L’originale futurismo di Palazzeschi – L’incendiario

Al pari del manifesto futurista Il controdolore (1913), altro testo fondamentale dell’originale produzione avanguardista di Aldo Palazzeschi è il componimento L’incendiario, contenuto nell’omonima raccolta di versi pubblicata nel 1910. La poesia, collocata proprio in apertura del volume, possiede evidentemente un valore programmatico. In questi versi infatti, è possibile individuare una ulteriore, importante componente, oltre il riso, della poetica palazzeschiana: la volontà distruttiva. Palazzeschi vuole distruggere, ma, al contrario del “violento” Marinetti, ricorrendo a tematiche e soluzioni irrisorie, irriverenti, dissacranti. Una distruzione più che altro figurativa, simbolica.

La parte iniziale del componimento è costruita sul dialogo e sulla polifonia. Una dietro l’altra, prive di un ordine qualunque, si inseguono e si accavallano voci, commenti e battute provenienti dalla gente, una massa di conformisti difensori dell’ordine pubblico e dell’onorabilità borghese, sempre pronti a scagliare giudizi e sentenze con il solo scopo di salvaguardare la propria, ipocrita “integrità” morale. Agli antipodi delle convenzioni sociali, il protagonista della poesia: l’incendiario. Egli rappresenta la magnifica diversità. È un individuo distante secoli dagli ideali e dalle convenzioni borghesi, che non solo rifiuta, ma vuole anche annientare. E proprio a causa di questo suo spirito radicalmente sovversivo, totalmente rivoltoso il potere, rappresentato dalla «polizia», lo ha imprigionato, e ne ha fatto un’icona di scandalo, infamia, cattivo esempio, ma anche di curiosità – quasi fosse una bestia rara venuta chissà da quale paese esotico – e di scherno.

L’incendiario rientra dunque in quella serie di personaggi miserabili sviluppati da Palazzeschi. In particolare, questa figura sembra modellata su quella di Cristo. Entrambi, avvolti da un soprannaturale velo di santità, pronunciano verità sgradevoli, fastidiose agli orecchi della moltitudine, venendo così perseguitati dalla legge e persino condannati a morte. Un destino comune, ed un comune modo di agire avvicinano l’incendiario e Cristo, ancora una volta a dimostrazione della geniale irriverenza palazzeschiana.

L’elemento del fuoco rappresenta sì la devastazione cui incessantemente aspira l’autore, ma anche la rinascita, continuando l’analogia con Cristo, la resurrezione. Ed il poeta, che vuole liberare l’incendiario affinché continui nella sua straordinaria opera di annientamento, veste i panni del «sacerdote», facendosi portavoce di una verità profonda, massima, arcana, suprema, sconosciuta alla società borghese barricata dietro pseudo-certezze menzognere e d’interesse.

La fiamma è la poesia, la sola in grado di vincere il disdegno, la freddezza e di rigenerare l’intera umanità. Ah, quanto avremmo bisogno oggi di tali vampate!

L’INCENDIARIO

A F. T. Marinetti
anima della nostra fiamma.

