Introduzione
Rinchiuso in una «gabbiolina minuscola», malsano microcosmo all’interno dell’altrettanto malsano macrocosmo pietroburghese (siamo in piena estate e a Pietroburgo «anche per la strada par d’essere in una stanza senza finestre»), Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, un ex-studente di ventitré anni, tormentato dalla miseria, dalla fame e in uno stato di solitudine pressoché totale, al limite della selvatichezza, decide di lanciarsi in un’impresa sanguinaria: uccidere una vecchia usuraia e derubarla, per garantirsi le sostanze necessarie all’inizio di una brillante carriera.
Raskòl’nikov sa uccidere – e a colpi di accetta abbatte non solo Alëna Ivanovna, la vecchia usuraia, ma anche la succube e timorata Lizaveta, sua sorella -, ma non sa rubare. È questo il primo indizio del suo fallimento. Dopo una fuga rocambolesca dal luogo del delitto, il giovane precipita presto nel delirio: il castigo è immediato. Gli sembra che in strada tutti guardino solo ed esclusivamente lui, e dopo un momento, un solo effimero momento di gioia, che prova liberandosi della misera refurtiva, nascosta sotto un masso in un cortile, è tormentato da inquietanti allucinazioni. La mente di Raskòl’nikov galoppa a rotta di collo verso la schizofrenia.
I. Uomini ordinari e uomini straordinari ovvero pidocchi e Napoleoni
Che dietro il delitto di Raskòl’nikov, che dietro i colpi di accetta assestati sui crani della vecchia, pidocchiosa usuraia e di sua sorella si celi un’idea, lo intuiamo subito. Ma Dostoevskij ce lo rivela apertamente solo nella terza parte di Delitto e castigo, precisamente nel quinto capitolo. Raskòl’nikov ed il suo amico Razumichin, anch’egli ex-studente, si recano a casa del giudice istruttore Porfirij Petrovič – nel frattempo abbiamo conosciuto vari altri personaggi, su tutti Sònja, giovane prostituta figlia del disgraziato Marmeladov -, e durante la conversazione scopriamo l’esistenza di un articolo scritto dal protagonista e pubblicato su una rivista un paio di mesi prima. È un momento chiave del romanzo, il momento che spiega le vere ragioni, o meglio, le ragioni più profonde del duplice omicidio di cui Raskòl’nikov si è reso protagonista.
Secondo Raskòl’nikov, fondamentalmente, gli uomini sono divisi in ordinari e straordinari. L’uomo straordinario, servendoci delle parole dello stesso protagonista, che puntualizza la propria visione abilmente distorta dal giudice istruttore, già certo della sua colpevolezza, «ha il diritto… non già il diritto ufficiale, ma un diritto suo, d’autorizzare la propria coscienza a scavalcare… alcuni ostacoli, ma unicamente nel caso che l’attuazione della sua idea (salutare talvolta, forse per tutta l’umanità) lo esiga» [1]. Qualche riga più avanti Raskòl’nikov chiarisce ancora meglio il proprio pensiero.
