Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte

Sono tre gli episodi turpi, vergognosi, umilianti che l’uomo-topo ci racconta. Tre episodi emblematici della sua vita e della sua natura. Il primo riguarda l’offesa subita da un ufficiale e la relativa sete di vendetta che il protagonista cova dentro di sé addirittura per anni, prima di metterla in pratica, su quel mitico teatro a cielo aperto che è la Prospettiva Nevskij, luogo tra i più significativi dell’astratta a premeditata Pietroburgo, immortalata da Gogol’ nell’omonimo, indimenticabile racconto. In questo episodio Dostoevskij rappresenta con la consueta efficacia l’autoreferenzialità dell’uomo-topo, il suo essere irriducibilmente arroccato in se stesso, ostile ad un mondo che, di fatto, se ne frega di lui, come d’ogni altro individuo. Anni dopo aver subito l’offesa egli, sulla Prospettiva Nevskij, trova finalmente il coraggio di vendicarsi, di urtare l’odiato ufficiale, senza che questi neppure se ne accorga. Eppure, per l’uomo-topo, questo epilogo, dopo innumerevoli notti insonni, dopo giorni e giorni di rancore masticato e mai sputato, è vissuto come un trionfo.

«E poi improvvisamente finì tutto come meglio non era possibile. Alla vigilia, durante la notte, avevo definitivamente stabilito che non avrei messo in atto la mia funesta intenzione e che avrei lasciato perdere tutto quanto, e a tale scopo andai sulla Nevskij per l’ultima volta, così, solo per vedere come avrei lasciato perdere tutto. A un tratto, a soli tre passi dal mio nemico mi decisi, inaspettatamente, chiusi gli occhi e… ci urtammo ben forte, spalla contro spalla! Non gli avevo ceduto neanche un palmo, ed ero andato oltre assolutamente da pari a pari! Lui non si voltò neppure, e fece finta di non averlo notato; ma fece soltanto finta, ne sono certo. Fino a oggi ne sono e ne rimango certo! Ovviamente il colpo più forte l’avevo buscato io; lui era più robusto, ma non era questo il punto. Il punto era che io avevo raggiunto il mio scopo, avevo conservato la dignità, non avevo ceduto nemmeno un passo e mi ero pubblicamente posto su piede di parità sociale con lui. Tornai verso casa perfettamente vendicato di tutto. Ero in preda all’entusiasmo. Ero trionfante, e cantavo delle arie italiane» [1].

Il secondo episodio riguarda l’uomo-topo ed alcuni suoi vecchi compagni di scuola. Spinto dal bisogno di un rapporto umano amichevole – gli capita di tanto in tanto, soprattutto dopo essersi abbandonato alle sue sfrenate e ridicole fantasticherie, che seguono sempre una caduta nel fango -, il protagonista va a trovare Simonov, in compagnia di altri due compagni di scuola, Ferfičkin, acerrimo nemico dell’uomo-topo fin dalle classi inferiori, e Trudoljubov. I tre organizzano un pranzo d’addio per un altro loro compagno, Zverkov. Il protagonista, che pure non ha nessun legame particolare con questi, decide di partecipare al pranzo, senza che Simonov, Ferfičkin e Trudoljubov lo abbiamo neppure preso in considerazione. All’uomo-topo proporsi così, all’improvviso, per un solenne pranzo d’addio in onore di un uomo che non vede da anni, sembra bello. Non ai suoi compagni, che pure acconsentono, controvoglia. L’appuntamento è fissato per il giorno seguente, alle sei, all’Hôtel de Paris. Come scrive Nabokov, «Dostoevskij aveva un talento meraviglioso per mescolare la commedia alla tragedia; lo si potrebbe definire uno straordinario umorista, di un umorismo sempre al limite dell’isteria, con personaggi che si feriscono a vicenda in un furioso scambio d’insulti» [2]. E all’Hôtel de Paris l’uomo-topo si rende protagonista di una lite memorabile. Sono pagine straordinarie, divertenti e al tempo stesso drammatiche. Dostoevskij ci fa ridere delle disgrazie di questo povero uomo colpevole però di andarsele a cercare, sempre.

