Il giuoco delle perle di vetro è l’ultimo romanzo di Hermann Hesse, il più faticoso, scritto nel corso di dodici anni, dal 1931 al 1943, durante il periodo più nero della storia del paese d’origine dello scrittore. Fatica e al tempo stesso sollievo, perché se il romanzo costringe Hesse a «riflettere e meditare […] mesi e mesi per scrivere una riga» [1], gli procura altresì «una boccata di aria respirabile in mezzo al gas velenoso» [2] sparso dal regime nazista.
Il giuoco delle perle di vetro affonda le proprie radici nell’attualità, ma, progressivamente, nel corso della lunga ed elaborata stesura, Hesse dalla drammatica attualità tende ad allontanarsi, ad estraniarsi, spostando l’attenzione dal particolare all’universale, «per rispondere – più che a problemi contingenti – ai problemi ultimi, ponendo, nella costruzione d’un regno dello spirito a servizio dell’umanità, l’unica possibile salvezza di fronte alla barbarie della violenza che in quegli anni sembrava voler distruggere il retaggio spirituale dell’umanità» [3]. Hesse dunque proietta il libro e se stesso «in un utopico futuro, per allontanarsi ancor più dal coinvolgimento nella contingenza politica del tempo» e creare così «un messaggio universale» [4].
Nel romanzo Hesse concentra tutti i temi filosofico-esistenziali a lui più cari. Uno su tutti: l’alternativa tra vita attiva e vita contemplativa, incarnata, ancora una volta, come già in Sotto la ruota, Demian, Siddharta, Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, da una coppia di amici, «il dotto cenobita e l’uomo di mondo» [5]. Nel Giuoco delle perle di vetro corrisponde al primo tipo il protagonista, Josef Knecht, e al secondo Plinio Designori.
Ci troviamo all’epoca della giovinezza di Knecht. Egli è allievo a Waldzell, la più piccola ed esclusiva delle scuole della Castalia. Qui conosce Plinio Designori, rampollo di un’illustre famiglia del paese, che frequenta la scuola come privatista.
«Ora dobbiamo occuparci un poco di quell’altro compagno che nella vita di Knecht a Waldzell ebbe una parte determinante, cioè del privatista Plinio Designori. Essendo privatista frequentava le scuole scelte come ospite, senza intenzione di fermarsi nella Provincia pedagogica e di entrare nell’Ordine. Di questi privatisti si trovava ogni tanto qualcuno, ma di rado, perché l’Autorità pedagogica non ha mai tenuto a educare giovani che terminato il periodo delle scuole intendessero ritornare nella casa paterna e nel mondo. Nel paese c’erano però alcune vecchie famiglie patrizie, molto benemerite della Castalia nei tempi della fondazione, nelle quali vigeva la costumanza, non ancora estinta nemmeno oggi, di far frequentare le scuole scelte da un loro figlio qualora avesse doti sufficienti: e per quelle poche famiglie tale diritto era diventato tradizionale. Ora, benché fossero sottomessi in ogni senso alle stesse norme degli altri allievi, i privatisti costituivano un’eccezione nella scolaresca già per il fatto che non si straniavano, come gli altri, ma andavano a passarvi tutte le vacanze e in mezzo ai condiscepoli rimanevano sempre ospiti e forestieri perché conservavano i costumi e la mentalità della loro origine. Li attendevano la casa paterna, la carriera mondana, la professione e il matrimonio e soltanto rarissime volte è capitato che qualcuno di quegli ospiti, preso dallo spirito della Provincia, finisse col rimanere in Castalia, consenziente la famiglia, ed entrasse nell’Ordine. Per contro, parecchi uomini di stato, ben noti nella storia del nostro paese, hanno frequentato da giovani quelle scuole come privatisti e ne hanno preso risolutamente le difese in epoche nelle quali, per qualche ragione, l’opinione pubblica criticava le scuole e l’Ordine» [6].
I privatisti non sono destinati all’Ordine, alla gerarchia castalia, ma alla carriera, al matrimonio, alla politica, alla vita reale. Ed è questa differenza sostanziale che Plinio evidenzia nei suoi discorsi ai compagni, discorsi ai quali partecipa, come ascoltatore, anche Josef, il quale finisce per subire il fascino del privatista e di quel mondo esterno del quale, nella scuola di Waldzell, egli è il portavoce. Di ciò Josef parla in una lettera al suo mentore, il Magister Musicae.
