Dostoevskij ed il “Cristo morto” di Holbein

In molte delle opere di Fëdor Dostoevskij si trovano riferimenti ad opere d’arte. A titolo esemplificativo, ricordo che nel romanzo I demoni (1873) [1] sono frequenti i richiami alla magnifica Madonna Sistina di Raffaello, mentre ne I fratelli Karamazov (1879) [2] vi è un interessantissimo accenno al quadro Il contemplatore di Kramskoj. In un altro capolavoro del grande scrittore russo, L’idiota (1869) [3], troviamo invece due riferimenti all’impressionante dipinto di Hans Holbein il Giovane Il corpo di Cristo morto nella tomba (1521).

Ne L’idiota Rogožin, amico e rivale del celebre e splendido principe Myškin, ha in casa «una copia eccellente» della suddetta opera del pittore tedesco. Dinanzi ad essa, tra i due personaggi avviene il seguente scambio di battute:

«Quel quadro!», esclamò il principe, colpito da un’idea subitanea. «Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede».
«E infatti si perde», confermò Rogožin. [4]

Ebbene, personalmente credo che in queste poche parole, Dostoevskij sia riuscito a racchiudere la vera essenza del dipinto di Hans Holbein il Giovane. L’iniziale stato di putrefazione del volto, delle mani e dei piedi del Cristo – che potete ammirare dettagliatamente nei seguenti particolari – rendono il figlio di Dio così umano, da portare l’osservatore a credere che in lui non ci sia proprio nulla di divino e, addirittura, che l’esistenza di ogni fede sia impossibile. Se persino il corpo di Cristo è soggetto allo sfacelo post-mortem, come è possibile avere ancora fede? Qualunque certezza crolla, va in frantumi, dinanzi la brutale, e proprio per questo motivo grandiosa, rappresentazione del pittore tedesco.

Ne L’idiota il dipinto di Hans Holbein il Giovane compare una seconda volta. E in questo caso a parlarne è il tisico e morente Ippolit, nella sua Indispensabile spiegazione. Leggiamo.

Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogožin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore (secondo il mio calcolo) prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo, fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: «Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Cristo in quello stato, come potevano credere all’imminente resurrezione? Se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle quando la loro prima vittima è stato proprio Colui che, da vivo, impartiva i suoi ordini alla stessa natura, Colui che disse: “Talitha cumi!”, e la bambina morta resuscitò; Colui che esclamò: “Alzati e cammina!”, e Lazzaro, che era già morto, uscì fuori dal suo sepolcro?». Guardando quel quadro, si è presi dall’idea che la natura non sia altro che un mostro enorme, muto, inesorabile, una macchina immensa ma sorda e insensibile, capace di afferrare, lacerare, schiacciare e assorbire nelle sue viscere un Essere che, da solo, valeva come la natura intera con tutte le sue leggi e tutta la terra che, forse, fu creata solo perché potesse nascere quell’uomo! Il quadro dà proprio l’impressione di questa forza cieca, crudele, stupida, alla quale tutto è fatalmente soggetto. Dentro di esso, non c’è nessuno fra quelli che erano soliti seguire Gesù. In quella sera, una sera che annientava tutte le loro speranze e forse anche tutta la loro fede, coloro che seguivano Gesù dovettero provare un’angoscia senza nome. Atterriti, si dileguarono, sostenuti soltanto da una grande idea, un’idea che nessuno avrebbe più potuto togliergli o canccllargli: se il Maestro, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì? [5]

Le parole di Ippolit non fanno altro che avvalorare la tesi inizialmente accennata dal principe Myškin, insinuando alla fine una spaventosa ipotesi: se Cristo, il giorno prima della sua morte, avesse visto il suo corpo ridotto in questo macabro stato, probabilmente, non avrebbe avuto la forza di salire su quella croce, gli sarebbe mancato il coraggio necessario. Lo stesso Gesù, nonostante i miracoli, avrebbe dubitato di se stesso, della sua natura divina, dell’esistenza di suo Padre.

Attraverso questi due giudizi, Dostoevskij dimostra di avere colto tutta la grandiosità del dipinto del pittore tedesco. E non è certo un caso che a possederne una copia sia proprio Rogožin. Quello stesso Rogožin che, alla fine de L’idiota, uccide la meravigliosa Nastas’ja Filippovna trafiggendola con un coltello.

NOTE

[1] Per un approfondimento sui Demoni si vedano gli articoli:Dostoevskij spiega Dostoevskij. I demoni. Parte IParte IIParte III.

[2] Per un approfondimento sui Fratelli Karamazov si veda la serie di articoli Dostoevskij spiega Dostoevskij. I fratelli Karamazov. Parte IParte IIParte III.

[3] Per un approfondimento su L’idiota si veda l’articolo Dostoevskij spiega Dostoevskij. L’idiota.

[4] F. Dostoevskij, L’idiota, trad. it. di Federigo Verdinois, in F. Dostoevskij, Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 725.

[5] Ivi, p. 842.

In copertina: Vassilij Grigorovič Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872.

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