Scrivere con la consapevolezza di essere uomini, scrivere possedendo la coscienza di poter morire da un istante all’altro, questo è fare Letteratura.
All’interno della grandiosa produzione saggistico-letteraria di Pier Paolo Pasolini, troviamo un breve e prezioso saggio intitolato Marxisants, pubblicato nel 1959 sulla rivista Officina.
Lo scritto ruota attorno all’idea che per partecipare attivamente al rinnovamento sociale, sia necessario essere uomini d’azione, “sovversivi” in grado di demolire con i fatti le convenzioni e gli schemi borghesi. In questo senso, l’intellettuale bolognese si interroga sul ruolo che il letterato deve assumere nella società, affiancando a questa la delicata questione riguardante il Partito comunista.
Marxisants si apre con una constatazione per certi versi sorprendente. Pasolini, consapevole di non poter più agire secondo gli ideali gramsciani (i tempi oramai chiedono altro), ammette di non essere un politico, piuttosto «uno scarso lettore di sociologia», nient’altro che un «osservatore di passaggio e incompetente». Questo in relazione al dibattito divampato attorno al comunismo, ed al bisogno di scoprire nuove vie di contrasto e dissenso nei confronti di quel potere neocapitalista inarrestabile, incessantemente dilagante. Il Partito comunista deve «diventare il “partito dei poveri”: il partito, diciamolo pure, dei sottoproletari».
In un passo fondamentale del saggio, ecco come l’autore di Ragazzi di vita chiarisce tale affermazione:
«Il fatto che il comunismo, condotto a questo da una necessità storica in parte imprevedibile e imprevista, debba modificarsi e diventare tout court “il partito dei poveri” non significa che, nella sede ideologico-letteraria, si debba prevedere una specie di nuovo populismo, di nuova maniera umanitaria. Anzi: questo momento di depressione del comunismo, in quanto necessaria e parziale rinuncia a imperniare la propria azione sulla “aristocrazia” operaia e su una tradizione di intelligenza ideologica e filosofica, coincide con la riscoperta – cosciente ed elaborata – da parte dello scrittore, di una sua condizione “eletta”, di una sua sostanziale “aristocraticità”.
Con implicati i precedenti non rigidamente e ortodossamente marxisti: gli elementi del classicismo e dell’intellettualismo, raziocinante, se non razionale, come momento assoluto della storia di una grande borghesia liberale».
Pasolini inizia a riflettere sulla condizione del letterato nella nuova società, e lo esorta ad essere, più che un professionista della letteratura ed un “eremita” estetico, un uomo attivo, concreto, socialmente decisivo. Nonostante ciò, lo scrittore, e l’intellettuale in generale, non devono dimenticarsi che il loro pubblico è rappresentato dalla borghesia, con la quale avviene un colloquio «angoscioso perché essa non risponde: agisce, rifiuta, impone». La borghesia italiana, «americanisante», «puritana» e «padrona», è divenuta talmente forte da non temere più il marxismo, talmente potente e radicata da riuscire a schiavizzare persino il reale, «facendone un’entità assoluta, non minacciata da contraddizione».
E lo scrittore si trova in balia del dominio borghese. Egli viene eletto professionista, produttore di una merce definita, in un’epoca in cui il mercato domina qualunque aspetto, materiale e spirituale, dell’esistenza umana. In questo modo la letteratura è denudata della sua grandezza, della sua spinta sociale, denigrata e sottomessa al volere di una casta, quella borghese, che pretende dall’autore forme squisite e pregevoli in grado di soddisfare i gusti estetici in voga. In parole povere, lo scrittore viene relegato nell’inutilità, egli serve solamente alla soddisfazione di un desiderio comune sì, ma non sociale. Pasolini sostiene allora la necessità, da parte del letterato, di farsi uomo d’azione capace di diffondere delle verità, ma soprattutto capace di incrinare il sistema borghese. Lo scrittore deve ripetere continuamente alla borghesia e a se stesso quello che è, quello che deve essere:
«[…] che lo scrittore non è uno specialista, un tecnico di stile, non è un deputato al sacerdozio, una guida di comportamento etico come concrezione storica del flusso vitale a un modulo: ma che è qualcosa che è in lui stesso, nell’uomo pratico e producente, il meglio di lui, e quindi, in definitiva, lui, nell’atto di pensare, lui, uomo: ivi compreso il più povero della terra più povera, sul punto di essere eliminato, da lui, dal mondo, di non esistere più».
In Marxisants prende corpo la poetica pasoliniana dell’opera aperta, caratterizzata dal testo asimmetrico, privo di confini, imposto al pubblico non come esperienza stilistica, bensì esistenziale, dunque attiva e sociale.
Questo saggio è l’ennesima prova della grandezza di Pasolini, l’ennesima dimostrazione della sua eccezionale caratura letteraria e culturale, senza eguali nel Novecento italiano. Ancora oggi, nella desolazione di una contemporaneità vacua, egli rappresenta il modello dell’intellettuale ideale, poliedrico e critico, ma soprattutto libero. La definizione di scrittore che fornisce nel testo poi, è semplicemente straordinaria. Qualunque uomo che aspiri a creare, a produrre anche solo una riga letterariamente degna, dovrebbe prima leggerla.
Scrivere con la consapevolezza di essere uomini, scrivere possedendo la coscienza di poter morire da un istante all’altro, questo è fare Letteratura.
Bibliografia
Antonio Tricomi, Pasolini: gesto e maniera, Rubbettino Editore, 2005.
Pier Paolo Pasolini, Marxisants, in «Officina», maggio-giugno 1959, ora in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1999.