«”Non ho ancora compreso se Plinio spera di trovare in me un compagno di fede o soltanto un interlocutore. Spero in questa seconda alternativa, perché convertirmi alle sue concezioni significherebbe indurmi a infedeltà e a distruggere la mia vita che ha ormai radici nella Castalia; io non ho fuori né genitori né amici dai quali possa ritornare, se mi venisse davvero questo desiderio. Ma se anche i discorsi irrispettosi di Plinio non mirano affatto a una conversione e influenza, io mi trovo davanti ad essi in imbarazzo. Infatti, per essere del tutto sincero con lei, venerato Maestro, trovo nella mentalità di Plinio qualche cosa alla quale non posso rispondere semplicemente con un no, egli fa appello a una voce dentro di me che talvolta è molto disposta a dargli ragione. Suppongo sia la voce della natura che è decisamente in contrasto con la mia educazione e col nostro comune modo di vedere. Quando Plinio definisce i nostri maestri una casta sacerdotale e noi allievi un gregge castrato e guidato con le dande, usa, beninteso, vocaboli rudi ed eccessivi, ma può darsi che pur contengano alcunché di vero, altrimenti non potrebbero mettermi addosso questa inquietudine. Plinio sa dire cose molto gravi e scoraggianti, per esempio che il Giuoco delle perle sarebbe una ricaduta nell’epoca giornalistica, un giocherellare puro e semplice e senza alcuna responsabilità con le lettere nelle quali avremmo risolto i linguaggi delle diverse arti e scienze; che esso consiste tutto in associazioni, e giuoca soltanto con analogie. Oppure: una prova del nessun valore di tutta la nostra cultura e forma spirituale sarebbe la nostra rassegnata sterilità. Noi analizziamo, dice per esempio, le leggi e le tecniche di tutti gli stili e i periodi della musica, ma a nostra volta non produciamo alcuna musica nuova. Noi leggiamo e commentiamo, dice, Pindaro o Goethe e ci vergogniamo di far versi a nostra volta. Sono rimproveri dei quali non posso non ridere. E non sono neanche i peggiori, non sono quelli che più mi feriscono. Peggio è quando dice che noi di Castalia facciamo la vita di uccelli canori allevati artificialmente senza che si si guadagni il pane o si conosca la miseria e la lotta per la vita o si sappia o voglia sapere alcunché di quella parte dell’umano genere il cui lavoro e la cui povertà costituiscono il fondamento della nostra lussuosa esistenza”.
E la lettera terminava con queste parole: “Forse, reverendissimo, ho abusato della sua gentilezza e bontà e mi aspetto di essere da lei rimproverato. Mi rimproveri pure e mi imponga la penitenza, gliene sarò riconoscente. Ma ho estremo bisogno di un consiglio. Per un poco posso ancora sostenere l’attuale situazione. Non posso, invece, portarla a sviluppi veri e fecondi poiché mi sento troppo debole e inesperto e, ciò che è forse peggio, non posso confidarmi col direttore della nostra scuola, a meno che lei me lo ordini espressamente. L’ho incomodata al fine di esporle la cosa che per me incomincia a diventare una grave distretta”» [7].
Ecco dunque che si pone il tema, tipico nella produzione di Hesse, dell’alternativa tra vita attiva e vita contemplativa. Il Magister Musicae consiglia a Josef di coltivare l’amicizia con Plinio, ma, al tempo stesso, gli affida il compito di ergersi a difensore della Castalia. Tra i due amici iniziano così dispute dialettiche memorabili, alle quali assistono numerosi gli studenti di Waldzell. Ciò però non impedisce a Josef di provare una forte attrazione nei confronti di quella vita reale, attiva rappresentata da Plinio. Dentro di lui divampa un conflitto aspro, al quale pone fine il Magister Musicae iniziando l’allievo alla meditazione. E proprio grazie alla meditazione il giovane, tormentato Josef riesce a superare la crisi, e restare fedele all’ideale contemplativo e spirituale castalio.
