emerge inoltre con evidenza quell’elemento che costituisce, almeno in parte – come accennato in un precedente articolo dedicato all’Idiota, facendo riferimento ai Pensieri sulla morte e sull’immortalità di Dostoevskij [3] -, la bellezza morale, caratteriale del principe Myškin: donare il proprio io interamente, senza riserve né distinzioni.

«Sì… non so bene… E laggiù, all’estero, c’è forse più giustizia che qui?»
«Non saprei. Della nostra giustizia non ho sentito che lodi. Noi, per esempio, non abbiamo la pena di morte».
«All’estero sì?»
«Sì, in Francia, a Lione, ho assistito a un’esecuzione capitale. Ci andai con Schneider».
«Impiccano?»
«No, tagliano la testa».
«E il condannato grida?»
«Eh no, non fa in tempo, è un attimo. Lo mettono al suo posto, sul ceppo, e dall’alto gli arriva sul collo una lama pesante. Si chiama ghigliottina. Cade con violenza e tronca la testa in un batter d’occhio. I preparativi, quelli sì che sono penosi. Quando si legge al condannato la sentenza, quando poi lo vestono, gli radono i capelli, lo legano, lo portano sul patibolo… allora, sebbene molti lo disapprovino, per vedere quello che succede si raduna una gran folla, vengono perfino le donne».
«Non è uno spettacolo per loro».
«Si capisce, una tortura infernale. Il condannato, quella volta a Lione, era un uomo intelligente, robusto, coraggioso, di mezza età. Si chiamava Legros. Ebbene, lo credereste? Salito sul patibolo si fece bianco come la carta, piangeva. Un orrore, una cosa indescrivibile! E si può forse piangere di spavento? Un uomo, vi dico, non un ragazzo: un uomo di quarantacinque anni. Che prova l’anima in quel momento? Da quali convulsioni è dilaniata? Perché, vedete, è proprio l’anima che si manda a morte. Non uccidere, è detto nei comandamenti. E perché, dunque, per punire un uomo di avere ucciso, lo uccidono? No, no, è un’infamia. È passato già un mese da quando vi ho assistito e ho quella scena sempre davanti agli occhi e, per almeno cinque volte, quell’uomo me lo sono persino sognato».
Il principe si scaldava e, sebbene non alzasse la voce, vampate di calore gli arrossavano le guance. Il cameriere, non meno impressionabile del principe, ascoltava intento.
«Di buono», notò, «è che, con questo sistema, non si soffre a lungo quando la testa viene tagliata».
«Lo dicono tutti. E la ghigliottina, d’altra parte, è stata inventata proprio per questo. A me, però, durante l’esecuzione venne un sospetto: e se fosse proprio questo il colmo della sofferenza? Potrà sembrarvi strano, vi farà ridere, eppure… prendiamo, per esempio, la tortura: strazio, piaghe, scricchiolio di ossa, dolore materiale insomma, un dolore che distrae la vittima dalle sofferenze morali fino all’arrivo della morte. Ma il dolore principale, il più forte, non è quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. Tu metti la testa sotto la mannaia, senti strisciare il ferro, e quel quarto di secondo è più atroce di qualunque agonia. Questa non è una mia fantasia; ce ne sono moltissimi che la pensano come me. E ve ne dico anche un’altra. Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e spera sempre, fino all’ultimo, di potersi salvare. Ci sono stati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, e casi in cui l’assalito, supplicando, ha ottenuto la grazia dei suoi assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, la speranza che attenua lo spavento della morte, vi viene tolta con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone e accostatevi con la miccia: chi sa! Penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un colpo simile senza impazzire? E allora, a cosa può mai essere utile una pena così mostruosa? C’è solo un uomo che potrebbe chiarire questo punto; un uomo a cui abbiano letto la sentenza di morte e poi detto: “Va’, ti è fatta la grazia!”. Di un simile strazio ha parlato anche Cristo… No, no, la pena di morte è inumana, è selvaggia e non può né deve essere lecito applicarla all’uomo» [4].

Dopo il colloquio con il cameriere di casa Epančin, il principe Myškin affronta il tema della pena di morte anche con la moglie (Elizaveta Prokof’evna) e le figlie del generale (in ordine d’età Aleksandra, Adelaide ed Aglaja). Ed è proprio in questo passo che Dostoevskij rievoca con esattezza, attraverso il principe, la propria atroce esperienza, la condanna a morte e l’improvvisa commutazione della pena ad un passo dall’esecuzione.

