Introduzione
In una lettera del 27 giugno 1584 indirizzata all’amico Curzio Ardizio, che lo esortava a comporre «alcune stanze sovra la corte» [1], Torquato Tasso, dopo un iniziale assenso evidentemente verbale, decide di tirarsi indietro, «poiché non solo l’affetto de l’animo, ma la ragione ancora mi dissuade da lo scrivere in biasimo de la corte» [2]. Il poeta motiva tale rifiuto spiegando che «per mia inclinazione, eleggerei più tosto di lodare i principi con alcuna adulazione, che di biasimarli con molta acerbità» [3], sebbene «de le corti c’or fioriscono, e de’ principi c’or vivono, io non sia interamente sodisfatto» [4].
Tuttavia, quello della corte è un argomento che sta particolarmente a cuore a Tasso, e nella lettera del 28 giugno assicura all’amico che «Pur di queste cose scriverò, se piace al Signor Iddio, più squisitamente nel luogo proprio» [5]. Tasso abbandona il genere epistolare, ricorre alla finzione letteraria, e nasce così il dialogo Il Malpiglio overo de la corte, iniziato proprio alla fine del giugno 1584 e terminato all’inizio dell’anno successivo, come risulta da una lettera del poeta, datata primo febbraio 1585, a don Angelo Grillo [6].
Il dialogo presenta tre interlocutori: Tasso stesso, celato dietro lo pseudonimo di «Forestiero Napolitano» – mascheramento preventivo e protettivo davvero significativo -, il cortigiano estense Vincenzo Malpigli e suo figlio Giovanlorenzo, desideroso di intraprendere la carriera paterna. Ed è proprio questa aspirazione del giovane a fornire l’occasione del colloquio.
Ora, visto l’argomento, il dialogo non può che trarre spunto dal Libro del Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione, vero e proprio «architesto» che «costituisce la grammatica fondamentale della società di corte», e non solo fino alla Rivoluzione francese, ma addirittura oltre, «con gli opportuni adattamenti al nuovo ordine borghese» [7]. Il legame profondo tra Il Malpiglio e il Cortegiano è dichiarato sin dalle prime battute del dialogo tassiano. Vincenzo Malpigli garantisce infatti che il figlio «ha letto il Cortigiano del Castiglione e lo ha quasi a mente, e forse meglio che l’Epistole di Cicerone o le Comedie di Terenzio» [8]. Rilevante è l’equiparazione del testo castiglionesco ad opere di due autori la cui lettura e conoscenza era ritenuta fondamentale da tutti i trattatisti dell’epoca. A Vincenzo Malpigli fa eco il Forestiero: «la bellezza de’ suoi scritti merita che da tutte l’età sia letta e da tutte lodata; e mentre dureranno le corti, mentre i principi, le donne e i cavalieri insieme si raccoglieranno, mentre valore e cortesia avranno albergo ne gli animi nostri, sarà in pregio il nome del Castiglione» [9].
Tasso stesso dunque ci tiene a sottolineare l’intima relazione esistente tra i due testi. Una relazione fatta di numerose analogie, ma anche di alcune significative differenze, tra le quali spicca quella riguardante la vocazione pedagogica del cortigiano nei confronti del proprio principe, che costituisce per Castiglione il fine del gentiluomo. In Tasso invece, come vedremo, tale vocazione viene sacrificata in nome della sopravvivenza del cortigiano all’interno della corte.
Dalla vocazione pedagogica alla sopravvivenza
Dopo la “canonizzazione” di Castiglione e della sua opera fondamentale e fondante, il dialogo tassiano entra nel vivo. Giovanlorenzo Malpigli vorrebbe «spezialmente sapere come s’acquisti la grazia de’ principi e come si schivi l’invidia e la malivoglienza de’ cortigiani» [10]. Una richiesta non certo «picciola», perché, come sostiene il Forestiero, «ne la grazia del principe e ne la benevoglienza de i cortigiani tutte l’altre cose paiono essere contenute» [11]. È questo dunque il punto centrale, la questione su cui verte tutto Il Malpiglio, tanto più che, dichiara sempre il Forestiero, «Quelle cose medesime […] le quali acquistan la benevoglienza de’ principi, generan l’invidia cortigiana» [12]. È dunque impossibile evitare l’invidia, essa è parte integrante della vita di corte, ne è una condizione, ed è proprio a partire da questa amara constatazione che il Forestiero-Tasso realizza il suo ritratto del cortigiano, impostando il discorso innanzitutto sulle virtù.