Personalmente, reputo questa soluzione all’annoso problema piuttosto debole, una risposta davvero senile, corrispondente all’età dell’autore all’epoca della scrittura del suo ultimo romanzo. Penso soprattutto allo straordinario sviluppo che aveva avuto questo problema in Narciso e Boccadoro. Ecco, nel Giuoco delle perle di vetro, almeno fino a questo punto, Hesse non riesce a ritrovare quell’intensità caratteristica dei suoi precedenti libri.
Nel corso della sua brillante carriera, Josef Knecht scala via via varie posizioni nella gerarchia, fino a ricoprire la carica più alta, quella di Magister Ludi. Eppure, nonostante questi successi, dentro di lui resta vivo il fascino per quel mondo esterno, per quella vita reale, attiva. Con gioia scopriamo che la meditazione non è stata un antidoto, ma solo un anestetico, un sedativo alla tentazione mondana. Rispetto a molti altri castalii, se non tutti, Knecht, grazie anche allo studio della storia, bandita nella Castalia e scoperta grazie al benedettino padre Jacobus, di cui il Magister Ludi, prima di diventare tale, era stato allievo, durante una sua giovanile missione diplomatica, è perfettamente consapevole che la Castalia, in un modo o nell’altro, a quel mondo esterno deliberatamente ignorato, dato per scontato, è legata, e di esso è una parte, «sia pure la più preziosa e diletta».
«Le due fondamentali tendenze, ossia i poli di quella vita, lo Yin e lo Yang di essa, erano la tendenza alla conservazione, alla fedeltà e al disinteressato servizio sotto la gerarchia e, d’altra parte, la tendenza al “risveglio”, al progresso, alla conquista e alla comprensione della realtà. Per il credente e ossequiente Josef Knecht l’Ordine, la Castalia e il Giuoco delle perle erano cose sacre e di valore assoluto; per Knecht chiaroveggente, nell’atto del risveglio e del progresso erano, a parte il valore, forme divenute, conquistate, mutevoli, esposte al pericolo d’invecchiare, di decadere, di diventare sterili; mentre l’idea loro rimaneva sempre sacra e intangibile, lo stato contingente, invece, era caduco e meritevole di critica. Egli serviva una comunità spirituale della quale ammirava la forza e il significato, della quale però scorgeva il pericolo nella tendenza a considerarsi puramente fine a sé stessa, a dimenticare il proprio compito e la collaborazione con l’insieme del paese e del mondo e infine a perdersi in uno splendido isolamento, in un sempre più accentuato e sterile distacco dalla vita» [8].
Knecht si dimostra dunque conscio della caducità della Castalia, e ciò lo porta a prendere una decisione clamorosa, senza precedenti: dimettersi dalla carica di Magister Ludi e immergersi nel mondo. Hermann Hesse non delude mai, e questa straordinaria rinuncia del protagonista, rappresenta il suo ultimo afflato di giovinezza. Pensate: è come se un papa abbandonasse la Chiesa per fare il suo ingresso nel mondo come uomo comune, uguale a tutti gli altri, che non ricopre più nessuna carica e non ha più privilegi. Un gesto rivoluzionario.