In mezzo alla piazza centrale
del paese,
è stata posta la gabbia di ferro
con l’incendiario.
Vi rimarrà tre giorni
perchè tutti lo possano vedere.
Tutti si aggirano torno torno
all’enorme gabbione,
durante tutto il giorno,
centinaia di persone.
‒ Guarda un pochino dove l’anno messo!
‒ Sembra un pappagallo carbonaio.
‒ Dove lo dovevano mettere?
‒ In prigione addirittura.
‒ Gli sta bene di far questa bella figura!
‒ Perchè non gli avete preparato
un appartamento di lusso,
così bruciava anche quello!
‒ Ma nemmeno tenerlo in questa gabbia!
‒ Lo faranno morire dalla rabbia!
‒ Morire! È uno che se la piglia!
‒ È più tranquillo di noi!
‒ Io dico che ci si diverte.
‒ Ma la sua famiglia?
‒ Chi sa da che parte di mondo è venuto!
‒ Questa robaccia non à mica famiglia!
‒ Sicuro, è roba allo sbaraglio!
‒ Se venisse dall’ inferno?
‒ Povero diavolaccio!
‒ Avreste anche compassione?
Se v’avesse bruciata la casa
non direste così.
‒ La vostra l’à bruciata?
‒ Se non l’à bruciata
poco c’è corso.
À bruciato mezzo mondo
questo birbaccione!
‒ Almeno, vigliacchi, non gli sputate addosso,
infine è una creatura!
‒ Ma come se ne sta tranquillo!
‒ Non à mica paura!
‒ Io morirei dalla vergogna!
‒ Star lì in mezzo alla berlina!
‒ Per tre giorni!
‒ Che gogna!
‒ Dio mio che faccia bieca!
‒ Che guardatura da brigante!
‒ Se non ci fosse la gabbia
io non ci starei!
‒ Se a un tratto si vedesse scappare?
‒ Ma come deve fare?
‒ Sarà forte quella gabbia?
‒ Non avesse da fuggire!
‒ Dai vani dei ferri non potrà passare?
Questi birbanti si sanno ripiegare
in tutte le maniere!
‒ Che bel colpo oggi la polizia!
‒ Se non facevan presto a accaparrarlo,
ci mandava tutti in fumo!
‒ Si meriterebbe altro che berlina!
‒ Quando l’ànno interrogato,
à risposto ridendo
che brucia per divertimento.
‒ Dio mio che sfacciato!
‒ Ma che sorta di gente!
‒ Io lo farei volentieri a pezzetti.
‒ Buttatelo nel fosso!
‒ Io gli voglio sputare
un’altra volta addosso!
‒ Se bruciassero un pò lui
perchè ridesse meglio!
‒ Sarebbe la fine che si merita!
‒ Quando sarà in prigione scapperà,
è talmente pieno di scaltrezza!
‒ Peggio d’una faina!
‒ Non vedete che occhi che à?
‒ Perchè non lo buttano in un pozzo?
‒ Nel cisternone del comune!
‒ E ci sono di quelli
che avrebbero pietà!
‒ Bisogna esser roba poco pulita
per aver compassione
di questa sorta di persone!

Largo! Largo! Largo!
Ciarpame! Piccoli esseri
dall’esalazione di lezzo,
fetido bestiame!
Ringoiatevi tutti
il vostro sconcio pettegolezzo,
e che vi strozzi nella gola!
Largo! Sono il poeta!
Io vengo di lontano,
il mondo ò traversato,
per venire a trovare
la mia creatura da cantare!
Inginocchiatevi marmaglia!
Uomini che avete orrore del fuoco,
poveri esseri di paglia!
Inginocchiatevi tutti!
Io sono il sacerdote,
questa gabbia è l’altare,
quell’uomo è il Signore!

Il Signore tu sei,
al quale rivolgo,
con tutta la devozione
del mio cuore,
la più soave orazione.
A te, soave creatura,
giungo ansante, affannato,
ò traversato rupi di spine,
ò scavalcato alte mura!
Io ti libererò!
Fermi tutti, v’ò detto!
Tenete la testa bassa,
picchiatevi forte nel petto,
è il confiteor questo,
della mia messa!
T’ànno coperto d’insulti
e di sputacchi,
quello sciame insidioso
di piccoli vigliacchi.
Ed è naturale che da loro
tu ti sia fatto allacciare:
quegl’ insetti immondi e poltroni,
sono lividi di malefica astuzia,
circola per le loro vene
il sangue verde velenoso.
E tu grande anima
non potevi pensare
al piccolo pozzo che t’avevan preparato,
ci dovevi cascare.
Io ti son venuto a liberare!
Fermi tutti!
Ti guardo dentro gli occhi
per sentirmi riscaldare.