«E ditemi-i-i, voi… siete al dicastero, sì?» continuò ad occuparsi di me Zverkov. Vedendo che ero confuso, doveva essersi immaginato sul serio che io avessi bisogno di gentilezza e di venir, diciamo così, rincuorato. “Ma che vuole, dunque? Che gli tiri una bottiglia in testa?” pensai io, infuriato. Per mancanza d’abitudine finivo sempre per irritarmi con una rapidità in un certo qual modo innaturale.
«A… la cancelleria» risposi io, parlando come a sbalzi, come se non riuscissi a pronunciare di seguito una frase intera. E intanto tenevo lo sguardo rivolto verso il piatto.
«E… vv’è convenu-uto? Diitemi, ma che cosa v’ha spinto a lasciar l’impiego che avevate priima?»
«Mi ha spi-i-into che mi era venuta voglia di lasciarlo, quell’impiego, ecco tutto – risposi io, strascicando la voce il triplo di quel che faceva lui; non riuscivo quasi più a dominarmi. Ferfičkin sbuffò dal naso, indignato. Simonov mi guardò ironicamente; Trudoljubov smise di masticare e prese a osservarmi con curiosità.
Zverkov provò evidentemente un senso di disgusto, ma decise di non accorgersi della cosa.
«Eeee… e la vostra sostanza, com’è?»
«Che sostanza?»
«Intendo looo… stipendio.»
«Ma che mi state facendo, un interrogatorio?»
D’altronde glielo dissi, quel che prendevo di stipendio. E arrossii tremendamente.
«Non è molto» osservò Zverkov con aria d’importanza.
«Ah sì, con uno stipendio così non ce li si può permettere i pranzi ai café-restoran!» soggiunse insolentemente Ferfičkin.
«Secondo me, una cifra così è semplicemente da miseria» osservò serio Trudoljubov.
«E come siete dimagrito, quanto siete cambiato… da allora…» soggiunse Zverkov, e non senza veleno, esaminando intanto con gli occhi sia me che il mio abito con una sorta di spudorato compatimento.
«Via, smettetela di confonderlo così» gridellò Ferfičkin, ridacchiando.
«Sappiate, egregio signore, che io non mi sto confondendo proprio per niente» scoppiai io, finalmente «capito? Io sto pranzando qua, in un café-restoran, e con i soldi miei, miei, e non con quelli degli altri, notatelo bene, monsieur Ferfičkin.»
«Macco-ome! E chi non sta pranzando coi soldi propri, qua? Non vorrete mica…» s’aggranfiò Ferfičkin a quelle mie parole arrossendo tutto come un gambero e guardandomi negli occhi furibondo.
«Così: ecco “co-ome”» risposi io, sentendo tuttavia che ero andato troppo oltre «e presumo sia meglio occuparci di argomenti più intelligenti.»
«Ah, a quanto pare avete intenzione di darci ancora prove della vostra intelligenza?»
«Non preoccupatevi, qui sarebbe assolutamente superfluo.»
«Sentite un po’, signor mio, com’è che vi siete messo a chiocciare così, adesso, eh? Non vi avrà mica dato di volta il cervello, in quel vostro lipartimento?»
«Basta, signori, basta!» gridò onnipotentemente Zverkov.
«Quant’è stupido tutto ciò!» bofonchiò Simonov.
«Proprio così, è stupido, ci siamo riuniti qua in questa cordiale compagnia per festeggiare il voyage del nostro buon amico, e voi invece vi mettete a regolare dei vecchi conti» prese a dire Trudoljubov, rivolgendosi in tono grossolano a me soltanto. «Ieri voi vi siete autoinvitato, e dunque cercate di non rovinare l’armonia generale…» […]
Tutti mi avevano abbandonato, e io me ne stavo lì, abbattuto e annientato.
“Signoriddio, e sarebbe questa la mia società!” pensavo io “E che figura d’imbecille ho appena fatto dinanzi a tutti loro! […]
Ma che ci sto a fare qua! Dovrei alzarmi da tavola subito, in quest’istante, e pigliare il cappello e andarmene, così semplicemente, senza dir nemmeno una parola… Per disprezzo! E domani magari una sfida a duello. Mascalzoni. Come se m’importasse dei miei sette rubli! Già, e poi magari penseranno… Oh, vadano al diavolo! Mica mi spiace dei sette rubli! Adesso me ne vado, in quest’istante!…”
Ovviamente rimasi.