Knecht scrive all’Autorità, proclama la propria rinuncia e ne spiega le ragioni. È un documento fondamentale, che costituisce il fulcro del Giuoco delle perle di vetro. Leggiamo alcuni dei passi più importanti:
«Uno dei doveri del Magister è quello di richiamare l’attenzione dell’Autorità quando il suo regolare ufficio incontri ostacoli o sia minacciato da pericoli. Ora il mio ufficio, benché io mi sforzi di dedicarvi tutte le mie energie, è (o mi sembra) minacciato da un pericolo che risiede nella mia persona, benché non abbia in essa la sua sola origine. Considero l’eventualità morale d’un affievolimento della mia personale attitudine al magistero del Giuoco delle perle come un pericolo oggettivo ed esistente fuori di me. Per dirla in breve, ho incominciato a dubitare della mia capacità di adempiere pienamente alle mie funzioni perché sono costretto a considerare minacciate le mie funzioni stesse, quel Giuoco delle perle di vetro che è stato commesso alle mie cure. Questo scritto mira a dimostrare all’Autorità che l’accennato pericolo esiste e che, scoperto, mi chiama insistentemente in un luogo diverso da quello che occupo. […]
Abbiamo la fortuna di vivere tranquilli in un mondo piccolo, pulito e sereno e la maggior parte di noi, per strano che possa sembrare, vive nella finzione che tale mondo esista ab aeterno e noi siamo nati in esso. Anch’io ho vissuto i miei giovani anni in questa piacevolissima illusione, mentre la realtà mi doveva pure esser nota, che cioè non ero nato in Castalia, ma vi ero stato mandato dalle Autorità e che la Castalia, l’Ordine, le scuole, gli archivi e il Giuoco delle perle di vetro non sono sempre esistiti né sono opera della natura, bensì una tarda e nobile creazione dell’umana volontà, transitoria come tutte le cose create. […]
Ma come vi sono stati secoli e millenni senza l’Ordine e senza la Castalia, così sarà di nuovo in avvenire. […]
Può darsi che l’odierno castalio manchi di obbedienza alle leggi dell’Ordine, di laboriosità, di spiritualità coltivata: ma non gli manca spesso anche la comprensione del suo posto nel popolo, nel mondo, nella storia universale? Possiede forse la coscienza dei fondamenti della sua vita, sa di essere foglia, fiore, ramo o radice di un organismo vivente? Ha idea dei sacrifici che il popolo fa per lui nutrendolo, vestendolo, offrendogli la possibilità di istruirsi e di dedicarsi ai suoi vari studi? E si preoccupa forse di capire il significato di questa nostra esistenza eccezionale? Possiede un vero concetto dei fini dell’Ordine e della nostra vita? Pur ammettendo le eccezioni, molte e lodevoli eccezioni, per parte mia a tutte queste domande risponderei di no. Il castalio medio considera l’uomo di mondo, il non erudito, magari senza disprezzo, senza invidia, senza astio, ma non lo considera come fratello, non vede in lui chi lo mantiene né si sente minimamente corresponsabile di ciò che accade fuori della Provincia. […] Insomma questa cultura castalia [..] non è, nella maggior parte di coloro che la possiedono e rappresentano, un organo, uno strumento, non è attiva e rivolta coscientemente a mete più grandi, ma tende piuttosto al godimento di sé, all’incensamento, alla formazione di specialità spirituali. […] non ci importa proprio molto di meritarci mediante prestazioni i privilegi dei quali godiamo, che anzi non pochi di noi si vantano della prescritta astinenza materiale come fosse una virtù e venisse osservata puramente per sé stessa, mentre è il minimo che si possa fare per compensare il paese che rende possibile la nostra esistenza castalia.
[…] Sennonché noi castalii non siamo dipendenti soltanto dalla nostra morale e dalla nostra ragione ma anche essenzialmente dalle condizioni del paese e dalla volontà popolare. Noi mangiamo il nostro pane, ci serviamo delle nostre biblioteche, ampliamo scuole e archivi, ma se il popolo non avrà più voglia di offrirci queste possibilità, o se, in seguito a carestie, guerre, eccetera, ne sarà incapace, in quello stesso momento la nostra vita e i nostri studi saranno giunti al termine. Un giorno il nostro paese non potrà più mantenere la Castalia e la sua cultura, vedrà in noi un lusso che non potrà più permettersi, anzi, invece di essere orgoglioso di noi come finora, ci considererà parassiti nocivi e addirittura nemici e falsi profeti: ecco i pericoli che ci minacciano dal difuori.
Se volessi tentare di esporre questi pericoli a un castalio di media levatura, dovrei farlo anzitutto con esempi presi dalla storia, e incontrerei una certa resistenza passiva, un’ignoranza e freddezza che si potrebbero definire quasi puerili. […] La storia ci sembra un’arena degli istinti e delle mode, delle brame e dell’avarizia, dell’avidità di potere e della smania di uccidere, della potenza, delle distruzioni e delle guerre, dei ministri ambiziosi, dei generali mercenari, delle città bombardate, e dimentichiamo troppo facilmente che questo è soltanto uno dei suoi numerosi aspetti. Soprattutto dimentichiamo che noi stessi siamo un brano di storia, siamo divenuti e condannati a estinguerci quando perdessimo la facoltà di divenire e di trasformarci. Noi stessi siamo storia e abbiamo la nostra parte di responsabilità nella storia universale e nel posto che vi occupiamo. Troppo ci manca la coscienza di questa responsabilità.