«Insomma io dimostro che tutti gli uomini, non solo i grandi, ma anche quelli che s’elevano appena appena al di sopra del livello comune, quelli che son capaci di dire qualcosa di nuovo, devono assolutamente, a causa della loro natura, essere dei delinquenti, più o meno, d’intende. Altrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata di tutti e a rimanervi, naturalmente, essi non possono acconsentire, sempre a causa della loro natura, e, secondo me, hanno il dovere di non acconsentire. Come vedete, finora nel mio articolo non c’è nulla di nuovo. Queste cose sono state stampate mille volte, ognuno le ha lette mille volte. In quanto poi alla mia divisione in uomini ordinari e straordinari, riconosco che è alquanto arbitraria, ma, vedete, non insisto su cifre determinate. Credo soltanto nella parte essenziale del mio pensiero. Essa afferma che gli uomini, per legge di natura, si dividono, in generale, in sue categorie: la categoria inferiore (quella degli uomini ordinari), che è, per così dire, composta di materiali che servono unicamente a procreare individui simili a loro, e quella degli uomini veri e propri, che hanno il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova. Le suddivisioni, s’intende, sono infinite, ma i tratti caratteristici delle due categorie sono abbastanza marcati: alla prima categoria, cioè a quella dei materiali, appartengono, in via di massima, gli uomini per natura loro conservatori, morigerati, che vivono nell’obbedienza e hanno piacere d’essere obbedienti. E, secondo me, hanno anche il dovere di esserlo, perché vi sono stati destinati, e, quindi, l’obbedienza non è una cosa umiliante per loro. La seconda categoria è composta di uomini che trasgrediscono la legge, di sovvertitori, o di individui inclini a diventar tali, a giudicare dalle loro attitudini. I delitti di questi uomini, s’intende, sono relativi e molto differenti; quasi tutti chiedono, in forme assai diverse, la distruzione del presente in nome d’un avvenire migliore. Ma se bisogna che uno di essi, per attuare la propria idea, passi, magari, oltre un cadavere, oltre il sangue, egli può, a parer mio, nell’animo suo, in coscienza, dare a se stesso l’autorizzazione di passare oltre il sangue – a seconda però dell’idea e della sua misura – notate queste parole. Soltanto in questo senso io parlo nel mio articolo del diritto a delinquere, che hanno taluni individui. (Vi ricorderete che avevamo preso le mosse da una questione giuridica.) Del resto non c’è ragione d’agitarsi tanto: la massa non riconosce loro quasi mai questo diritto, li punisce e li impicca (più o meno) e con ciò adempie in modo assolutamente giusto la sua missione conservatrice, ma poi, nelle generazioni successive, questa stessa massa colloca quelli, che una volta furono puniti, su un piedistallo e s’inchina dinanzi a loro (più o meno). La prima categoria è sempre padrona del presente, la seconda è padrona dell’avvenire. Gli uomini della prima conservano il mondo e lo aumentano numericamente; quelli della seconda muovono il mondo e lo conducono verso la meta. E gli uni e gli altri hanno lo stesso diritto d’esistere, e… vive la guerre éternelle…, fino alla Nuova Gerusalemme, s’intende» [2].
Raskòl’nikov ha versato del sangue, sì, ma in questo stesso sangue, per quanto ordinario, è rimasto impantanato. Ha ucciso, servendosi di un’accetta ha fracassato le teste di due donne, ma di scavalcare il fantomatico ostacolo non è stato capace. E poche pagine dopo il fondamentale colloquio con Porfirij Petrovič è lui stesso a certificare il rovinoso fallimento della sua sanguinaria impresa.
«No, quegli uomini lì non son fatti così; il vero dominatore, al quale tutto è permesso, saccheggia Tolone, massacra Parigi, dimentica un’armata in Egitto, spreca mezzo milione di uomini nella campagna di Mosca, se la cava con un giuoco di parole a Vilna; e a lui, quando muore gli s’innalzano statue e perciò tutto gli è permesso. No, gli uomini di questa fatta, non son di carne, si vede, sono di bronzo».
Un pensiero improvviso, diverso dagli altri, lo fece quasi ridere:
«Napoleone, le piramidi, Waterloo, – e la vedova dell’impiegato del registro, la vecchia sparuta, la sordida strozzina che aveva una cassetta rossa sotto il letto, – non potrebbe mandar giù un paragone simile neppure un Porfìrij Petròvic!… Lo potrebbe mandar giù quella gente?… L’estetica lo impedisce: “Un Napoleone che va a ficcarsi sotto il letto di una vecchierella!”, direbbero. Oibò, che porcheria!…».
A volte gli sembrava quasi di delirare; cadeva in uno stato di esaltazione febbrile.