Dal dispiacere bevetti Lafitte e Xeres un bicchiere via l’altro. Per mancanza d’abitudine mi stavo ubriacando rapidamente, e insieme all’ubriacatura cresceva la stizza. Improvvisamente mi venne una gran voglia di offenderli tutti quanti nel modo più sfrontato, per poi andarmene subito. Dovevo cogliere il momento buono e far vedere chi ero; e poi che dicessero pure: eh sì, è ridicolo – però è intelligente… e… e… in una parola, che se ne andassero al diavolo! […]
«Come, e voi non bevete proprio?» ringhiò Trudoljubov, avendo ormai perso la pazienza e rivolgendosi a me con aria torva. […]
«Signor tenente Zverkov» cominciai io «sappiamo bene che io odio le frasi, i fraseurs e le belle cinture intorno alla vita… Questo è il punto primo, al quale fa seguito un secondo punto.»
Tutti si mossero, molto.
«Secondo punto: odio le fragolette e i fragolieri, e soprattutto i fragolieri.»
«Terzo punto: amo la verità, la sincerità e l’onestà» proseguii quasi macchinalmente, giacché cominciavo già a raggricciarmi tutto dal terrore, non riuscendo a capire come potessi parlare a quel modo… «Io amo il pensiero, messié Zverkov; io amo il cameratismo vero, quello in cui si è tutti alla pari, e non… mhm… Io amo… Ma che sto dicendo? Io pure bevo alla vostra salute, messié Zverkov. Seducete le circasse, sparate sui nemici della patria e… e… Alla vostra salute, messié Zverkov!»
Zverkov si alzò dalla sedia, mi fece un inchino e disse:
«Grazie tante.»
Era tremendamente offeso, era perfino impallidito.
«Al diavolo» ruggì Trudoljubov, picchiando il pugno sulla tavola.
«Ah no, ah no, per cose così li si dà sul muso, i pugni!» strillò Ferfičkin.
«Bisogna cacciarlo via!» bofonchiò Simonov.
«Non una parola, signori, non un gesto!», gridò trionfante Zverkov, fermano l’indignazione generale. «Vi ringrazio tutti, ma saprò dimostrargli io stesso quanto stimi le sue parole.»
«Signor Ferfičkin, domani stesso voi mi darete soddisfazione per quel che avete detto ora!» dissi io, a voce alta, volgendomi verso Ferfičkin con aria di importanza.
«Cioè un duello? Come volete» rispose quello, ma dovevo essere sicuramente tanto ridicolo facendo quella mia sfida, e tanto poco essa si conveniva alla mia persona, che tutti quanti e con loro anche Ferfičkin si ritolarono subito dalle risa.
«Ma sì, ma sì, lasciamolo perdere! Non vedete che è ubriaco fradicio!» profferì con ripugnanza Trudoljubov. […]
Ero tanto spossato dal dolore, tanto estenuato che mi sarei persino scannato, pur di farla finita! Avevo la febbre alta; i capelli fradici di sudore mi si erano incollati alla fronte e alle tempie.
«Zverkov! io vi chiedo perdono» dissi, duro e deciso «e anche a voi, Ferfičkin, e a tutti, a tutti, io vi ho offesi tutti!»
«Ehilà! Da voi il duello non è di casa, eh?» sfrigolò velenosamente Ferfičkin.
Sentii male al cuore come se mi ci avesse dato un colpo di rasoio.
«No, non è del duello che ho paura, Ferfičkin! Son pronto a battermi con voi domani stesso, anche dopo una riconciliazione. Anzi lo esigo addirittura, e voi non non me lo potete rifiutare. Voglio dimostrarvi che il duello non mi fa paura. Voi sparerete per primo, e io sparerò in aria.»
Erano tutti rossi in faccia; a tutti luccicavano gli occhi; avevano bevuto molto.
«Io chiedo la vostra amicizia, Zverkov, io vi ho offeso, ma…»
«Offeso? V-voi! Mmmme? Sappiate bene, egregio signore, che voi mai e in nessuna circostanza potrete offendere me
«E adesso basta, via!», convalidò Trudoljubov. «Andiamocene!» […]
Io me ne stavo lì, sputacchiato. La ciurmaglia intanto uscì rumorosamente dalla stanza, e Trudoljubov intonò una qualche stupida canzone. […]
Disordine, avanzi di cibo, un bicchierino rotto sul pavimento, macchie di vino, mozziconi di sigaretta, l’ubriachezza e il delirio dentro la testa, un’angoscia tormentosa nel cuore e, infine, un lacchè, che aveva veduto e sentito tutto e che mi guardava negli occhi con curiosità.
«Là!» gridai io. «O si metteranno tutti quanti in ginocchio ad abbracciarmi i piedi e a supplicare la mia amicizia, oppure… oppure darò uno schiaffo a Zverkov!» [3]

