Carlo Chiaves, il cantore di una vita vissuta adagio

Così tu vai, sicura,
entro una fiamma accesa,
barbaramente illesa,
ferocemente pura.

C. Chiaves, L’impeto vano.

La poetica

Carlo Chiaves (1882-1929) rientra in quel gruppo di poeti crepuscolari sviluppatosi a Torino di cui fecero parte, tra gli altri, personalità del calibro di Guido Gozzano, Giulio Gianelli, Amalia Guglielminetti e Nino Oxilia.

La sua vocazione letteraria, nella fattispecie poetica, nasce dalle conversazioni salottiere e dalle abitudini scapigliate prima, crepuscolari poi, dell’epoca. Proprio da queste atmosfere, e dalle frequentazioni dell’alta società torinese nasce la raccolta poetica del 1910 intitolata Sogno e ironia.

Dietro i suoi versi, per sua stessa ammissione, non c’è una vera, autentica ricerca culturale. Da questa visione, che potremmo definire remissiva, della poesia, nasce e si sviluppa il declassamento, del tutto programmato e voluto, della figura e del ruolo del poeta, appartenente ad una «razza inquieta / di gente, che è scomparsa da quasi un’eternità».

Nei versi di Chiaves si diffonde il sussurro dimesso di una vita vissuta adagio, con discreta partecipazione, senza fare troppo rumore. In ogni visione ed in ogni opera del reale deve necessariamente aprirsi uno spiraglio sul sogno, sull’universo onirico, pena la loro insufficienza. Così come l’amico Gozzano anche Chiaves ricorre alla efficace arma dell’ironia, della freddura da salotto, anche nel sogno. E tale ironia è la spia evidente di un disagio, di una marginalità esistenziale tipicamente crepuscolare.

Sebbene Chiaves sia stato per tutta la vita un assiduo frequentatore di salotti, nelle sue opere non esiste una dimensione pubblica degli avvenimenti, bensì una dimensione privata talmente esigua, talmente povera da ridurre la società ai minimi termini.

I versi

L’IMPETO VANO

Tu che non fosti mia,
per quanto amor già m’abbia
di languore, di rabbia
stremato, e di follia,

per quanto sovra l’orme
vaghe, senza mai pace
si avventasse il rapace
desio che non s’addorme,

mia non sarai: più acerbo,
perché più vano, il duolo
cupo, incessante, solo,
mi struggerà ogni nerbo.

Gioco non ha carezza
contro il gelido smalto,
che spunterà ogni assalto
de la mia giovinezza.

Di questa avida e pronta
ch’io volli darti intera,
mia gioventù, che spera,
ch’arde, che brama, e affronta

con un impeto insano
tutto che a lei si niega,
che più combatte o prega,
quanto il tentar più è vano,

che a tua bellezza chiusa
più si rivolge e avventa,
perché meglio la tenta,
quanto più si ricusa.

Così tu vai, sicura,
entro una fiamma accesa,
barbaramente illesa,
ferocemente pura.

***

NEL SECOLO DUEMILA TRECENTO

Nel secolo Duemila Trecento (suppongo non sia
per anco rovinata, dispersa, la crosta del mondo)
chi sa che un turbolento bambino, frugando nel fondo
di una allormai diserta, inutile libreria,

non trovi, o libro, o labile indizio de’ palpiti miei,
il tuo esemplare estremo, un poco corroso dal tarlo;
non corra irrequieto, incuriosito, a mostrarlo
al padre «O cos’è questo, babbo?» «Mah! non lo saprei!

«O dove l’hai trovato? fra quelli più grandi? Chi sa
non sia questo lo scritto più raro d’un qualche poeta!»
«Che vuol mai dire?» «O figlio, vuol dire una razza inquieta
di gente ch’è scomparsa da quasi un’eternità!

«Di gente che campava, ma fantasticando, e che poi,
quanto sentiva fervere in fondo al bizzarro pensiero
fermava su le carte, con ritmo o grave o leggero,
con voci uguali e quasi del tutto ignorate fra noi».

Allora il bimbo che certo nulla, ma nulla affatto
ne avrà compreso, senza pensare o cercare più in là,
ti infilzerà a uno spago, mio libro, e ti adoprerà
un qualche istante ancora, per trastullarsi col gatto,

indi, dispersi, laceri, i fogli, e calpesti, nel foco
consumerai, più presto di quanto saremo già noi
in terra consumati, poeti inutili o eroi,
tu che un istante almeno avrai servito ad un gioco.

***

PELLEGRINAGGIO INVERNALE

L’altro giorno – non so da qual coraggio
l’anima a un tratto mi sentissi invasa –
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.

Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.

Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d’argento.

Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a goccie giù l’acqua disperde.

Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.
. . . . . .

Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.

C. Chiaves, Sogno e Ironia, 1910.

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