«La vecchierella è un’inezia!», pensava accalorandosi, interrompendosi continuamente. «La vecchia è soltanto una malattia… io ho voluto scavalcare un ostacolo, il più presto possibile… non ho ucciso una persona, io; io ho ucciso un principio! Il principio, sì, l’ho ucciso, ma l’ostacolo non l’ho scavalcato, sono rimasto da questa parte… Una cosa sola ho saputo fare: uccidere. […] Eh, io non sono altro che un pidocchio estetizzante», aggiunse, scoppiando improvvisamente a ridere come un matto. «Sì, sono difatti un pidocchio», seguitò, aggrappandosi a quell’idea con un piacere maligno, frugandoci dentro, gingillandovisi, divertendosene, «perché, in primo luogo, mi giudico un pidocchio; in secondo luogo, perché durante tutto un mese ho disturbato la Divina Provvidenza, chiamandola a testimone che non mi decidevo a quell’impresa per soddisfare la mia carne e i miei vizi, ma per raggiungere una nobile, grandiosa meta, – ah, ah! In terzo luogo, perché m’ero proposto d’osservare nell’adempimento della mia missione la massima dose di giustizia, il peso, la misura e l’aritmetica: di tutti i pidocchi ho scelto il più inutile, e, dopo che l’ebbi ucciso, mi proposi di prendere esattamente quel tanto che m’occorreva per il primo passo, non più e non meno (e il resto sarebbe toccato a un monastero, secondo il suo desiderio, ah, ah!)… Sono poi definitivamente un pidocchio», aggiunse, digrignando i denti, «perché sono forse ancora più ignobile e più disgustoso del pidocchio che ho ucciso, e, fin da prima presentivo che così avrei parlato a me stesso dopo averlo ucciso!» [3].
II. L’assassino e la prostituta
Da questo momento in poi di Delitto e castigo, per quel che riguarda il tema dominante del romanzo, ovvero la resurrezione di Raskòl’nikov, tutti gli incontri del protagonista con Sònja rappresentano delle tappe di eccezionale importanza.
La prima volta che si reca da lei, Raskòl’nikov si inginocchia al cospetto di Sònja e le bacia il piede. «Non mi sono inchinato davanti a te, bensì davanti a tutta la sofferenza umana», spiega il protagonista, esortando poi Sònja a leggere l’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro, già emblematicamente rievocato da Porfirij Petrovič nella conversazione sopracitata [4].
«Un certo Lazzaro di Betania era infermo…» Le era riuscito finalmente di parlare, ma, a un tratto, nonostante i suoi sforzi, la voce le tremò e si spezzò come una corda troppo tesa. Una stretta al petto le tolse il respiro.
Raskòlnikov dapprima non capiva bene perché Sònja non andasse avanti; poi, a poco a poco, intuì i sentimenti di lei e la sua voce, che diveniva sempre più rude, sempre più stizzosa sembrava chiederle insistentemente di seguitare. Dopo un certo tempo comprese quanto penoso dovesse essere per lei in quel momento l’obbligo di rivelare ed esporre tutto ciò che era veramente suo: sentiva che quei suoi sentimenti costituivano il suo vero segreto, un segreto custodito forse fin dall’adolescenza, dagli anni in cui ella era ancora in famiglia, accanto a quel padre sventurato, a quella matrigna impazzita per i dolori, fra quei bambini affamati, fra gli urli spaventosi e i rimproveri. Ma nello stesso tempo egli sapeva, era sicuro ormai che ella, pur provando un senso d’angoscia e di paura per qualcosa d’indefinito, era tormentata da un potente desiderio di leggere quelle pagine, e specialmente di leggerle a lui, affinché egli le udisse proprio in quel momento, «checché dovesse accadere poi!»… Raskòlnikov lesse questo pensiero negli occhi di Sònja, che era in preda a una commozione esaltata. Ella si fece forza, dominò lo spasimo che le aveva stretto la gola sul principio del versetto e seguitò a leggere l’undicesimo capitolo del Vangelo di San Giovanni. Lesse fino al XIX versetto:
«E molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle del dolore d’aver perduto il loro fratello. Marta adunque, siccome udì che Gesù veniva, gli andò incontro, ma Maria rimase nella casa. E Marta disse a Gesù: Signore! Se tu fossi stato qui, il fratello mio non sarebbe morto. Ma so che anche ora ciò che Tu chiederai a Dio, Dio Te lo darà».