Incalzato dalle domande del Forestiero, quasi volesse metterlo alla prova, verificarne la preparazione, Giovanlorenzo Malpigli individua nella fortezza la «virtù suprema del cortigiano» [13]. Il Forestiero ricorda però che «la fortezza […] per difetto di prudenza è precipitata molte volte in casi molti pericolosi» [14]. La fortezza dunque ha «bisogno di guida e di freno e di chi la regga e l’indrizzi: e questa è la prudenza, senza cui la fortezza è cieca o temeraria, o più tosto non è vera fortezza» [15]. Da ciò deriva che, in quanto «scorta de la fortezza» [16], la prudenza «è più nobil virtù» [17]. Inoltre essa non è necessaria solo al cortigiano, ma anche al principe, in quanto la prudenza «in comparazione de l’altre virtù è quasi architetto per rispetto degli operari» [18].
Nello specifico, la prudenza del cortigiano consiste «ne l’essercitare i comandamenti del principe» [19], perché «l’inferiorità manifestata ne la propria ubidienza e ne l’umiltà di non contradire è quella che fa grato al principe il cortigiano» [20]. È proprio in queste fondamentali parole del Forestiero Napolitano che si sancisce la massima differenza tra l’«architesto» castiglionesco e il dialogo tassiano. Soprattutto in relazione a un passo in particolare del Cortegiano, quello in cui Castiglione, al principio del discusso quarto e ultimo libro, per bocca di Ottaviano Fregoso, enuncia il fine del «perfetto cortegiano».
«Il fin dunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtù; e così avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d’ingegno e piacevolezza e con la prudenzia e notizia di lettere e di tante altre cose, saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall’altre virtù che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l’altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, così lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente in due cose, delle quali l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato, certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ‘l suo principe non sia d’alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ‘l male ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine» [21].
Il passaggio dall’«ardisca di contradirgli» castiglionesco all’«umiltà di non contradire» tassiana, evidenzia tutta la chilometrica distanza che separa i due autori e i loro rispettivi cortigiani [22].
Sia Castiglione che Tasso non hanno una grande considerazione dei principi – «poiché oggidì i prìncipi son tanto corrotti dalle male consuetudini e dalla ignoranza e falsa persuasione di se stessi» [23], scrive il primo, «benché de le corti c’or fioriscono, e de’ principi c’or vivono, io non sia interamente sodisfatto» [24], scrive il secondo -, ma opposta, diametralmente opposta è la loro reazione. Castiglione affida al suo cortigiano «perfetto» una funzione pedagogica, tanto da arrivare a proclamare, nel prosieguo del quarto libro, «che ‘l divenir institutor del principe fosse il fin del cortegiano» [25], Tasso invece invita a mettere da parte questa insoddisfazione, a celarla, occultarla – nell’impossibilità di reprimerla – con lo scopo di garantirsi innanzitutto la sopravvivenza nella corte. Segno questo dell’irreversibile, e spesso degradante, mutazione storica che investe le corti nel corso del XVI secolo e che Tasso vive in prima persona, sulla propria pelle.
In Castiglione c’è l’idea che la «manera e ‘l regnare come si dee» sia «tra tutte le cose umane […] la maggiore e la più rara», ed è obbligo del cortigiano agire proprio in questa direzione, educando il principe, là dove è necessario, perché il buon governo da solo basta a donare la felicità e a riportare addirittura nel mondo la mitica età dell’oro [26]. In Tasso questo utopico slancio politico, dunque collettivo, è del tutto assente. Egli vede il cortigiano in una dimensione che potremmo definire, fin troppo arditamente forse, esistenzialista, nella quale la propria sopravvivenza, la propria salvaguardia, in un ambiente in cui regna l’invidia, viene prima di tutto il resto. Tasso non appartiene più a quella cultura rinascimentale alla quale apparteneva Castiglione, e che crede nelle idee di perfezione e perfettibilità dell’uomo, ma appartiene piuttosto alla cultura barocca del sospetto e della cautela [27].
Solo «occultando», dichiara ancora il Forestiero, «il cortigiano schiva la noia del principe, e occultando ancora par ch’egli possa celarsi da l’invidia cortigiana» [28]. E si torna di nuovo alla prudenza – che sta alla base di tutto e incornicia, per così dire, quell’«umiltà di non contradire» – «virtù che supera ne le corti tutte le difficultà», «virtù maggiore», che «è lume e guida e quasi imperatrice» di tutte le altre [29].
