L’epica cosacca secondo Gogol’ – Taràs Bul’ba

Bul’ba era terribilmente ostinato. Era uno di quei caratteri che potevano nascere soltanto nel difficile XV secolo, in un angolo seminomade d’Europa, quando tutta la primitiva Russia meridionale, abbandonata dai suoi principi, era devastata, incendiata da cima a fondo dalle incursioni indomabili dei predoni mongoli; quando, privato di case e di un tetto, l’uomo divenne ardito; quando tra le macerie degli incendi, con davanti agli occhi l’immagine di minacciosi vicini e di perenne pericolo, egli prese dimora e s’avvezzò a guardarli dritti negli occhi, dimenticandosi che al mondo esiste la paura; quando dal pacifico animo slavo, avvampato di fiamma guerriera, sprizzò fuori e si manifestò la forza cosacca, il vasto, sregolato agire della natura libera del russo, e quando tutti i corsi d’acqua, i guadi, i declivi e i luoghi adatti si disseminarono di cosacchi, dei quali nessuno nemmeno teneva il conto, e gli audaci compagni loro ebbero il diritto di rispondere al sultano che desiderava conoscere il loro numero: «Chi lo sa? Siamo sparsi per tutta la steppa; là dove è una piccola altura, lì è un cosacco».

Nikolaj Gogol’, Taràs Bul’ba, 1835.

Ci troviamo in Russia, più precisamente nell’odierna Ucraina, in un tempo storico indefinito, fluttuante, sfuggente. È certamente il XV secolo, ma Gogol’ non disdegna di inserire riferimenti più o meno evidenti anche al XVI ed al XVII. La vicenda inizia con il ritorno a casa, dalla bursa di Kiev – un seminario dove gli studenti venivano mantenuti a carico dello Stato – dei due giovani figli, Ostàp, il maggiore ed Andrij, il minore, del guerriero cosacco Taràs Bul’ba. Il vecchio sbeffeggia le figure in divisa dei suoi pargoli, e la degenerazione dell’accoglienza paterna in una vera e propria rissa con il primogenito, la dice lunga sul carattere barbaro, violento, guerresco della natura cosacca.

«E il padre e il figlio, invece di salutarsi dopo la lunga separazione, presero ad assestarsi l’un l’altro cazzotti al fianco, e ai reni, e al petto, ora arretrando e fronteggiandosi, ora facendosi nuovamente dappresso» (N. Gogol’, Taràs Bul’ba, trad. it. di Serena Prini, Mondadori, Milano 2008, p. 12).

Il soggiorno dei due giovani in famiglia tuttavia non dura che una notte. Il bat’ko (“babbo”) Taràs ha in serbo grandi programmi per loro, in primis l’addestramento alla Sec, la scuola di guerra istituita dai cosacchi nel loro territorio libero. Assistiamo subito al dramma materno. Gogol’ ci parla della madre di Ostàp ed Andrij solamente nel primo capitolo, ma nei frammenti in cui l’autore comunica le emozioni melanconiche, tragiche della povera donna al lettore non può che stringersi, inevitabilmente, il cuore. La sua è una storia triste che commuove, ed il fatto che sia concentrata in poche righe ne amplifica la drammaticità.

«Ed era davvero degna di pietà, come tutte le donne di quel secolo audace. Solo un istante aveva vissuto d’amore, solo nel primo avvampare della passione, nel primo avvampare della giovinezza, e già l’inflessibile seduttore l’abbandonava per la sciabola, per i compagni, per la gozzoviglia. Vedeva il marito due o tre volte all’anno, e in seguito per alcuni anni non aveva notizie di lui. E anche quando l’incontrava, quando vivevano assieme, che razza di vita era la sua? Sopportava gli oltraggi, persino le botte; conosceva carezze concesse solo per carità, era una sorta di strano essere in quell’assembramento di cavalieri senza femmine, sui quali lo scapestrato Zaporoz’e diffondeva il suo rozzo colorito. Una giovinezza senza piaceri le passò dinanzi in un baleno, e le splendide e fresche guance e i seni sfiorirono senza baci e si coprirono di rughe precoci. Tutto l’amore, tutti i sentimenti, tutto quel che di tenero e appassionato è in una donna, tutto in lei si tramutò in un unico sentimento materno. Con ardore, con passione, con lacrime, come un gabbiano della steppa si librava sopra ai bimbi suoi. I suoi figli, i suoi cari figli le venivano portati via in modo che ella non li potesse rivedere mai più!» (pp. 21-22).