Qui ella si fermò di nuovo: presentiva con un senso di vergogna che la sua voce avrebbe tremato e si sarebbe spezzata come prima…
«Gesù le disse: il tuo fratello risusciterà. Marta Gli disse: io so che egli risusciterà nella risurrezione, nell’ultimo giorno. Gesù le disse: Io sono la risurrezione e la vita; chiunque crede in Me, benché sia morto, vivrà. E chiunque vive e crede in Me, non morrà in eterno. Credi tu questo? Ella Gli disse»: (e, come se il respirare le costasse dolore, Sònja lesse staccando le sillabe a voce alta: sembrava che si confessasse):
«Sì, Signore! Io credo che Tu sei il Cristo, il figlio di Dio, che è venuto in questo mondo».
Ella si fermò un istante, ma dopo avergli gettato un rapido sguardo, ricominciò a leggere. Raskòlnikov ascoltava, immobile, senza voltarsi, coi gomiti poggiati sulla tavola, guardando dall’altra parte. Arrivarono al XXXII versetto:
«Maria adunque, quando fu venuta lì ove era Gesù e L’ebbe veduto, Gli si gettò ai piedi e Gli disse: Signore! Se Tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto. Gesù adunque, quando vide che ella piangeva e i Giudei che erano venuti con lei piangevano, fremé nello spirito e si conturbò anch’Egli. E disse: Ove l’avete voi posto? E Gli dissero: Signore! Vieni e vedi! E Gesù pianse. E i Giudei dissero: Guarda come Egli l’amava. Ma alcuni di essi dissero: Non poteva Costui, che aperse gli occhi al cieco, fare ancora che questo qui non morisse?».
Raskòlnikov si volse verso di lei e la guardò, commosso: «Sì, è proprio così!» Sònja tremava tutta, in preda a una vera febbre. Egli se l’aspettava. Ella s’avvicinava alla narrazione del grandissimo, inconcepibile miracolo, ed era dominata da un senso di sovrumano entusiasmo. La sua voce aveva acquistato una sonorità metallica, una forza generata dalla gioia e dalla solennità del momento. Le righe le si confondevano davanti agli occhi, la vista le si offuscava, ma ella sapeva a mente quel passo. All’ultimo versetto «non poteva Cristo, che aperse gli occhi al cieco…», ella abbassò la voce, accentuò con ardore appassionato il dubbio, il rimprovero e il biasimo degli increduli, ciechi Giudei, che un momento dopo sarebbero caduti a terra, come colpiti dal fulmine, singhiozzando, e avrebbero creduto… «Anche lui, anche lui è accecato e incredulo, anche lui udrà, crederà, sì, sì! Subito, ora…», sognava ella, tremante per la gioiosa attesa.
«Là onde Gesù, fremendo di nuovo in se stesso, giunse al sepolcro. Or quello era una grotta, e vi era una pietra posta di sopra. E Gesù disse: Togliete la pietra. Ma Marta, la sorella del morto, Gli disse: Signore! Egli già puzza; infatti già da quattro giorni è nel sepolcro.»
Ella accentuò fortemente la parola quattro.
«Gesù le disse: non t’ho Io detto che, se tu crederai, vedrai la gloria di Dio? Essi adunque tolsero la pietra dalla grotta ove il morto giaceva. E Gesù alzò gli occhi al cielo e disse: Padre, Ti ringrazio che Tu M’hai esaudito. Or ben sapevo Io che Tu sempre M’esaudisci, ma ho detto ciò per la moltitudine qui presente, affinché credano che Tu M’hai mandato. Detto ciò chiamò con voce forte: Lazzaro! Vieni fuori. E il morto uscì…»
(Aveva letto quest’ultimo tratto a voce alta, ispirata, tremando e rabbrividendo, come se coi suoi occhi l’avesse veduto risorgere.)
«…avendo le mani e i piedi fasciati e la faccia involta in un panno. Gesù disse loro: Scioglietelo e lasciatelo andare.»
«Allora molti dei Giudei ch’erano venuti da Maria, vedute tutte le cose che Gesù aveva fatte, credettero in Lui.»
Non poté andare avanti. Chiuse il libro e s’alzò rapidamente dalla seggiola.