«Là» è una casa chiusa. Quando l’uomo-topo vi giunge, i compagni di scuola sono già andati via. Qui il protagonista incontra la prostituta Lisa, «sorella carnale di Sonja» [4], la splendida Sonja di Delitto e castigo. Dopo il rapporto l’uomo-topo veste i panni del moralista e getta addosso a Lisa tutta la sua miseria. Il suo è uno sproloquio che per noi è difficile prendere sul serio, e che nella donna causa una vera e propria crisi di nervi. L’uomo-topo, costruitosi sui libri, disabituato alla realtà, non ha tatto, non ha sensibilità, soprattutto con i più deboli e con quei pochi che gli fanno la grazia di volergli bene.

«No, mai, mai prima d’allora ero stato testimone d’una tale disperazione! Lei giaceva prona, con il viso premuto forte nel guanciale e con entrambe le braccia strette al guanciale stesso. Il petto era lì lì per scoppiarle. Tutto il suo giovane corpo sussultava, come fosse stato in preda alle convulsioni. I singhiozzi che le pressavano il petto la stavano soffocando, lacerando, e tutto a un tratto esplosero fuori in forma di urli e gridi. Allora si strinse ancor più forte a quel cuscino: non voleva che nessuno, lì dentro, nessun’anima viva sapesse di quel suo strazio e di quelle sue lacrime. Mordeva il cuscino, si morse anche la mano, e a sangue (me ne accorsi poi); oppure s’aggranfiava con le dita alle sue trecce disfatte, ed era lì lì per venir meno dallo sforzo di non farsi sentire, trattenendo il respiro e stringendo forte i denti» [5].

Eppure le parole dell’uomo-topo fanno un certo effetto su Lisa. E lui, prima di andare via, le lascia il suo indirizzo, pentendosene subito dopo. Il protagonista trascorre diversi giorni in preda all’agitazione, spera che la donna non lo vada a trovare, provando vergogna soprattutto per il suo stato miserevole e perdendosi tuttavia nelle solite, ridicole fantasticherie.

«[…] e talvolta cominciavo addirittura a fantasticare, e anche abbastanza dolcemente: ecco, per esempio io salvo Lisa, appunto perché lei viene a trovarmi e io le parlo… La educo, sviluppo le sue doti. Poi finalmente m’accorgo che mi ama, che mi ama appassionatamente. Io fingo di non capire (perché poi dovessi fingere non lo so proprio: probabilmente così, per bellezza). E finalmente lei, tutta sconvolta, bellissima, tremando e singhiozzando, mi si getta ai piedi e dice che io sono il suo salvatore e che mi ama più di tutto al mondo. Io rimango sbalordito, ma… “Lisa” le dico “possibile che tu pensi ch’io non l’abbia notato, il tuo amore? Vedevo tutto, intuivo, ma non ho osato essere io il primo a porre delle pretese al tuo cuore, giacché avevo dell’influenza su di te e temevo che tu, per la gratitudine che mi portavi, avresti potuto costringere te stessa a corrispondere all’amore mio; che avresti potuto costringere te stessa a corrispondere all’amore mio; che avresti potuto destare a forza in te stessa un sentimento che forse non c’era… e io non avrei voluto che fosse così, perché sarebbe stato… un dispotismo… Sarebbe stata una cosa indelicata (insomma, a farla breve, qui m’andavo a invischiare in qualcuna di quelle sottigliezze all’europea, georgesandesche, inesplicabilmente nobili…). Ma adesso, adesso tu sei mia, tu sei una mia creazione, sei pura, bellissima, tu sei la mia sposa bellissima.