Quanto dolore in queste parole! Quanta sofferenza nell’esistenza di questa povera donna dimenticata da Dio. La madre trascorre l’unica notte in compagnia degli adorati figlioli, vegliando al loro capezzale, stando sveglia ed osservandoli dormire, soprattutto, piangendo…

«Singhiozzando li guardava negli occhi mentre già il sonno onnipotente li chiudeva, e pensava: “Forse, chissà, Bul’ba, svegliandosi, rinvierà di un giorno o due la partenza; forse ha pensato di partire così presto perché aveva molto bevuto”» (p. 22).

No. Nessun rinvio. La famiglia cosacca parte l’indomani, e sono magnifiche le parole che Gogol’ utilizza per descrivere il distacco definitivo dei due giovani dalla donna con la quale sono cresciuti, dalla casa nella quale hanno vissuto i giorni più belli, leggeri della loro giovane esistenza, i giorni dell’infanzia.

«I giovani cosacchi cavalcavano turbati e trattenevano le lacrime, timorosi del padre, che per parte sua era anch’egli un poco commosso, per quanto si sforzasse di non darlo a vedere. La giornata era grigia; il verde risplendeva smagliante; gli uccelli cinguettavano in mille variazioni di tono. Dopo aver percorso un tratto di strada, si voltarono indietro; la loro masseria era come sprofondata nella terra; si vedevano solo sporgere dalla terra i due comignoli della loro umile casetta, e le cime degli alberi, sui rami dei quali si erano arrampicati come scoiattoli; soltanto un unico prato lontano ancora serpeggiava dinanzi a loro, quel prato lungo il quale potevano rammentare tutta la storia della loro vita, dagli anni in cui ruzzavano sulla sua erba rugiadosa agli anni in cui vi aspettavano una cosacca dalle nere ciglia, che timorosa lo attraversava in volo con l’aiuto delle sue gambe giovani e fresche. Ecco ormai solo la pertica sul pozzo, con legata in cima una ruota di un carro, che si erge solitaria in cielo; e già la pianura che hanno appena percorso sembra da lontano una montagna, capace di racchiudere tutto in sé. Addio, infanzia, e giochi, e tutto, tutto!» (pp. 24-25).

Un mesto, melanconico addio… Il viaggio dei protagonisti verso la Sec è caratterizzato dalla consueta, magnifica, folgorante descrizione dei paesaggi naturali di Gogol’, il quale possiede la strabiliante capacità, con le sue parole sopraffine e precise, di immergere il lettore rapito nei luoghi sconfinati dell’aperta, estesa, immensa campagna russa. Eccone un delizioso, prelibato assaggio:

«Più ci s’addentrava nella steppa, più questa si faceva bella. A quei tempi tutto il sud, tutto lo spazio che costituisce l’attuale Nuova Russia, fino allo stesso Mar Nero, era un deserto verde, vergine. Mai aratro era passato tra le onde abissali delle piante selvatiche. Solo i cavalli, che vi si nascondevano come in un bosco, le avevano calpestate. Nulla in natura poteva esservi di migliore. Tutta la superficie della terra si presentava come un oceano verde oro, nel quale zampillavano milioni di fiori diversi. Attraverso gli steli alti e sottili dell’erba tralucevano fiordalisi azzurri, turchini, lilla; la ginestra gialla lanciava verso l’alto la sua sommità piramidale; il trifoglio bianco con i suoi cappuccetti a forma d’ombrello ne screziava la superficie; una spiga di grano venuta da Dio sa dove era giunta a maturazione nella macchia. Sotto alle loro radici sottili correvano qua e là le pernici, col collo proteso. L’aria era pregna di mille diversi cinguetii di uccelli. Nel cielo, immobili, si libravano gli sparvieri, con le ali distese e gli occhi immobilmente fissi sull’erba. Il grido delle anatre selvatiche che volavano a stormo echeggiava su un lago lontano. Dall’erba si alzava un gabbiano a ritmici battiti d’ala e si tuffava magnifico nelle onde azzurre dell’aria. Ecco che scompariva nell’altezza e balenava soltanto come un puntino nero. Ecco che si voltava con un colpo d’ali e riluceva nel sole… Che il diavolo vi pigli, steppe, quanto siete belle!…» (pp. 31-32).