«Continua il racconto della risurrezione di Lazzaro», mormorò con voce rotta, severa, e, voltatasi dall’altra parte, rimase immobile: sembrava che non osasse, che quasi si vergognasse d’alzar gli occhi su di lui. Era ancora scossa da quel tremito febbrile. Il mozzicone di candela, che si spegneva a poco a poco nel candeliere contorto, illuminava debolmente quella misera stanza, nella quale l’assassino e la prostituta, per una strana combinazione, s’erano uniti nella lettura del libro eterno [5].
Prima di intraprendere il faticoso e doloroso viaggio verso la redenzione, verso la propria resurrezione, Raskòl’nikov elegge Sònja sua compagna. Il protagonista sa di non poter più restare solo – la sua solitudine totale, estrema, feroce ha prodotto, o quantomeno ha contribuito a produrre l’idea assurda dell’omicidio di Alëna Ivànovna, come spiega Dostoevskij stesso in una lettera a Katkov del settembre 1865 [6] -, e sceglie di farsi affiancare, o meglio, sostenere da una giovane prostituta che conosce bene, troppo bene l’umana sofferenza. E Sònja si impone (non posso fare a meno di immaginarla come una Madonna di Raffaello), malgrado se stessa, come un personaggio grandioso, sfiorato dalla santità. Nonostante il delirio di onnipotenza che lo ha spinto per un momento al di là del bene e del male – dove invece ha sempre vissuto il mefistofelico Svidrigajlov e dove vivrà l’indimenticabile Stavrògin dei Demòni -, ha saputo scegliere la persona giusta. «Ora ho soltanto te», le dichiara il protagonista. Il prossimo, necessario passo è confessarle la responsabilità del duplice omicidio. E ciò avviene nella quinta parte del romanzo.
Passò un altro minuto, un terribile minuto. Si guardarono scambievolmente.
«Dunque, non puoi indovinare?», chiese egli a un tratto con la sensazione d’un uomo che sta per buttarsi giù da un campanile.
«N-no», mormorò Sònja pianissimo.
«Guardami bene.»
Pronunziate queste parole, provò di nuovo, all’improvviso, una vecchia, nota sensazione che gli agghiacciava l’anima; guardò Sonja e a un tratto gli parve di vedere il volto di lei trasformarsi nel volto di Lizavèta. Gli tornò in mente l’espressione che aveva la fisionomia di Lizavèta mentre egli le si avvicinava con l’avvetta, ed essa indietreggiava, andando verso la parete, con un braccio teso in avanti, con uno spavento davvero infantile dipinto in viso, uno spavento simile a quello dei bambini che, presi dalla paura di qualche cosa, guardano, immobili, inquieti, ciò che li impaurisce, e tendendo la manina, cominciano a piangere. Sònja aveva ora un’espressione, faceva dei gesti che somigliavano molto a quelli di Lizavèta: incapace di difendersi, terrorizzata come lei, lo guardò per un certo tempo, e a un tratto, tendendo in avanti il braccio sinistro, gli appoggiò lievemente le dita sul petto e, alzatasi in piedi, si scostò a poco a poco da lui, senza smettere di fissarlo con gli occhi sbarrati. Il terrore di Sònja si comunicò al giovane, inaspettatamente: anche sul volto di Raskòlnikov si dipinse un’espressione di paura, i suoi occhi non si staccavano dalla fanciulla, sulle sue labbra spuntò un sorriso simile a quello di lei, un sorriso infantile.
«Hai indovinato?», mormorò egli dopo una lunga pausa.
«O Signore!» Un terribile grido le sfuggì dal petto.
Cadde sul letto, esausta, affondando il volto nel guanciale. Ma dopo un attimo si rialzò con un movimento rapido, s’accostò a lui, gli afferrò le mani e, stringendole con le sue dita sottili come in una morsa, lo guardò di nuovo in viso, immobile. Con quest’ultimo, disperato sguardo voleva cogliere, spiare un estremo barlume di speranza, che le era necessario. Ma non c’era più speranza; non rimaneva più alcun dubbio: era proprio così! Anche dopo, quando le tornava alla memoria quel momento, le sembrava di ricordare qualcosa di strano, di miracoloso: perché aveva allora capito di colpo che non c’era più da dubitare? Non poteva certo dire, per esempio di aver presentito qualcosa di quel genere! Eppure, appena egli glielo ebbe detto, le parve a un tratto di aver realmente presentito proprio quella cosa.