[…] Siamo in un periodo di decadenza che può forse trascinarsi ancora a lungo, ma in nessun caso ci potrà toccare alcunché di più alto, di più bello e desiderabile di quanto abbiamo già avuto. Siamo in declino, siamo, credo, storicamente maturi per scomparire dalla scena, e così avverrà senza alcun dubbio, se non oggi o domani, certo posdomani. Non lo deduco soltanto da un giudizio troppo morale delle nostre prestazioni e capacità, ma ancor più dai moti che vedo prepararsi nel mondo esterno. Tempi critici si avvicinano, dappertutto si avvertono i prodromi, il mondo vuole spostare un’altra volta il centro di gravità. Trapassi di potere si stanno preparando e non avverranno senza guerre e violenze, dall’Oriente lontano si approssima una minaccia non solo alla pace, ma anche alla vita e alla libertà. Se anche il nostro paese e la sua politica si manterranno neutrali, se tutto il nostro popolo avrà la costanza unanime di attenersi (come non fa) al passato e di conservarsi fedele agli ideali castalii, lo farà invano. […]
L’onda è già in arrivo e un giorno ci spazzerà via tutti. Forse sarà un bene e una necessità. […] Se vogliamo, possiamo anche chiudere gli occhi perché il pericolo è ancora lontano; probabilmente noi, Magistri di oggi, potremo ancora condurre tranquillamente a termine il nostro compito e apprestarci a morire in pace, prima che il pericolo ci sovrasti e divenga a tutti evidente. Per me però, e forse non solo per me, questa tranquillità non sarebbe la pace della coscienza. […]
Secondo me [..] nel caso di sconvolgimenti politici e soprattutto bellici, il Giuoco delle perle può considerarsi perduto. Decadrà rapidamente, anche se numerosi individui gli resteranno affezionati, e non sarà più rimesso in onore. Non lo consentirà l’atmosfera susseguente a una nuova epoca di guerra. […]
Ora, benché io sia Magister Ludi, non credo affatto compito mio (o nostro) quello di impedire o procrastinare la fine del nostro Giuoco. Anche le cose belle e bellissime sono caduche, non appena diventano storia e fenomeno sopra la terra. Noi lo sappiamo e possiamo esserne rattristati, ma non possiamo tentare seriamente di mutare la situazione che è ineluttabile. Se il Giuoco delle perle crollerà, la Castalia e il mondo subiranno una perdita, ma non la sentiranno sul momento, tanto saranno affaccendati, nella grande crisi, a salvare il salvabile. Si può pensare una Castalia senza Giuoco delle perle, ma non una Castalia senza rispetto della verità, senza fedeltà allo spirito. Un’Autorità pedagogica può fare a meno del Magister Ludi, ma questo “Magister Ludi” non significa, e noi l’abbiamo quasi dimenticato, in origine e nell’essenza, la specialità che indichiamo con queste parole. In origine magister ludi significa semplicemente maestro di scuola. E di maestri di scuola, di buoni e valorosi maestri il nostro paese ha tanto maggior bisogno quanto più la Castalia è in pericolo e quanto più le sue parti preziose invecchiano e si vanno sgretolando. Più che mai abbiamo bisogno di maestri, di uomini che insegnino ai giovani il modo di misurare e di giudicare e siano loro di esempio nel rispetto della verità, nell’obbedienza allo spirito, nel servizio del verbo. E ciò non vale soltanto o in primo luogo per le nostre scuole scelte, ché anch’esse dovranno tramontare, ma per le scuole del mondo dove cittadini e agricoltori, operai e soldati, uomini politici, ufficiali e regnanti, vengono formati e educati finché sono ancora fanciulli e plasmabili. Là sta il fondamento della vita spirituale del paese, non già nei seminari o nel Giuoco delle perle. Abbiamo sempre fornito al paese, come ho già detto, educatori e insegnanti: sono i migliori di noi. Ma dobbiamo fare molto più di quanto si è fatto finora. Non dobbiamo più contare che dalle scuole di fuori ci continui ad affluire l’élite degli intelligenti e ci aiuti a conservare la nostra Castalia. Dobbiamo sempre più riconoscere e sviluppare, come parte più importante e onorevole del nostro compito, il servizio umile e grave di responsabilità che rendiamo alle scuole del mondo.
