Perelà è la mia favola aerea, il punto più alto della mia fantasia.
Aldo Palazzeschi
Perelà è un uomo dalla natura eccezionale, essendo fatto interamente di fumo – «io sono leggero… un uomo leggero… tanto leggero», ripete, all’inizio del romanzo, a chi lo incontra e lo tempesta di domande, avendone intuito la singolare composizione -. Per trentatré, lunghissimi anni egli ha vissuto dentro «l’utero nero» di un camino, il cui fuoco era alimentato da tre vecchie donne centenarie, Pena, Rete e Lama, che il protagonista considera sue madri – dalle loro sillabe iniziali, infatti, deriva il suo nome -. Formatosi attraverso i discorsi delle tre donne, quando queste smettono di parlare, Perelà attende per tre giorni che ricomincino, ma il persistere del silenzio lo convince a scendere in terra. Indossa degli stivali trovati dinanzi al focolare oramai spento, e si incammina verso la città, nel regno di Torlindao. Qui la sua figura ondeggiante, insieme alla semplicità e al candore con i quali si esprime, suscita grande curiosità. Viene accolto con tutti gli onori, le dame di corte lo desiderano quasi sfrontatamente, e il Re lo nomina «Ispettore generale dello Stato, riformatore… con poteri esecutivi, materiali, spirituali», incaricandolo persino di redigere il nuovo Codice di Stato. Perelà viaggia senza sosta, facendo così esperienza delle più svariate situazioni. Basta poco però a far cadere il protagonista in disgrazia, dopo aver raggiunto l’apice della fama. Basta una morte. La morte di Alloro, vecchio servitore del Re, che si dà fuoco con la speranza di diventare proprio come Perelà. Accusato dell’accaduto e insultato dalla folla, viene rinchiuso in una piccola cella in cima al monte Calleio. Durante il processo, alla fine del quale viene inevitabilmente condannato, tutti i personaggi incontrati da Perelà, che all’inizio gli avevano dimostrato simpatia e ammirazione, lo accusano senza alcuna pietà, per lo più mossi da invidia. Oliva di Bellonda, dama di corte innamorata del protagonista, ottiene dal Re che sia consentito a Perelà di avere in cella un camino, e un pertugio dal quale poter ricevere legna da ardere. È questa la salvezza per l’uomo di fumo il quale, dopo aver attraversato per l’ultima volta le vie della città tra gli sputi e gli insulti della folla, rinchiuso nella cella, si toglie gli stivali, lascia il Codice da lui preparato e, attraverso il camino, si dissolve nel cielo sotto forma di una nuvoletta di fumo. La povera Oliva di Bellonda, disperata per aver perduto per sempre l’amore della sua vita, si suicida.
Vi proponiamo la scena che costituisce il capitolo III, intitolato Dio, riguardante il primo incontro di Perelà con la Regina a corte. Una scena emblematica dello stile di Palazzeschi e delle tematiche trattate nel romanzo.
«- Penso oramai come voi, Perelà, a quelle tre donne (le madri di Perelà, delle quali la Regina vuole presentarsi come l’erede), io sono alla sommità di un camino e le sento parlare. Il loro amoroso bisbiglio attrae ogni mio senso, e sono incapace di vedere e di muovere anche un poco le mie membra. Parlano dell’umano dolore.
Chi parla delle tre? È Pena? È Rete? È Lama? Una narra la pena di un cuore; e una dispiega la rete che lo allacciò; una ha in mano la lama che lo trafiggerà.
– Dio.
– Le sento, le sento! E non so che mi spinge a distinguere una cosa di esse. Dite, dite Perelà, dite, qual cosa bramaste di vedere delle vostre tre madri? Qual cosa aveva ferito di più la vostra immaginazione, o che vi lusingaste di avere immaginata meglio?
– Gli occhi di Pena, le mani di Rete, il sorriso di Lama.
– Guardatemi negli occhi, guardate le mie mani, guardate il mio sorriso: mi sento in quest’istante di riassumere tutte quelle membra.
– Dio.
– Dite, credevi che la Regina avesse altri occhi, altre mani, e un altro sorriso? Certo le dame della società ieri v’intrattennero allegramente, ma io… che posso? Io sono la Regina.
– Dio.
– La Regina frugare non può nel suo passato e nel suo cuore, e s’ella scruta nell’avvenire, ahimè, voi la vedete raccogliere una spada pesante bagnata di sangue… e scomparire.