«Basta, Sònja, basta! Non mi tormentare!», supplicò egli con voce lamentosa.
Non aveva mai pensato che la sua rivelazione sarebbe stata fatta così, eppure così s’erano svolte le cose.
Sònja balzò in piedi. Sembrava che non avesse coscienza di ciò che faceva. Avanzò fin nel centro della stanza, torcendosi le mani, poi, rapidamente, tornò indietro, gli si sedette accanto. La sua spalla quasi toccava la spalla di lui. A un tratto sussultò, come se una lama l’avesse trafitta, mandò un grido e, senza saper perché, gli si buttò in ginocchio davanti.
«Che avete fatto, che avete fatto a voi stesso!», esclamò con accento disperato.
Alzatasi, gli si gettò al collo, lo strinse fra le braccia fortemente, assai fortemente. Raskòlnikov indietreggiò, guardandola con un sorriso triste:
«Come sei strana, Sònja! M’abbracci, mi baci, dopo che t’ho detto… Non hai coscienza di quel che fai».
«No, no, in questo momento non c’è in tutto il mondo un essere più infelice di te!», esclamò ella, con uno slancio quasi sovrumano, senza aver udito le sue parole. A un tratto scoppiò in un pianto dirotto, come in preda a un attacco d’isterismo.
Un sentimento che egli aveva quasi dimenticato gli sgorgò come un’onda dall’anima e lo intenerì di colpo. Non vi si oppose: due lacrime, comparse nei suoi occhi, rimasero sospese alle ciglia.Allora non m’abbandonerai, Sònja?», diss’egli, guardandola con degli occhi nei quali spuntava un raggio di speranza.
«No, no, mai, starò sempre con te, dovunque!», esclamò Sònja; «ti seguirò, ti seguirò dappertutto! O Signore!… Oh, me sventurata!… Perché, perché non t’ho conosciuto prima! Perché non sei venuto prima? O Signore!» [7]
III. La resurrezione di Lazzaro
Raskòl’nikov e Sonja decidono di partire insieme, ma la partenza non è affatto immediata. Il protagonista indugia, incalzato da Porfirij Petrovič, sempre più certo della sua colpevolezza, oscillante tra Sònja, la quale rappresenta «una condanna inesorabile, una decisione definitiva» di cui il giovane ha paura, e il mefistofelico Svidrigajlov, che, origliando, è venuto a conoscenza del suo terribile segreto.
Ma alla fine Raskòl’nikov cede. Come gli ha suggerito Sònja si inginocchia a piazza Sennaja per poi consegnarsi alle autorità. Il giovane ex-studente è condannato a otto anni di lavori forzati.
In Siberia, nell’ampia e fresca Siberia, opposta alla malsana, afosa, puzzolente, claustrofobica Pietroburgo, Raskòl’nikov, all’inizio della prigionia, vive con gli occhi bassi, poi, a poco a poco, inizia ad alzarli e a guardarsi attorno, a osservare. Resuscita all’improvviso, in un giorno in principio come tanti altri, grazie all’amore per Sònja, di cui si rende finalmente conto. Sono le – meravigliose – pagine conclusive di Delitto e castigo.
La giornata s’annunziava serena e tiepida. Alle sei del mattino egli s’avviò verso la riva del fiume, dove in una baracca era stato impiantato un forno per la lavorazione dell’alabastro. Furono mandati lì solamente tre operai. Uno di essi, accompagnato dal guardaciurma, andò in fortezza a cercare uno strumento; l’altro cominciò a preparar la legna per scaldare il forno. Raskòlnikov uscì dalla baracca, e, sedutosi su alcune travi accatastate, si mise a contemplare il fiume largo e deserto. Da quell’altra sponda si vedeva un gran tratto del paesaggio, e di lontano, dalla riva opposta, venivano alcune note di una canzone. Là, nell’immensa steppa inondata di sole, spiccavano come piccoli punti neri le tende dei nomadi. Là c’era la libertà, là vivevano altri uomini, molto diversi da quelli ch’egli vedeva ora di solito, là il tempo sembrava essersi fermato fin dall’epoca di Abramo e delle sue gregge. Raskòlnikov, seduto sulle trai, teneva gli occhi fissi su quella lontana visione. Non pensava a nulla, ma nell’animo suo vibrava un’angoscia indefinita, tormentosa.