«[…] Ma sarà meglio che vi parli di un’altra persona, un tipo che conobbi un annetto fa. Il suo era un caso molto strano: dico strano, perché raro. Era stato condannato, insieme con altri, alla fucilazione. Per non so quale delitto politico, doveva essere giustiziato. Gli fu letta la sentenza di morte. Se non che, venti minuti dopo, arrivò la grazia, cioè la commutazione della pena. Nondimeno, durante quei venti o quindici minuti, egli visse nella ferma convinzione che di lì a poco sarebbe morto. Io lo ascoltavo con vivo interesse quando narrava delle sue impressioni di allora e gli facevo cento e cento domande. Si ricordava di tutto con una chiarezza straordinaria: non avrebbe mai dimenticato, diceva, un solo attimo di quei minuti. A venti passi dal luogo dell’esecuzione, affollato dai soldati e dal popolo, i carnefici avevano piantato tre pali perché i condannati erano parecchi. Portarono i primi tre verso quei pali, li legarono, li vestirono con l’abito di morte, cioè con lunghi camici bianchi, calcarono sui loro occhi dei berretti, sempre bianchi, affinché non vedessero i fucili; poi, di fronte a ciascun palo si schierò un drappello di soldati. Il mio uomo era l’ottavo condannato, e quindi doveva essere legato al palo nella terza serie. Un prete, con in mano il crocefisso, assisteva i condannati. Si arrivò così a cinque minuti prima del momento fatale, non più di cinque. Quei cinque minuti, diceva il mio uomo, gli erano sembrati interminabili, un’enorme ricchezza. Gli pareva di vivere, in quel brevissimo intervallo, tante e tante vite e così lunghe, che non sembrava assurdo pensare all’imminenza della morte. Distribuì il suo tempo in questo modo: due minuti per dire addio ai compagni, altri due per raccogliersi e pensare a sé, un minuto per dare un’occhiata a quello che gli succedeva intorno. Aveva ventisette anni; era sano e robusto. Accomiatandosi da uno dei compagni, si ricordava di aver fatto una domanda insignificante e di averne aspettato con interesse la risposta. Agli addii seguirono i due minuti del raccoglimento. Sapeva già cosa avrebbe pensato: “Adesso sono vivo; ma fra tre minuti, che sarò? qualcuno o qualche cosa, e dove?”. Non lontano sorgeva una chiesa, e la cupola dorata splendeva nel sole. Si era messo a fissare questa cupola: credeva che i raggi che vi si riflettevano fossero la sua nuova natura e che fra tre minuti egli si sarebbe confuso con essi. L’ignoto che lo attendeva era certamente terribile; ma, ad atterrirlo per davvero, era un pensiero assiduo: “E se non morissi? se la vita continuasse?… Che eternità! E tutta, tutta a mia intera disposizione… Oh, se così fosse, io non sprecherei mai più un solo attimo di vita e vivrei ogni minuto con l’intensità di un’esistenza intera!”. Questo pensiero lo invadeva in maniera tanto profonda che, a quel punto, avrebbe voluto essere fucilato all’istante» [5].

Le parole del principe Myškin ricordano quelle scritte da Dostoevskij al fratello Michail dopo la farsa dell’esecuzione, in una lettera tra le più belle all’interno dello sterminato epistolario del grande scrittore russo [6]. Ma non è finita qui. Conversando ancora con le tre fanciulle, il principe suggerisce come soggetto di un quadro (ad Adelaide, la quale si diletta in pittura) proprio il volto di un condannato a morte, «un minuto prima che la mannaia gli piombi sul collo».