Ma io vi posso insegnare un giuoco, un giuoco da Regina, quello che si chiama il giuoco dello Stato.
– Dio.
– Prendete, ecco le carte, queste sono le dame, tenete, e questi i cavalieri, li tengo io: qua le carte di spade. Voi mescolate le dame, i cavalieri li mescolo io, mescolate le carte di denari, io le carte di spade.
Io alzo un cavaliere, alzate la dama voi, e ora una carta di denari: il cavaliere che s’incontra con la carta più alta di denari è il Re, la dama che gli corrisponde è la Regina. Ecco, questo è il Re, e questa è la sua Regina, il denaro allo Stato. Mescolate il Re con le carte di spade, quando il Re si combina con la carta più alta di spade: muore.
– E quando non si combina?
– Finché non si combina regna.
– E dopo?
– Dopo ve l’ho detto, muore.
– Dio.
– Ancora, ancora. Ha un regno molto lungo questo Re. Ecco trovata, il Re è morto, la sua Regina raccoglie quella spada e viene qua, nel fondo della tavola.
– E il denaro?
– Il denaro rimane dello Stato.
– E ora un nuovo Re, una nuova Regina, il denaro allo Stato. Si rimescola il Re con le carte di spade finché non si combina con la carta più alta che rimane; la Regina raccoglie quella spada e viene qua, nel fondo della tavola.
– Questo giuoco finisce?
– Questo giuoco non finisce mai.
– Dio.
– Si fanno nuovi Re, nuovi cuori da trapassare, nuove spade, nuovo denaro, nuove regine a cui rimane una spada da trascinare.
– Dio.
– Maestà, per tante volte ho udito qui dentro pronunziare una parola, mi volsi e non potei vedere…
– Una parola?
-Sì: «Dio».
– Oh! Non ci badate, io ci ho fatto tanto l’abitudine che non me ne accorgo neppure. Venite, ecco, è il mio pappagallo, è alla finestra della stanza vicina, venite.
Vedete come è bello? Non riuscii ad insegnargli una cosa soltanto, nulla volle imparare da me, ritenne solo questa parola che udì chi lo sa come… e la ripete sempre. È strano, non è vero? Egli dice una grande parola, e non può capirne il significato, che volete mai, povera bestiola, che sappia lui che è Dio.
– Voi lo sapete, invece?
– E come? Certamente. Chi non lo sa? Dio! Ma Dio è… Dio! Noi tutti bene lo sappiamo, ma lui… Ora mi farete compagnia per la mia passeggiata dentro il parco reale. A momenti calerà il sole, la vettura ci attende, venite».
A. Palazzeschi, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957-1960.
Cos’è Il Codice di Perelà? Un romanzo, certo, ma non solo. È una favola, una favola surreale, un viaggio all’interno della società italiana del primo Novecento, e del potere di quegli anni. È inoltre una parabola allegorica, molte infatti sono le corrispondenze tra il protagonista e Cristo, sulla scia de L’idiota (1869) di Dostoevskij e della magnifica figura centrale dell’opera, il principe Myškin, anch’egli corrispettivo del Messia.
E per questo motivo non è un caso, che le pagine che vi abbiamo proposto tocchino il problema religioso. La loro importanza è confermata dal fatto che costituiscono, quasi per intero, il terzo e più breve capitolo dell’opera, intitolato Dio. Nonostante quest’importanza però, alla stregua del discorso politico, ridotto dalla Regina a un mero gioco di carte, i valori religiosi divengono atti svuotati di senso, monotoni, ripetitivi, e ciò lo dimostra il fatto che sia un pappagallo a ripetere, in continuazione, la parola «Dio». La Regina stessa, che afferma di conoscerlo, è incapace di fornire una spiegazione tautologica alla domanda di Perelà, passando celermente a un altro argomento.
Spesso, accanto al titolo Il Codice di Perelà, troverete la definizione di “romanzo futurista”. È vero, Palazzeschi è stato uno scrittore futurista, ma ridurre questa sua opera, la migliore, forse, a quest’abusata etichetta è semplicistico. D’altronde è lo scrittore stesso a confessarcelo, Il Codice di Perelà è la sua «favola aerea», il «punto più alto» della sua fantasia, dunque, molto più di un’opera definibile semplicemente “futurista”.
In copertina: Umberto Boccioni, Quelli che restano (versione I), 1911.