Rannicchiato sotto il tuo mantello
tu sei senza parole,
come la fiamma: colore, e calore!
E quel mantello nero
te l’àn gettato addosso
gli stolidi uomini vero,
perchè non si veda che sei tutto rosso?
Oppure te lo sei gettato da te,
per ricuoprire un poco
l’anima tua di fuoco?
Che guardi all’orizzonte?
Se s’alza una favilla?
Dimmi, non sei riuscito a trafugare
l’ultimo zolfino?
Ti si legge negli occhi!
Ma ti saltan dagli occhi le faville,
a cento, a cento, a mille!
Tu puoi cogli occhi
bruciare tutto il mondo!
T’à creato il sole,
che bruci al sol guardarti?

Quando tu bruci
tu non sei più l’uomo,
il Dio tu sei!
Mi sento correr per le vene un brivido.
Ti vorrei vedere quando abbruci,
quando guardi le tue fiamme;
tutte quelle bocche,
tutte quelle labbra,
tutte quelle lingue,
non vengono a baciarti tutte?
Non sono le tue spose
voluttuose?
Bello, bello, bello e Santo!
Santo! Santo!
Santo quando pensi di bruciare.
Santo quando abbruci,
Santo quando le guardi
le tue fiamme sante!

E voi, rimasti pietrificati dall’orrore,
pregate, pregate a bassa voce,
orazioni segrete.
Anch’io sai, sono un incendiario,
un povero incendiario che non può bruciare,
e sono come te in prigione.
Sono un poeta che ti rende omaggio,
da povero incendiario mancato,
incendiario da poesia.
Ogni verso che scrivo è un incendio.
Oh! Tu vedessi quando scrivo!
Mi par di vederle le fiamme,
e sento le vampe, bollenti
carezze al mio viso.
Incendio non vero
è quello ch’io scrivo,
non vero seppure è per dolo.
Àn tutte le cose la polizia,
anche la poesia.

Là sopra il mio banco ove nacque,
il mio libro, come per benedizione
io brucio il primo esemplare,
e guardo avido quella fiamma,
e godo, e mi ravvivo,
e sento salirmi il calore alla testa
come se bruciasse il mio cervello.
Come mi sento vile innanzi a te!
Come mi sento meschino!
Vorrei scrivere soltanto per bruciare!
Nel segreto delle mie stanze
passeggio vestito di rosso,
e mi guardo in un vecchio specchio,
pieno di ebbrezza,
come fossi una fiamma,
una povera fiamma che aspetta….
il tuo riflesso!
Fuori vado vestito di grigio,
ovvero di nessun colore,
c’è anche per le vesti una polizia,
come per le parole.
E quella per il fuoco
è tremenda, accanita,
gli uomini ànno orrore delle fiamme,
gli uomini seri,
per questo anno inventato i pompieri.

Tu mi guardi, senza parlare,
tu non parli,
e i tuoi occhi mi dicono:
uomo, poco farai tu che ciarli.
Ma fido in te!
T’apro la gabbia vài
Guardali, guardali, come fuggono!
Sono forsennati dall’orrore,
la paura gli à tutti impazzati.
Potete andare, fuggite, fuggite,
egli vi raggiungerà!

E una di queste mattine,
uscendo dalla mia casa,
fra le consuete catapecchie,
non vedrò più le vecchie
reliquie tarlite,
così gelosamente custodite
da tanto tempo!
Non le vedrò più!
Avrò un urlo di gioia!
Ci sei passato tu!
E dopo mi sentirò lambire le vesti,
le fiamme arderanno
sotto la mia casa….
griderò, esulterò,
m’avrai data la vita!
Io sono una fiamma che aspetta!
Va, passa fratello, corri, a riscaldare
la gelida carcassa
di questo vecchio mondo!

A. Palazzeschi, L’incendiario, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano 1910.

In copertina: William Turner, The burning of the Houses of Lords and Commons, 1834.

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