A un tratto sentì la presenza di Sònja. Ella gli s’era avvicinata, silenziosamente, e s’era seduta affianco a lui. L’aria mattutina non s’era ancora intiepidita. Sònja aveva indosso la sua misera mantiglia e lo scialletto verde. Sul suo viso si vedevano ancora le tracce della malattia: s’era fatto più magro, più pallido, più affilato. Sorrise a Raskòlnikov con amabile letizia, ma come al solito gli tese la mano timidamente.
Sempre gli tendeva timidamente la mano, qualche volta non gliela tendeva addirittura, quasi temesse di vederla respingere. Sembrava che egli la prendesse con ripugnanza. A volte, quando Sònja andava a vederlo, non le diceva in tutto il tempo della visita neppure una parola. Spesso la fanciulla s’accomiatava con le labbra tremanti, con una profonda tristezza nell’animo. Ma ora le loro mani non si disgiungevano; egli le gettò un fugace, silenzioso sguardo e chinò il capo. Erano soli, nessuno li vedeva. Il guardiano in quel momento s’era voltato dall’altra parte.
A un tratto parve a Raskòlnikov che una mano invisibile l’avesse afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangendo le abbracciò le ginocchia. Dapprima ella s’impaurì, le si scolorò il viso. Balzò in piedi e lo guardò tremando. Ma comprese subito il significato di quelle lacrime. Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; ormai non dubitava più dell’amore di lui; sentiva che quell’amore era immenso e che era giunto quel tale momento…
Volevano parlare, ma non poterono. Nei loro occhi luccicavano le lacrime. Erano tutt’e due pallidi e magri, ma in quei visi smunti e scolorati già splendeva l’aurora d’un avvenire rinnovellato, di una completa risurrezione per una nuova vita. Li aveva risuscitati l’amore, innumerevoli fonti vivificatrici erano nel cuore di Rodiòn per il cuore di Sònja.
Si prefissero di aspettare e di aver pazienza. Avevano ancora sette anni di attesa; quanti intollerabili dolori, quanta felicità sconfinata promettevano quegli anni! Ma egli era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva in tutto il suo essere, e Sònja, Sònja viveva della vita di lui!
La sera, dopo che furono state chiuse le camerate, Raskòlnikov, sdraiato sulla sua panca, pensò a lei. Quel giorno gli era perfino sembrato che tutti i galeotti, prima tanto ostili a lui, lo guardassero già in un modo diverso. S’era anche messo a discorrer con loro e quelli gli avevano risposto affabilmente. Ora se ne ricordava, ma ciò doveva accadere: tutto non sarebbe stato ora diverso da prima?
Pensava a lei. Ricordò quanto l’avesse tormentata, quanto le avesse straziato il cuore. Ricordò il suo visetto pallido, magrolino, ma ora quei ricordi non lo rattristavano quasi più: sapeva con quale infinito amore avrebbe ora riscattato tutte le sofferenze di lei.
E che cos’erano poi tutte, tutte quelle pene del passato? Tutto, anche il suo delitto, anche la condanna e l’esilio gli sembravano ora, nella gioia del ritorno alla vita, un fatto esteriore, estraneo, un fatto accaduto a un altro. Quella sera del resto, non poteva pensare a lungo alla stessa cosa, non poteva concentrarsi in nessun pensiero; ora non era in grado di risolvere coscientemente nessun problema: sentiva solamente. Alla dialettica subentrava la vita, e nella sua coscienza doveva elaborarsi qualcosa di assolutamente diverso.