Il soggiorno di Bul’ba e figli nella scuola di guerra è uno spaccato crudelmente reale della vita cosacca. Al di là delle manifestazioni legislative primitive, delle elezioni dei capi all’ordine del giorno, dei tesori sottratti a tartari, turchi e polacchi, al di là di ogni cosa, o meglio, sopra ogni cosa: gozzoviglia. Quindi baldoria a non finire, vino e vodka a fiumi, sputi, rutti e risse in quantità industriale. Ma al vecchio Taràs questo immobilismo non piace. Egli è un guerriero, egli ha bisogno di lotta, sangue e carne lacerata per vivere. Non può farne a meno. Inoltre, è sua intenzione iniziare i giovani pargoli all’arte della guerra, affinché possano diventare davvero, e definitivamente uomini. L’occasione si presenta presto. La dominazione polacca si estende a macchia d’olio, in particolar modo negli usi e nei costumi, nei territori russi, ed i cosacchi decidono di reagire, attaccando i liacchi infedeli cattolici. La battaglia si concentra in una sola città, l’odierna Dubno. I cosacchi dimostrano immediatamente la loro forza brutale e cruenta massacrando i nemici e costringendoli a ritirarsi nelle mura della città insieme agli abitanti. Facendo strage delle provviste esterne alla fortezza, i cosacchi infliggono un duro colpo ai polacchi incapaci di reagire. Sul campo di battaglia Bul’ba, Ostàp ed Andrij se la cavano magnificamente. Il vecchio è una forza della natura coadiuvata dall’esperienza di innumerevoli corpo a corpo. Il primogenito si avvicina molto al padre. Egli rappresenta l’ideale del guerriero cosacco. È coraggioso, forte, impavido e sempre pronto a sacrificare se stesso per un compagno. Anche Andrij si destreggia bene, ma dentro di lui si allunga una preoccupante ombra romantica, umana che cozza con la natura rude del popolo cosacco. Tale natura esplode in tutta la sua drammatica potenza, quando il giovane scopre che la principessa polacca rinchiusa nella città assediata è la sua amata.

Attraverso un passaggio segreto sapientemente celato ai russi, Andrij entra in città. L’incontro con la giovane donna è straordinario, ed il capitolo VI, da solo, è tra i lavori più brillanti di Gogol’.

«Non era così che s’aspettava di vederla; non era lei, non era quella ch’egli un tempo aveva conosciuto; in lei non c’era nulla che somigliasse a quell’altra, ma adesso era due volte più bella e portentosa di prima. Allora in lei c’era qualcosa d’incompleto, di non portato a termine, mentre adesso ella era l’opera alla quale l’artista aveva dato l’ultimo tocco di pennello. Quella di allora era una fanciulla deliziosa, volubile; questa era invece una splendida donna in tutta la sua rigogliosa bellezza. Un sentimento pieno s’esprimeva in quegli occhi levati su di lui, non accenni o allusioni di sentimento, ma un sentimento pieno. Le lacrime non si erano ancora asciugate, e col loro lucente umidore la adornavano, sconvolgendo l’anima. Il petto, il collo e le spalle eran racchiuse in quei magnifici contorni che sono propri d’una bellezza nel pieno del suo rigoglio: i capelli, che un tempo si spandevano in riccioli lievi sul volto, adesso s’erano tramutati in una treccia folta e splendida, parte della quale era raccolta, e parte sparsa per tutta la lunghezza del braccio in riccioli fini e magnificamente ondulati, che le ricadevano sul petto. […] E Andrij avvertì nell’anima sua un timore riverente, e restò immobile dinanzi a lei. E anch’ella pareva colpita dall’aspetto del cosacco, che le si presentava in tutta la forza e in tutta la bellezza della sua giovane virilità e che sembrava indicare, nell’immobilità stessa delle membra, la disinvolta libertà dei movimenti; i suoi occhi rilucevano di limpida fermezza, in un ardito arco s’incurvava il sopracciglio vellutato, le guance abbronzate brillavano di tutto lo splendore del fuoco verginale, e come seta rilucevano i giovani baffi neri» (pp. 79-80).

A questo punto, cosa decide di fare il giovane innamorato? Una follia, un’autentica, ardita ed intraprendente follia. Solo l’amore è capace di annientare la ragione, il buon senso, l’ideale, la fede, le origini. Ed Andrij prova sulla sua pelle cosacca tutta la potenza dell’amore incontenibile ed incontrastabile, cedendo senza opporre resistenze.