A questo punto il Forestiero compie un ulteriore passo, straordinariamente significativo e moderno, giungendo a definire il simulare «virtù di corte» [30]. Anche il Cortegiano è segnato dalla simulazione, anzi, la simulazione sta alla base del modello fornito da Castiglione. Essa infatti costituisce quella «regula universalissima» enunciata nel primo libro.
«[…] avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché dalle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima meraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» [31].
La simulazione teorizzata e raccomandata da Tasso, che, lo ricordo ancora una volta, inserisce tra le virtù cortigiane – un passaggio questo di fondamentale importanza -, è di tutt’altro genere, finalizzata, di nuovo, alla sopravvivenza nella corte, ed è piuttosto paragonabile a quella attuata qualche anno dopo da Giordano Bruno nel processo che lo porterà comunque al rogo.
Conclusione
Il dialogo Il Malpiglio nasce dalla lucida e a tratti dolorosa consapevolezza di Torquato Tasso dell’involuzione della corte rispetto al modello ideale fornito da Castiglione. I tempi sono cambiati, Tasso lo sa, lo ha provato in prima persona, e allora decide di fornire il proprio ritratto del cortigiano, più aderente alla propria epoca. Il dialogo tassiano, basato comunque, verrebbe da dire inevitabilmente, sull’«architesto» castiglionesco, si configura così come una sorta di appendice modernizzante del Cortegiano. E a riconoscere l’utilità, o meglio, la necessità del lavoro di Tasso, sotto le mentite spoglie del Forestiero Napolitano, è il primo destinatario di questi nuovi insegnamenti, il giovane aspirante cortigiano Giovanlorenzo Malpigli, quando dichiara, con un certo entusiasmo:
«Io veggio non solo il disegno, ma l’imagine del cortigiano e ‘l ritratto già colorito. E se l’altro del Castiglione fu per quella età ne la qual fu scritto, assai caro dovrà essere il vostro in questi tempi, in cui l’infinger è una de le maggiori virtù» [32].
NOTE
[1] Torquato Tasso, Le lettere disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, Le Monnier, Firenze 1854, II, p. 278.
[2] Ivi.
[3] Ivi.
[4] Ivi, p. 280.
[5] Ivi, p. 288.
[6] Ivi, p. 318.
[7] Amedeo Quondam, Introduzione a Baldassar Castiglione, Il libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 2000, pp. XXXVI-XXXVIII.
[8] Torquato Tasso, Dialoghi. Il Messaggiero, Il Padre di famiglia, Il Malpiglio, La Cavaletta, La Molza, a cura di Bruno Basile, Mursia Editore, Milano 1991, p. 164.
[9] Ivi.
[10] Ivi, p. 166.
[11] Ivi.
[12] Ivi, p. 168.
[13] Ivi, p. 171.
[14] Ivi, pp. 171-172.
[15] Ivi, p. 172.
[16] Ivi.
[17] Ivi.
[18] Ivi, p. 173.
[19] Ivi.
[20] Ivi.
[21] Baldassar Castiglione, Cortegiano, op. cit., pp. 368-369. Corsivo mio.
[22] Massimo Lucarelli, Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso, «Studi Tassiani», 2004, LII, pp. 16-17.
[23] Baldassar Castiglione, Cortegiano, op. cit., p. 373.
[24] Torquato Tasso, Lettere, op. cit., p. 280.
[25] Baldassar Castiglione, Cortegiano, op. cit., pp. 420-421.
[26] Ivi, p. 385.
[27] Dell’idea della perfezione Tasso, nel Messaggiero, per bocca del «gentile spirto», parla in termini estremamente ironici: «[…] s’alcuno è nel mondo che desideri d’essere perfetto, si ritiri ne le selve e ne le solitudini, e viva contemplando come le intelligenze ché eleggerà l’ottima parte […]». Torquato Tasso, Dialoghi, op. cit., p. 99.
[28] Ivi, p. 176.
[29] Ivi, pp. 176-177.
[30] Ivi, p. 177.
[31] Baldassar Castiglione, Cortegiano, op. cit., pp. 59-60.
[32] Torquato Tasso, Dialoghi, op. cit., p. 177.
In copertina: Eugène Delacroix, Tasso nello Spedale di Sant’Anna, 1839.