Nel vasto e ricchissimo itinerario dostoevskiano le Memorie dal sottosuolo, pubblicate a partire dal 1864, sono una tappa fondamentale, decisiva. Il protagonista infatti, l’esasperato ed esasperante uomo-topo, è il primo di quella lunga serie di personaggi indimenticabili che caratterizzeranno i successivi grandi romanzi dello scrittore russo. Egli è il modello a cui Dostoevskij si ispirerà nella creazione dei vari Raskol’nikov, Myškin, Stavrogin, Ivan Karamazov. In un certo senso, queste figure rappresenteranno degli sviluppi, delle evoluzioni, in direzioni diverse, del loro progenitore. Ma anche a livello tematico le Memorie dal sottosuolo rappresentano un momento «fatalmente importante per tutto il complesso dell’opera dostoevskiana» [1]. Sono infatti il primo prodotto di quella ricerca, di quello scandaglio nella parte più oscura e meno visibile – più spaventosa – dell’animo umano che caratterizza la produzione di Dostoevskij dopo l’arresto e la prigionia in Siberia. Queste Memorie fatali, eccezionalmente importanti per tutta la letteratura ad esse successiva (da Kafka fino a Sartre, che Nabokov, nelle Lezioni di letteratura russa, definisce senza mezzi termini mediocre imitatore di Dostoevskij [2]), sono un libro nero, a tratti claustrofobico, persino più nero e claustrofobico dei Demoni, perché più concentrato.
Rintanato in una stamberga al limite estremo di Pietroburgo, «la città più astratta e più premeditata di tutto il globo terrestre» [3] (in perfetta coincidenza con l’astrattezza e, soprattutto, la premeditazione del protagonista), mentre fuori cade «una neve bagnata, gialla, torbida» [4] (vero e proprio simbolo fisico delle amarezze e dei misfatti, delle illusioni e delle turbe psichiche del protagonista), una neve malsana, una neve malata, che rende scivolose, fangose, ostili le vie pietroburghesi, l’uomo del sottosuolo, o meglio, l’uomo-topo (perché, ricorda Nabokov, il titolo non significa solo «Memorie dal sottosuolo», ma anche «Memorie da una tana per topi» [5]) scrive le proprie memorie, in un impeto di autopunizione, di autoflagellazione, di autoumiliazione – tutto condito da una buona dose di masochismo – che è uno dei suoi tratti principali, se non il tratto principale in assoluto.
In questo libro straordinario (in cui il lettore si sente tremare dalla testa ai piedi quando scopre di avere degli aspetti in comune con il protagonista, e tutti, chi più chi meno – la portata non fa differenza – abbiamo aspetti in comune con lui) Dostoevskij realizza il ritratto dell’uomo che ha costruito se stesso a partire dalla letteratura, in particolar modo la letteratura romantica, impregnata di bello e di sublime; valori che, con grande autoironia, il protagonista non manca di mettere in ridicolo. Un uomo siffatto è certo colto, intelligente, ma anche, e soprattutto, disilluso, continuamente in trincea contro il mondo e, inevitabilmente, contro se stesso. Consapevole della propria inadeguatezza, della propria irrealtà, vorrebbe agire nobilmente, come la letteratura sulla quale si è fondato prescrive, ma si ritrova immancabilmente a precipitare nella melma, e a provare un macabro godimento in queste sue frequenti e abiette cadute. Un’esistenza di questo tipo (di cui, purtroppo, detto per inciso, so qualcosa, e anche voi scommetto, per quanto vi sforziate di illudervi del contrario) è una quotidiana tortura, che avrà fine solo con la morte. Non c’è altra cura a questa vita malata.
Le Memorie si compongono di due parti. La prima, intitolata Il sottosuolo, funge da apparato teorico, filosofico, in cui il protagonista espone la propria visione del mondo. L’uomo-topo polemizza, innanzitutto con se stesso (non si perdona mai, giustamente), poi con la propria epoca e con gli uomini che la vivono. È un uno contro tutti, dove il protagonista, al tempo stesso, denuda se stesso e la società che gli è capitata in sorte, basata, tra le altre cose, sulla sciocca logica del due per due quattro (in base alla quale crede di poter sistematizzare tutto), e di cui egli si sforza di mostrarne i limiti e le contraddizioni. In questo pamphlet d’una cinquantina di pagine, in cui si mostra tutta l’abilità di Dostoevskij di creare non solo un personaggio letterario, ma un uomo totale, molto più uomo di tanti uomini reali, tra l’ironia e l’amarezza, spiccano particolari passi in cui l’uomo-topo dimostra di possedere, di tanto in tanto, quando è meno astratto e premeditato del solito, una capacità d’indagine dell’animo umano davvero rara. In questi casi le sue riflessioni volgono dal particolare all’universale, elevandosi addirittura al grado di verità assolute. Eccone un esempio:
«Cospargetelo di tutti i beni del mondo, sprofondatelo nella felicità finché non gli arrivi fin sopra la testa, così che non se ne veda più se non qualche bollicina sulla superficie della felicità, come fosse la superficie dell’acqua; dategli una tale tranquillità economica che non gli rimanga proprio nient’altro da fare se non dormire, mangiare pasticcini e adoperarsi perché la storia universale non finisca: bene, anche così l’uomo, da quel bel tipo che è, e unicamente per ingratitudine, unicamente per farvi una pasquinata vi combinerà qualche porcheria. Metterà a repentaglio persino i suoi pasticcini, e a bella posta desidererà le più rovinose sciocchezze, la più antieconomica delle assurdità, all’unico scopo di poter mescolare a tutta questa positiva ragionevolezza il proprio rovinoso elemento fantastico» [6].
In conclusione di questa prima parte, l’uomo-topo spiega le – presunte – ragioni che lo portano a scrivere: 1) essere schietto con se stesso; 2) la scrittura conferisce una certa solennità; 3) per provare sollievo; 4) per avere un impiego, perché a quarant’anni il protagonista, grazie ad una modesta eredità, ha potuto smettere di lavorare e rinchiudersi nella sua tana (una fortuna questa non da poco). Dopo questa precisazione, da prendere con le pinze, poiché, qualche pagina prima, l’uomo-topo aveva dichiarato di non credere ad una sola sua parola (è fatto così, dice e si disdice, continuamente; la contraddizione, che nasce dall’impossibilità di conciliare letteratura e realtà, è la sua cifra), inizia la seconda parte delle Memorie, intitolata A proposito della neve bagnata, la parte narrativa, in cui il protagonista rievoca alcuni episodi della sua turbolenta giovinezza: «A quel tempo non avevo che ventiquattro anni. E già allora la mia vita era tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno, evitavo persino di parlare con la gente e mi rannicchiavo sempre di più nel mio cantuccio» [7]. Parole simili non promettono niente di bello, e infatti, da qui alla fine del libro tutto sarà meravigliosamente brutto.
NOTE
[1] Igor Sibaldi, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014, p. XIII.
[2] Vladimir Nabokov, Postfazione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 178.
[3] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 10.
[4] Ivi, p. 60.
[5] Vladimir Nabokov, Postfazione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 175.
[6] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 46.
[7] Ivi, p. 63.