«Ecco… Mancava giusto un minuto», incominciò con calore il principe, facendosi trasportare dal ricordo e dimenticando tutto il resto, «un minuto, e poi la morte. In quel punto, per caso, il condannato si girò dalla mia parte; io lo fissai in volto e capii tutto… Impossibile spiegarvi, descrivervi. Quanto mi piacerebbe veder trattato questo soggetto da voi o da altri! Meglio da voi però. Sarebbe un quadro utile, molto utile: lo pensai fin da allora. Bisognerebbe, capite, tradurre sulla tela tutto ciò che è accaduto prima, tutto. Il condannato era in prigione e, contando sulle ordinarie formalità, credeva di avere davanti a sé ancora una settimana di vita. Non so come, il termine si accorciò. Alle cinque del mattino dormiva. Si era alla fine di ottobre: l’aria era fredda e l’atmosfera oscura. Nella cella del condannato arriva il direttore della prigione, seguito da un carceriere: entra in silenzio e scuote il prigioniero toccandogli una spalla. “Che c’è?”, domanda questi scuotendosi dal sonno e alzandosi sul gomito. “Alle dieci, il supplizio”. “No, no, c’è ancora una settimana”, risponde il prigioniero, ancora mezzo assonnato. Poi, svegliatosi completamente, non discusse più, disse solo: “Eppure è penoso, così, all’improvviso…”. E non aprì più bocca. Tutto questo mi fu riferito. Tre o quattro ore passarono nei soliti preparativi: il prete, la colazione… vino, caffè, carne (non vi pare questa una selvaggia ironia?). Dicono che lo fanno per umanità, per amore del prossimo; e il colmo è che lo dicono in buona fede. Segue la toletta. Voi conoscete la toletta del condannato, non è così? E finalmente lo mettono sopra un carretto e lo portano verso il patibolo. Anche lui, credo, deve aver pensato: “Ancora un’eternità da vivere… Tre vie da attraversare… Dopo questa prima, la seconda; dopo la seconda, la terza… A destra c’è un panettiere… Oh, ce ne vorrà ancora di tempo!”. Sulla piazza, sussurri, chiamate, grida, folla, per lo meno diecimila persone, migliaia e migliaia di occhi… Una tortura senza nome, cui si aggiunge il dolore di una strana e improvvisa comparazione: “Ecco, di queste migliaia di uomini nessuno va a morte, e io sì!”. Tutto ciò, badiamo, non è ancora il quadro, ma ne è, diciamo così, la preparazione, il sostrato… Una breve scaletta porta sul palco… Ebbene, una volta arrivato, il condannato scoppiò in lacrime… E dire che era un uomo sano e robusto, e, per giunta, un malfattore. Un prete lo aveva accompagnato fin là e ora gli stava vicino, sussurrando qualche cosa che egli certo non sentiva, o se pur tentava di ascoltare, dopo la terza parola non capiva più niente. Finalmente, cominciava a salire sulla scaletta. Aveva le gambe legate e perciò si muoveva a piccoli passi. Il prete, da uomo intelligente, si limitava, senza più parole, a fargli baciare il crocifisso. Prima di montare sulla scaletta, il disgraziato era pallido, ma, messo piede sul palco, diventò bianco come la carta. Le gambe non lo reggevano più, e una strana nausea gli stringeva la gola… È una sensazione che si prova nello spavento, quando la ragione, sebbene incolume, non ha più dominio. Se, per esempio, si dovesse sapere che la casa, ora, all’istante, senza nessuno scampo, ci cadrà addosso, noi saremmo presi da una voglia improvvisa di metterci a sedere, di chiudere gli occhi e di aspettare: avvenga quel che deve accadere! Il prete, vedendo il condannato ridotto in quello stato, con gesto rapido e silenzioso gli accosò la croce alle labbra tre o quattro volte, una piccola croce latina di argento. A quel tocco, il condannato apriva gli occhi, si rianimava, riusciva a muovere un passo. Baciava la croce avidamente, con fretta, come se volesse fare provvista non so di che, per ogni evenienza: è difficile, però, che in quel momento un qualunque pensiero religioso potesse passargli per il cervello. Anzi, è strano che di rado, in quegli ultimi istanti, il condannato si metta a delirare. Al contrario, la testa lavora terribilmente, violentemente, come una macchina in pieno movimento. Io immagino che, durante quei momenti, un turbine di idee si metta a ribollire nella testa del malcapitato; idee spaiate, insulse, perfino comiche. Per esempio: “Quel signore laggiù ha una verruca in fronte; l’ultimo bottone della casacca del carnefice è arruginito”. E intanto voi sapete tutto, vi ricordate di tutto; c’è un punto che non si può dimenticare, non si può cadere in deliquio, e tutto gravita intorno a quel punto… E tutto questo dura fino all’ultimo quarto di secondo, quando la testa, già posata sul ceppo, attende e sa, e di botto sente fischiare la mannaia… Credo che io, se mi ci trovassi, cercherei di cogliere quel sibilo… Forse dura appena la decima parte di un attimo, ma si sente. E figuratevi, in questi ultimi tempi, alcuni scienziati sostengono che la testa, appena spiccata dal busto, abbia la piena coscienza dell’avvenuta decapitazione… Sarebbe orribile, posto pure che questa coscienza duri soltanto cinque secondi. Ora, date retta: voi dovete disegnare il patibolo in modo che spicchi solamente l’ultimo scalino; il condannato è già sul palco, e ha il volto bianco come la carta; il prete protende la croce e lui, avidamente, gli porge le labbra livide, e sa tutto. Una croce e una testa, ecco il quadro… Il viso del prete, quello del carnefice e dei suoi due aiutanti, alcune teste, alcuni occhi in basso, tutto questo può essere respinto nel terzo piano, in ombra, come un accessorio… Ecco, così io concepisco il vostro quadro» [7].

Ripeto, è significativo che Dostoevskij decida di ripercorrere la sua drammatica esperienza di condannato a morte proprio attraverso il principe Myškin, proprio attraverso questa «natura umana pienamente bella». Nessun altro personaggio dostoevskiano poteva farsi portavoce della sofferenza dello scrittore. E per quanto riguarda l’assoluta opposizione di Dostoevskij contro la pena di morte, beh, si ricordino le parole pronunciate da Tichon nel fatidico colloquio con Stavrògin nei Demòni: «Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato isolato» [8]. Per Dostoevskij rispondere al sangue con il sangue non è cristiano. E per Dostoevskij Cristo è tutto.

NOTE

[1] Così Dostoevskij definisce il principe Myškin nelle due fondamentali lettere all’amico Majkov e alla nipote Sof’ja Ivanova del 31 dicembre 1867 (12 gennaio 1868 secondo il calendario gregoriano) e del 1 (13) gennaio 1868. Si veda l’articolo Dostoevskij spiega Dostoevskij. L’idiota.

[2] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 79.

[3] Nell’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.

[4] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, trad. it. di Federigo Verdinois, in Fëdor Dostoevskij, Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 597-598.

[5] Ivi, pp. 621-622.

[6] È possibile leggere la lettera nell’articolo I Fondamentali: lettere d’autore.

[7] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, op. cit., pp. 624-625.

[8] Fëdor Dostoevskij, I demoni, trad. it. di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 772.

In copertina: Émile Friant, Espiazione, 1908.

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