E in casa mia, in libertà e audace,
Entra, orsù, da autentica padrona!”

Dopodiché cominciavamo a vivere felici e contenti, partivamo per l’estero ecc. ecc. Insomma, a farla breve, mi facevo un effetto veramente meschino e finivo per mostrare la lingua a me stesso» [6].

Ed ecco che i timori dell’uomo-topo si concretizzano. Lisa irrompe nel suo appartamento – che egli stesso definisce rifugio, guscio, astuccio nel quale celarsi al resto dell’umanità -, e proprio nel “bel” mezzo di una feroce discussione con Apollon, il servo, «ulcera» e «flagello». Ciò non fa che irritare ancora di più il protagonista, che si scaglia con veemenza contro la donna, colpevole di aver riposto la propria fiducia, la propria speranza – il solo bene che le resta – nella persona sbagliata. Cinico, cattivo, l’uomo-topo grida in faccia a Lisa, tramortita: «Mi avevano umiliato, e così volevo umiliare anch’io qualcuno; mi avevano trattato come uno straccio, e così m’era venuta voglia di mostrare anch’io il mio potere… Ecco cos’è stato; e tu invece sarai andata a pensare che io fossi arrivato là apposta per salvare te, eh? È questo che hai pensato? È questo che hai pensato?» [7].

E Lisa, la povera Lisa, come reagisce a una tale ingiustificata ferocia? Lisa, nella sua sensibilità femminile, che non serba rancore verso l’uomo nelle cui mani ha riposto il proprio destino, foss’anche un uomo-topo, Lisa, creatura evangelica, sfiorata dalla santità come la sua sorella minore Sonja, comprende tutta l’infelicità che grava sul protagonista e si lancia verso di lui: lo abbraccia. A tal proposito, scrive giustamente Igor Sibaldi: «In quell’abbraccio e nel semplice, assoluto amore di lei, lo “smascheramento” recitato fino a quel momento dal protagonista diviene tutto a un tratto reale. Non è più soltanto una confessione dell'”uomo del sottosuolo” – inevitabilmente infida e a doppio taglio, come tutto ciò che egli dice -, non è più un disperante sforzo di giocare a nascondino tra le antitesi: è il crollo, improvviso, totale, di tutto l’edificio di idee, maschere e fantasmi che egli si era andato costruendo nei “suoi quarant’anni”. È la liberazione: semplice e immediata e mite come l'”uomo del sottosuolo” non era mai riuscito a immaginare. E non per nulla la reazione istintiva di lui è la paura e il bisogno di vendetta. […] il gesto di lei è per l'”uomo del sottosuolo” qualcosa di autenticamente terribile, è la fine di tutto il suo essere, che in quell’attimo si trova dinanzi e rischia di aprirsi a una dimensione del tutto nuova e vertiginosa. È il potentissimo istinto di conservazione della “superfluità” a spingerlo a offendere e a distruggere sia lei, sia ciò che grazie a lei gli si è improvvisamente rivelato: l’abbagliante incontrovertibile possibilità di tutto “il bello e il sublime” che da quarant’anni popolava i suoi sogni» [8].

Come Orfeo, proprio a un passo dalla realizzazione del suo sogno di felicità, si volta e distrugge per sempre Euridice, l’uomo-topo distrugge Lisa. E il modo in cui lo fa è un capolavoro di scelleratezza, di insensibilità, di crudeltà: lei se ne va, lui la rincorre, le afferra la mano, la apre e vi pone del denaro. Un terremoto provoca meno danni. Terminano così le Memorie dell’uomo-topo, vigliacco prima di tutto, incapace di assumersi delle responsabilità, avvoltolato in se stesso e nei suoi libri, egoista oltre ogni immaginazione, carnefice di colei che sola era disposta ad amarlo.

NOTE

[1] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014, p. 80.

[2] Vladimir Nabokov, Postfazione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., pp. 185-186.

[3] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., pp. 104-113.

[4] Vladimir Nabokov, Postfazione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 190.

[5] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 141.

[6] Ivi, pp. 150-151. Corsivo mio.

[7] Ivi, p. 163.

[8] Igor Sibaldi, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., pp. XIV-XV.

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