L’invio sulla terra delle «meravigliose larve» dà inizio ad un’epoca in cui la vita umana si mantiene a lungo «mediocremente facile e tollerabile». Ma anche questa condizione, che supera in «comodità» e «dolcezza» le precedenti, ha termine. Per diverse ragioni: il progresso, le disparità sociali, l’oziosità, la vanità, la monotonia ecc. Si risveglia così negli uomini «quel fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, e rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo» [1].
«Ma» una ragione più delle altre causa la fine irreversibile «di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico». Questa:
«Era tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro lingue Sapienza; la quale onorata universalmente come tutte le sue compagne, e seguita in particolare da molti, aveva altresì al pari di quelle conferito per la sua parte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più e più volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio grandissimo, e sua propria signora, né mai venuta in sulla terra, ma sedere cogli Dei nel cielo; donde essa prometteva che coll’autorità e grazia propria intendeva di trarla, e di ridurla per qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini: per l’uso e per la familiarità della quale, dovere il genere umano venire in sì fatti termini, che di altezza di conoscimento, eccellenza d’instituti e di costumi, e felicità di vita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una pura ombra ed una sembianza vota mandare ad effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicché gli uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle profferte; e nel medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per l’ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall’ambizione di pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beatitudine che per le parole del fantasma si riputavano, conversando colla Verità essere per conseguire; si volsero con instantissime e presuntuose voci dimandando a Giove che per alcun tempo concedesse alla terra quel nobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidiasse alle sue creature l’utilità infinita che dalla presenza di quello riporterebbero; e insieme si rammaricavano con lui della sorte umana, rinnovando le antiche e odiose querele della piccolezza e della povertà delle cose loro. E perché quelle speciosissime larve, principio di tanti beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggior parte in poca stima; non che già fossero note per quelle che veramente erano, ma la comune viltà dei pensieri e l’ignavia dei costumi facevano che quasi niuno oggimai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il maggior dono che gli eterni avessero fatto e potuto fare ai mortali, gridavano che la terra non era degnata se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai quali la stirpe umana più condecentemente s’inchinerebbe, non essere degno né lecito di porre il piede in questa infima parte dell’universo» [2].
Giove è disgustato dalla «inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva oramai per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire, niun luogo essere bastante» [3]. L’ira del supremo dio raggiunge il culmine, ed egli decide di punire in perpetuo la specie umana, inviando tra gli uomini la Verità, «dandole eterno domicilio tra loro»:
«E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio, come quelli ai quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere tale l’ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare, né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorché dei propri dolori. Per queste cagioni saranno eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed abborrimento da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno fuggire che il desiderio di un’immensa felicità, congenito agli animi loro, non li punga e cruci tanto più che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure e dall’impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva per alcuna parte soddisf arli di questa felicità non possibile e non intesa, né da me, né da loro stessi che la sospirano. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e indeterminati, riusciranno insufficienti a quest’effetto per la dottrina e per gli abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti dell’universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome: perché essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della natura; e perché quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno, quanto egli ne ha più notizia. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla terra i suoi fantasmi, e per gl’insegnamenti della Verità, per li quali gli uomini avranno piena contezza dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti saranno uomini. Perciocché non si proponendo né patria da dovere particolarmente amare, né strani da odiare; ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare la luce spontaneamente: perocché l’imperio di questo genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore di rifiutarla» [4].
L’«imperio della Verità» produce effetti devastanti. Recide irreversibilmente le palpebre degli uomini mostrandogli di continuo la loro infelicità; svela la vanità del tutto; annienta la speranza, ed ecco che non c’è più nessuna differenza tra i vivi e i morti; distrugge l’immaginazione; provoca una sorta di solitudine cosmica; rende gli uomini vili, privandoli del coraggio necessario ad uccidersi.
La punizione divina è terribile, non lascia scampo. Eppure in Giove si risveglia la pietà. Egli domanda se vi sia tra gli immortali chi voglia «racconsolare in tanto travaglio» il genere umano. Si fa avanti Amore:
«Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l’ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l’avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio degl’immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl’immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell’insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese degli uomini; né d’altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl’ingiusti e i dispregiatori degli Dei, che di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli» [5].
La prima, grandiosa operetta si conclude dunque nel segno dell’amore – amore «legato alle prospettive poetiche della canzone Alla sua donna» [6] -, che ha, tra i meriti maggiori, quello di ricostruire la speranza e l’immaginazione distrutte dalla Verità. Si tratta però di un amore elitario, che sceglie di abitare solo ed esclusivamente «i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime», e «questo stesso carattere eccezionale non fa che confermare la regola comune della infelicità umana» [7].
A questa regola non c’è scampo, il destino dell’uomo resta doloroso, come ribadirà Leopardi in ogni operetta successiva alla sua straordinaria storia del genere umano.
NOTE
[1] Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 496.
[2] Ivi, pp. 496-497.
[3] Ivi, p. 497.
[4] Ivi, pp. 497-498.
[5] Ivi, p. 499.
[6] Walter Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, p.280.
[7] Ivi, p. 281.
In copertina: Pieter Paul Rubens, Deucalione e Pirra, 1636.