Se non fossi stato costretto, probabilmente non avrei mai letto Lessico famigliare della Ginzburg, La Storia della Morante e Althénopis della Ramondino. Col senno di poi, non mi sarei perso niente, anzi. Mi ribolle il sangue pensando al tempo che ho dovuto sacrificare (come se di tempo abbondassimo) a queste tre letture sciatte, vuote, insignificanti, quando al loro posto avrei potuto dedicarmi a libri ben più stimolanti, esaltanti, necessari. Ma tant’è.
Dunque, procediamo con ordine. Quando Lessico famigliare esce, nel 1963, viene insignito del Premio Strega, preferito a libri come La tregua di Primo Levi e Rien va di Tommaso Landolfi. Ecco, questo evento segna ufficialmente l’irreversibile declino della letteratura italiana. L’unanime consenso ottenuto dal piccolo libro inutile della Ginzburg è il primo, devastante sintomo di quella morte della letteratura italiana di cui oggi siamo testimoni. Raramente – o forse addirittura mai – mi è capitato di imbattermi in un romanzo così frivolo, così superficiale, così vuoto come Lessico famigliare. E pensare che si tratta di uno dei libri più letti e – criticamente – apprezzati della seconda metà del Novecento italiano. Perché soddisfa quell’indefessa brama di pettegolezzo caratteristica del belpaese che non risparmia neppure l’illuminata classe intellettuale, e anzi trova in essa un insperato – ma neanche troppo, e penso a Michelstaedter – terreno fertile. Un esempio su tutti. «Non fate troppi pettegolezzi», scriveva Pavese prima di togliersi la vita. Ma la Ginzburg di questa preghiera se ne frega, e approfitta della drammatica sorte di uno degli ultimi veri Scrittori italiani, adducendo grossolane spiegazioni da sciatta psicologia. In Lessico famigliare il pettegolezzo s’impone sulla storia.
Storia sottoposta a un sistematico processo di ridicolizzazione nell’omonimo romanzo della Morante. In questo libro interminabile, snervante, la scrittura scioccamente elementare dell’illustre consorte rende tutto, ma proprio tutto, straordinariamente insignificante. E quei sogni ridicoli… Tutto in realtà è ridicolo in questo libro (salvo rarissime eccezioni, anche perché, secondo la legge dei grandi numeri, in un romanzo di oltre seicento pagine qualcosa di buono prima o poi lo si trova, ma la sostanza non cambia), in cui la Morante, sessantenne, sembra una ragazzina delle scuole medie impegnata nella scrittura di un tema.
Su Althénopis – che nella nuova, costosissima edizione Einaudi (23 euro perdio!) si presenta in una veste interamente rosa shocking che devasta gli occhi (almeno i grafici di Einaudi, nell’ultima edizione di Lessico famigliare, hanno avuto il buon gusto di appiccicare in copertina un quadro di Schiele, anche se fatico a trovare il nesso) – non ho molto da dire, o forse, più semplicemente, non ne ho voglia. Mi limito a constatare, peraltro con sconfinata ammirazione, che in questo sterminato ri-flusso di coscienza (che sia acido di stomaco, come suggerisce Michelstaedter nel Dialogo della salute?) – in cui l’aspetto più interessante è forse rappresentato dagli ossessivi riferimenti alla merda – lungo quasi trecento pagine, non si trova neppure un dialogo. Neppure uno! Chapeau.
Quando uno non ha niente da dire, ma ha paura del silenzio, perché il silenzio gli rivela di colpo tutta la sua intima miseria, parla di se stesso. È quello che accade alla Ginzburg e alla Ramondino. Per quanto riguarda la Morante, beh, nel suo goffo tentativo di eguagliare i Grandi (Dostoevskij su tutti, dei cui capolavori – in particolare L’idiota – La Storia è una stucchevole parodia) riesce solo ad apparire ancor più piccola di quanto, forse, in realtà non fosse.