Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire!

Abbiamo dedicato grande attenzione ad Aldo Palazzeschi (1885-1974), scrittore e poeta tra i più importanti del primo Novecento italiano, indagando in particolar modo la sua posizione, del tutto indipendente ed originale, all’interno dell’avanguardia futurista [1], attraverso la lettura e l’analisi di alcune delle sue opere più note e significative: il manifesto Il controdolore [2], la poesia L’incendiario [3] e il romanzo Il codice di Perelà [4].

Quest’oggi torniamo ad occuparci del grande autore fiorentino (ma solo di nascita, perché Palazzeschi fu uno spirito cosmopolita), prendendo in esame un altro suo componimento in versi particolarmente celebre e indicativo: E lasciatemi divertire!

Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi.

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente -!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche.
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie.

Bubububu,
fufufufu,
Friu!
Friu!

Ma se d’un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

Bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
vogliono dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovinotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc… Huisc…
Huisciu… sciu sciu,
Sciukoku… Koku koku,
Sciu
ko
ku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro:
gli daranno del somaro.

Labala
Falala
falala
appoi lala.
Lalala, lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì,
a tutte le porte.
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire! [5]

A partire da Baudelaire, e da un suo testo in particolare, L’aureola perduta [6] (secondo la traduzione di Alfonso Berardinelli per Garzanti), contenuto nella raccolta di poemetti in prosa Lo spleen di Parigi (1869), si assiste ad un processo di ridimensionamento della figura del poeta. Un ridimensionamento consapevole, di cui egli stesso si fa carico in prima persona (il protagonista del poemetto di Baudelaire perde l’aureola per strada e decide deliberatamente di non raccoglierla). La società muta, si entra definitivamente, irreversibilmente nella modernità, spaventosa, anestetica, e i ruoli cambiano. Il poeta non è più lo stesso, non ha più importanza, non appartiene più a un ceto di riferimento, e non sa più a quale pubblico rivolgersi, e se un suo pubblico esista ancora oppure si sia dissolto nel nulla. Avviene una vera e propria crisi che rovescia e trasvaluta tutto, che ridimensiona il valore e la funzione della poesia. Baudelaire è il primo, e più grande, cantore di questa crisi, che nasce e si sviluppa nell’Ottocento, ma poi si dilata fino a Novecento inoltrato. Si irradia in Italia, e dopo l’ultimo, sterile e narcisistico grido di onnipotenza di D’Annunzio, ecco apparire i Crepuscolari – e della modesta, domestica, ma straordinaria tendenza poetica cito un testo particolarmente indicativo, Totò Merùmeni, di colui che è il più illustre rappresentante del Crepuscolarismo, Guido Gozzano – e proprio il nostro Palazzeschi.

Quanto detto finora, lo ritroviamo espresso chiaramente nel componimento E lasciatemi divertire! In due semplici, e proprio per questo incisivi, efficaci versi, Palazzeschi sottolinea il ridimensionamento della figura del poeta, oramai ripiegato in se stesso: «gli uomini non dimandano / più nulla dai poeti» (vv. 94-95). E ad essere ridimensionata è la stessa poesia, anzi, più che ridimensionata, distrutta, ridotta a meri suoni («Tri tri tri, / fru fru fru / ihu ihu ihu / uhi uhi uhi», tanto per citare la prima, emblematica strofa) del tutto privi di significato. Suoni distorti («Sciukoku… Koku koku», v. 65), insensati contro i quali si leva la voce infastidita di un ipotetico interlocutore-lettore: «Ma giovinotto, / ditemi un poco una cosa, / non è la vostra una posa, / di voler con così poco / tenere alimentato / un sì gran foco?» (vv. 57-62). È una dimostrazione questa, della predilezione di Palazzeschi per la forma dialogica, di cui il componimento L’incendiario è un altro eccezionale esempio.

Palazzeschi distrugge la poesia, la riduce ai minimi termini, rendendola un mero divertimento privo di qualsiasi scopo, ed elimina così, del tutto, la possibilità della ricostruzione di un pubblico. Il lettore non può comprendere simili versi, perché, di fatto, non c’è niente da comprendere (il poeta prova ad abbozzare una spiegazione, ma desiste in fretta: «Non è vero che non voglion dire, / vogliono dire qualcosa. / Voglion dire… / come quando uno si mette a cantare / senza saper le parole», vv. 44-48), il significante sovrasta il significato fino a schiacciarlo, fino a polverizzarlo, e si interrompe così per sempre quel rapporto comunicativo tra autore e lettore che sta alla base della scrittura, del principio di scrittura. Del resto, non c’è più alcun messaggio da comunicare, da un pezzo ormai la poesia non è più portatrice di verità o di valori. Ed è fenomenale la spontanea, la schietta irriverenza con la quale Palazzeschi attua tutto ciò, sfociando, nella penultima strofa, nella vera e propria invettiva: «Certo è un azzardo un po’ forte, / scrivere delle cose così, / che ci son professori oggidì, / a tutte le porte» (vv. 84-87); versi polemici cui seguono risate forti, quasi sguaiate, provocatorie e taglienti. No, in Palazzeschi, come anche in Baudelaire e in Gozzano, non c’è rimpianto per l’antica e privilegiata condizione perduta, del resto, «la disgrazia serve sempre a qualcosa» [7].

NOTE

[1] Per un approfondimento sull’avanguardia si veda l’articolo I Manifesti delle avanguardie – Futurismo.

[2] Si veda l’articolo L’originale futurismo di Palazzeschi – Il controdolore.

[3] Si veda l’articolo L’originale futurismo di Palazzeschi – L’incendiario.

[4] Si veda l’articolo Aldo Palazzeschi – Il codice di Perelà.

[5] A. Palazzeschi, Tutte le opere, 3 voll., Mondadori, Milano 1957-1960.

[6] «Come! voi qui, mio caro? Voi in questo brutto posto? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore di ambrosia! C’è invero di che restare sorpresi.
– Mio caro, sapete bene quanto mi terrorizzino le carrozze e i cavalli. Poco fa, mentre attraversavo il viale in tutta fretta saltellando in mezzo al fango, in quel caos in movimento dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti nello stesso tempo, per un gesto brusco l’aureola mi è scivolata dalla testa nel fango della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Giudicai meno sgradevole perdere le mie insegne che farmi rompere le ossa. E poi, mi dissi, la disgrazia serve sempre a qualcosa. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere azioni basse, darmi ai bagordi come i comuni mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete!
– Dovreste almeno pubblicare un annuncio della perdita dell’aureola, o fare denuncia al commissario.
– Proprio no! Mi trovo bene, qui. Solo voi mi avete riconosciuto. D’altronde la dignità mi disturba. E poi penso che qualche cattivo poeta la raccatterà e se la metterà in testa spudoratamente. Che piacere far felice qualcuno! Soprattutto qualcuno la cui felicità mi farà ridere! Pensare a X, o a Z! Ah, sarà davvero divertente!».

Charles Baudelaire, L’aureola perduta, in Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, trad. it. di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1999.

[7] Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, trad. it. di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1999.

In copertina: Richard Gerstl, Autoritratto, 1907.

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