Così sono arrivato alla richiesta personale che vorrei rivolgere alla spettabile Autorità. Chiedo che essa mi esoneri dalla carica di Magister Ludi e mi affidi fuori, nel paese, una scuola comune, grande o piccola, e mi permetta di aggregare via via a questa scuola uno stato maggiore di giovani confratelli come insegnanti di mia fiducia, disposti ad aiutarmi fedelmente e far sì che i nostri princìpi vengano assorbiti dai giovani uomini di mondo» [9].
L’Autorità non accetta le dimissioni di Knecht, etichetta le sue parole come pessimiste, nichiliste, ma l’oramai ex Magister Ludi ha preso la sua decisione. E nel mondo esterno lo attende già il suo primo allievo, Tito Designori, figlio di Plinio. Ma l’esperienza di Knecht al di fuori della Castalia dura poche ore. A Belpunt infatti, nella residenza alpina della famiglia Designori, egli trova la morte. Sono pagine vibranti, travolgenti.
«”Nuotando molto velocemente” esclamò con puerile zelo e precipitazione “possiamo toccare l’altra sponda prima che vi arrivi il sole.”
Aveva appena pronunciato queste parole, appena lanciato l’invito a sfidare l’astro del giorno, allorché con un gran balzo si tuffò nel lago, quasi, o per spavalderia o per imbarazzo, non vedesse l’ora di allontanarsi e di far dimenticare con attivo fervore la precedente scena solenne. Dall’acqua si levò uno spruzzo che si richiuse sopra di lui; dopo alcuni attimi riapparvero la testa, le spalle e le braccia che si allontanarono rapidamente, visibili sopra lo specchio verdazzurro.
Quando era uscito di casa, Knecht non aveva avuto alcuna intenzione di fare il bagno e di nuotare perché aveva troppo freddo e dopo il malessere notturno non si sentiva molto bene. Ora, al tepore del sole, eccitato da ciò che aveva visto, invitato amichevolmente dall’allievo, pernsò che il rischio non era tanto grave. Soprattutto però temeva che quanto l’ora mattutina aveva avviato e promesso potesse svanire e andare perduto, se avesse abbandonato il giovane e l’avesse deluso rifiutando con la fredda ragionevolezza dell’adulto un saggio di energia. Lo sconsigliava, è vero, il senso di incertezza e di debolezza che gli aveva lasciato il rapido viaggio in montagna, ma forse quel malessere lo si poteva superare proprio con un atto di forza e con un gesto impetuoso. L’appello fu più forte del monito, la volontà più energica dell’stinto. Toltosi subito il leggero accappatoio, respirò profondamente e si buttò in acqua nello stesso punto in cui si era tuffato l’allievo.
Il lago, alimentato dalle acque dei chiacciai e adatto, anche in piena estate, soltanto agli allenati, lo agguantò col gelo di una tagliente ostilità. Egli si aspettava un gran brivido, ma non quel freddo così glaciale che lo avvolse come un mare di fiamme e dopo una prima vampata incominciò a penetrargli nelle ossa. Dopo il salto era riaffiorato subito e aveva veduto davanti a sé Tito che nuotava con grande vantaggio, ma, sentendosi aspramente incalzato dal gelo ostile, s’illuse di lottare ancora per diminuire la distanza, per raggiungere la meta della gara, per il rispetto e l’amicizia, per l’anima del ragazzo, quando invece lottava già con la morte che gli aveva dato lo sgambetto e lo stringeva fra le braccia. Facendo appello a tutte le forze vi resistette fintanto che il cuore continuò a battere.