Sotto il suo capezzale c’era il Vangelo. Lo prese macchinalmente. Quel libro apparteneva a Sònja, era quello stesso in cui la fanciulla gli aveva letto la risurrezione di Lazzaro. Nei primi tempi della prigionia egli aveva creduto ch’ella lo avrebbe tormentato con la religione, che gli avrebbe parlato continuamente del Vangelo, che gli avrebbe imposto dei libri. Ma, con suo sommo stupore, ella non aveva mai iniziato certi discorsi, neppure una volta gli aveva offerto il Vangelo. Egli stesso gliel’aveva chiesto poco prima d’ammalarsi ed ella gliel’aveva portato senza dir nulla. Fino allora non l’aveva neanche aperto.
Non l’aprì neanche allora, ma un pensiero balenò in lui: «Possono mai le sue convinzioni non essere anche le mie? I suoi sentimenti, le sue aspirazioni almeno?…».
Durante tutta quella giornata anche Sònja fu presa da una viva agitazione e nella notte si riammalò. Ma era tanto felice, e la sua felicità era tanto inaspettata che quasi le faceva paura. Sette anni, solo sette anni! Nei primi tempi della loro felicità vi erano alcuni momenti in cui i due giovani erano disposti a considerare quei sette anni come sette giorni. Raskòlnikov però ignorava che la nuova vita bob gli sarebbe stata donata per nulla, che bisognava acquistarla a caro prezzo, pagarla con una futura grande opera…
Ma ora comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignorata, Potrebbe essere il tema di un futuro racconto, ma il nostro racconto di oggi è terminato [8].
Epilogo
Finalmente nel giovane Raskòl’nikov alla dialettica subentra la vita. E Porfirij Petrovič, il buon vecchio Porfirij Petrovič – altra grandiosa creazione dostoevskiana – lo aveva capito subito che l’assassino di Alëna Ivànovna e sua sorella Lizaveta era «un sognatore dominato dai libri che ha letto, […] un uomo la cui mente è esasperata dalle teorie» [9].
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione italiana di Vittoria Carafa de Gavardo, in Fëdor Dostoevskij, Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 254.
[2] Ivi, pp. 254-255.
[3] Ivi, pp. 265-266.
[4] Dopo che Raskòl’nikov ha chiarito il suo pensiero, tra lui e Porfirij Petrovič avviene il seguente, rapido scambio di battute:
«Sicché, voi ci credete alla Nuova Gerusalemme?»
«Ci credo», rispose energicamente Raskòlnikov […].
«E… e… e in Dio ci credete? Scusate se son tanto curioso.»
«Ci credo», ripeté Raskòlnikov, alzando gli occhi e guardando Porfirij in viso.
«E… e alla resurrezione di Lazzaro ci credete?»
«Ci cr-edo. Ma perché volete sapere tutte queste cose?»
«Ci credete letteralmente?»
«Letteralmente.»
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, op.cit., pp. 255-256.
[5] Ivi, pp. 301-303.
[6] Scrive Dostoevskij a Katkov: «Dei problemi insolubili si pongono all’assassino, dei sentimenti inattesi e imprevedibili straziano il suo cuore. La verità divina e la legge terrena reclamano ciò che è a loro dovuto, ed egli si trova ridotto, anzi costretto ad autodenunziarsi. È costretto a questo passo per poter – anche a costo di morire ai lavori forzati – accostarsi di nuovo agli uomini; il sentimento di chiusura e di separazione nei confronti di tutta l’umanità, che l’ha assalito subito dopo aver compiuto il delitto, lo tormenta troppo. La legge della verità e la natura umana hanno proclamato i loro diritti, determinando in lui, senza che quasi egli possa opporsi, una nuova convinzione interiore… L’assassino decide spontaneamente di accettare il tormento della pena per espiare il suo crimine». Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli Editore, Milano 1991, p. 68. Per una lettura completa e un’analisi della lettera si veda l’articolo Dostoevskij spiega Dostoevskij. Delitto e castigo.
[7] Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, op. cit., pp. 363-364.
[8] Ivi, pp. 459-461.
[9] Ricordo che la stessa opposizione tra dialettica e vita la ritroviamo nelle Memorie dal sottosuolo, del cui protagonista, l’uomo-topo, Raskòl’nikov è un parente stretto. Per un approfondimento sul romanzo si vedano gli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte; Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.