Giacomo Leopardi.

Sulle Operette morali

Personalmente, reputo le Operette morali di Giacomo Leopardi il più grande libro della storia della letteratura italiana (c’è la Commedia, certo, ma la Commedia è altro, e rispetto non solo a quanto è stato scritto, ma addirittura pensato, e nella letteratura d’ogni tempo e luogo). In quest’opera che non ha eguali Leopardi, con una leggerezza solo, e sottolineo solo, «apparente» – come disse lui stesso – attua una sistematica, metodica distruzione di tutti quei miti che l’uomo si è costruito nel corso dei secoli, tentando disperatamente di colmare il vuoto irriducibile e spaventoso che lo circonda. E lo fa con ironia, un’ironia che ha diversi gradi, per così dire, dall’ironia divertita e divertente del Copernico all’ironia nera del Cantico del gallo silvestre, che costituisce appunto il punto più oscuro e angosciante di tutto il libro.

Contrariamente a quanto si possa pensare ad una prima e superficiale occhiata, le Operette morali sono un libro intero, perfettamente architettato, in cui i ventiquattro testi che lo compongono rappresentano ventiquattro punti di vista differenti in cui Leopardi affronta la tematica dominante: la miseria dell’uomo, ridicolo nel suo sforzo di illudersi del contrario. Il romanzo è un genere che Leopardi non sente proprio (e pensare che nel 1827 escono le prime edizioni delle Operette morali e dei Promessi sposi di Manzoni, il romanzo della letteratura italiana), egli predilige quella varietas che è caratteristica della vita di ognuno di noi. Così facendo Leopardi riesce a mantenere viva lungo tutta l’opera l’intensità, un’intensità vibrante, impossibile da mantenere costantemente in un romanzo. Volente o nolente il romanzo si prende delle pause che le Operette morali non conoscono. Dalla Storia del genere umano al Dialogo di Tristano e di un amico la demistificazione si mantiene su toni alti, che tolgono il respiro al lettore.

All’interno dell’opera di Leopardi, due sono le antagoniste che si ergono prepotenti: la Verità, il cui dittatoriale «imperio», collocato nell’ultima delle quattro macro-età in cui Leopardi suddivide la sua storia del genere umano (storia ben più storica di molte storie scritte da storici), priva l’individuo della speranza e dell’immaginazione, lasciandolo nudo come un’impotente e disillusa larva destinata a nascere solo ed esclusivamente per morire e non per vivere (eccetto quei pochissimi «magnanimi» risarciti da Amore); e la Natura, la quale, gigantesca, appare spaventosamente senza pietà nel confronto con il veterotestamentario Islandese, sfortunato, o meglio, uomo fino in fondo, quando va ad imbattersi proprio in colei che rifuggiva, in cerca di quiete. Ma l’utopia dell’Islandese è destinata a restare tale, perché, come sostiene Tasso nel colloquio con il suo irriverente Genio familiare, la vita è uno «stato violento», che si sia internati in un manicomio oppure no.

Gigantesca la Natura e gigantesco il gallo silvestre, a cui Leopardi dona il suo tono più cupo. Eccetto le ore dedicate al sonno – e Michelstaedter, discepolo leopardiano, ne La persuasione e la rettorica non salverà neppure queste – è una completa disgrazia. Tutto nasce dal nulla, e l’unico obiettivo dell’essere è la morte, perché la morte, nell’implacabile ciclo di produzione e distruzione, è l’unico intento della natura, finché tutto, l’universo e la natura stessa, sarà spento. E «delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima [a questo punto sì, per davvero, ci sarà quiete], empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». Dopo aver letto il Cantico del gallo silvestre ci si rende conto che ogni sacrosanto giorno ci si affanna per niente.

Leopardi recide le palpebre, dimostra come sia impossibile essere felici anche solo «per un momento di tempo» (è questa la preghiera di Malambruno a Farfarello nell’operetta forse più disperata); nel coro che apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie riesce nella fenomenale impresa di far parlare il nulla; con il sorriso di Filippo Ottonieri dichiara che l’uomo nasce per conoscere quanto convenga di più non nascere (e viene in mente Mainländer, che di Leopardi era un amante); riesce persino a rendere l’anti-suicida ancor più negativo dell’aspirante suicida, quando Plotino dice a Porfirio che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla», appellandosi infine, per bocca del caustico Tristano, alla morte: «Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei».

Nelle Operette morali di Giacomo Leopardi c’è tutto, e basterebbe la lettura di questo solo libro nella vita di un uomo per rendersi conto di come stanno le cose, e di come sono sempre state e saranno. Il resto è un sovrappiù, che può arricchire ma non modificare la sostanza racchiusa in questo libro.

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