Il giovane nuotatore si era voltato più volte e aveva visto con soddisfazione che il Magister lo aveva seguito nell’acqua. Ora guardò di nuovo e non vedendolo s’impensierì, chiamò, tornò indietro in tutta fretta per assisterlo. Non lo trovò più e continuò a cercare nuotando e tuffandosi finché il freddo pungente gli tolse le forze. Stordito e senza fiato toccò terra finalmente, vide l’accappatoio sulla riva, lo raccolse e prese a strofinarsi macchinalmente le membra finché la pelle intirizzita riacquistò calore. Sedette poi al sole come inebetito, fissando l’acqua, il cui verde azzurro lo guardava, ora, vuoto e maligno, e quando, scomparsa la debolezza fisica, riebbe la coscienza e lo spavento di ciò che era accaduto, restò perplesso e in preda alla più profonda tristezza.
Ahimè, pensò atterrito, ecco che della sua morte sono io il colpevole! E soltanto allora, quando non v’era più da far valere la superbia né da opporre alcuna resistenza, sentì nella pena del cuore spaventato quanto avesse già preso a voler bene a quell’uomo. E mentre, nonostante le obiezioni, si sentiva colpevole della morte del Maestro, lo prese con un sacro brivido il presentimento che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita e preteso da lui cose molto più grandi di quante fino allora egli avesse mai pretese da sé stesso» [10].
Ci si è interrogati a lungo sul senso dell’improvvisa morte di Josef Knecht. Due le tesi maggiormente diffuse, riassunte così da Hans Mayer:
«Per quanto riguarda l’interpretazione della morte di Knecht e delle circostanze di questa morte, la critica è divisa. Prima tesi: nella Castalia Knecht viene reso definitivamente inabile alla vita pratica. Al primo impatto con il “mondo reale” egli fallisce affrontando la piccola prova consistente nell’educazione di un ragazzo scontroso e insofferente. Seconda tesi: la morte di Knecht attua l’idea del sacrificio insita in lui sin dall’inizio, come attestano le tre Vite. Il sacrificio non è vano, perché attraverso l’incontro con Knecht e la morte dell’insegnante, provocata sia pure indirettamente dall’allievo, la vita del giovane Tito subisce una metamorfosi. Il maestro di scuola rimane vincitore anche dopo la morte. Finale aperto per una storia aperta» [11].
Personalmente, credo che possa essere utile operare una sintesi di queste due ipotesi interpretative: se è vero che la Castalia ha reso Knecht inadatto al mondo esterno, alla vita pratica, è altrettanto vero che al giovane Tito il Magister Ludi – nel senso di maestro di scuola – non poteva impartire lezione migliore.
Secondo Hans Mayer «Il giuoco delle perle di vetro può essere tutto […] fuorché un libro pessimista» [12], e ricorda i versi conclusivi di Gradini, una delle poesie giovanili di Josef Knecht:
Forse il momento stesso della morte
ci farà andare incontro a nuovi spazi;
della vita il richiamo non ha fine…
Su, cuore mio, congedati e guarisci! [13]
Probabilmente Mayer ha ragione, ma a me viene in mente un’altra poesie di Knecht, intitolata Lamento, e in particolar modo il primo verso: «Non ci è concesso d’essere» [14]. Anche in questo caso può essere utile realizzare una sintesi: d’accordo, la morte potrebbe aprire nuovi spazi, ma in nessuno di questi ci sarà concesse d’essere.
NOTE
[1] Maria Pia Crisanaz Palin, Nota al testo, in Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, traduzione di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1984, p. 591.
[2] Ivi.
[3] Ivi, p. 592.
[4] Ivi.
[5] Hans Mayer, «Il giuoco delle perle di vetro» di Hesse ovvero La seconda accoglienza, traduzione di Anna Martini, in Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, op. cit., p. XII.
[6] Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, op. cit., pp. 91-92.
[7] Ivi, pp. 96-97.
[8] Ivi, p. 283.
[9] Ivi, pp. 358-377.
[10] Ivi, pp. 441-443.
[11] Hans Mayer, «Il giuoco delle perle di vetro» di Hesse ovvero La seconda accoglienza, op. cit., p. XLIII.
[12] Ivi, p. XLIV.
[13] Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro. op. cit., p. 465.
[14] Ivi, p. 449.
In copertina: Andy Warhol, Hermann Hesse.