«”Che valgono per me mio padre, i compagni e la patria mia!” disse Andrij, scrollando con gesto rapido la testa e raddrizzando il corpo slanciato, come un pioppo sul lungofiume. “E se così dev’essere, ecco come sarà: io non ho più nessuno! Nessuno, nessuno!” ripeté con la voce e il gesto delle mani col quale l’agile cosacco invincibile esprime la sua risolutezza per un’impresa inaudita, e impossibile a un altro. “Chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi ne l’ha data come patria? La patria è quel che l’anima nostra cerca, quel che per lei è più dolce d’ogni altra cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria! E porterò questa patria nel cuore, la porterò finché non scoccherà la mia ora […]”»  (pp. 85-86).

Ed è così che il guerriero cosacco si perde, si dissolve, scomparendo per sempre dall’indomita cavalleria cosacca. Una parola terribile prima si insinua, e poi piano inizia a riecheggiare nella mente e nel cuore del lettore incredulo: tradimento. Andrij indossa l’armatura da paladino polacco, e quando si getta, magnifico, nel fervore della battaglia scagliandosi con veemenza e voluttà contro coloro i quali, fino a qualche ora prima, erano stati i suoi compagni, combatte con la ferocia tipica dell’amato che vuole salvare la propria donna. Ecco come Gogol’ descrive la reazione del vecchio Bul’ba, nei panni scomodi, lascivi e disonorevoli del padre tradito:

«Si smarrì Taràs quando riconobbe Andrij. […] Si fermò il vecchio Taràs, e vide come egli ripuliva la strada innanzi a sé, come scacciava tutti, sciabolando e facendo piover colpi a destra e a sinistra. Non resse Taràs, e si mise a gridare: “Come?… I tuoi!… I tuoi colpisci, figlio del diavolo!…”» (p. 127).

Il padre si getta come un forsennato all’inseguimento del figlio. Grazie ad una trappola organizzata all’istante, con la furbizia guerresca caratteristica dell’abile cosacco, Taràs attira il pargolo in un bosco circostante, dove si ritrovano faccia a faccia.

«”Allora, che faremo adesso?” disse Taràs, guardandolo dritto negli occhi. Ma Andrij non sapeva che cosa rispondere, e stava fermo, con gli occhi chini a terra. “Allora, figliolino, t’hanno aiutato i liacchi?” Andrij era senza risposta. “Tradire a quel modo? Tradire la fede? Tradire i compagni? Fermo, dunque, scendi da cavallo!” Docile come un fanciullo, egli scese da cavallo e rimase dinanzi a Taràs, più morto che vivo. “Sta’ lì, e non muoverti! Io ti ho generato, io ti ucciderò!” disse Taràs e, fatto un passo indietro, si levò dalle spalle il fucile. Pallido come un cencio era Andrij; si vedeva che le sue labbra si muovevano senza emettere suoni, e pronunciavano un nome; ma non era quello il nome della patria, o della madre, o dei fratelli, era il nome della bella polacca. Taràs fece fuoco. […] Si fermò colui che aveva ucciso il figlio, e a lungo contemplò il cadavere esanime. Anche da morto era stupendo. […] “Che cosacco sarebbe stato!” disse Taràs. “Alto, e con le sopracciglia nere, e il volto nobile, e la mano ferma in battaglia! S’è perduto, s’è perduto senza gloria, come un cane vigliacco!”» (pp. 128-129).

E proprio come un cane il vecchio ha ucciso suo figlio. Io ti ho generato, io ti ucciderò.

Intanto la battaglia infuria. Il dramma non arresta il duello tra cosacchi e polacchi. Taràs ed Ostàp vengono aggrediti da un manipolo di nemici, e soccombono. Il padre riesce miracolosamente a scappare, il primogenito invece, viene catturato, imprigionato e portato all’interno delle mura della città assediata. A questo punto assistiamo ad un indefinito salto temporale. Dopo mesi di convalescenza, vediamo riapparire Taràs, forse leggermente provato a livello fisico, di certo non a livello spirituale. Lo dimostra la sua ferma volontà di raggiungere il figlio Ostàp prigioniero a Varsavia. Dopo un rocambolesco viaggio percorso da clandestino nascosto in un carico di mattoni, il vecchio raggiunge la capitale della Polonia proprio il giorno dell’esecuzione del primogenito. In una piazza gremita di nobili agghindati e gente comune affamata di morte, Taràs assiste inerme alla tortura crudele, disumana di Ostàp. Anche in questa occasione, il giovane dimostra tutta la sua grandezza di eroe guerriero. Nonostante gli abusi violenti ed osceni sul suo corpo dilaniato, egli non grida, anzi, neppure fiata. Ma il dolore fisico non conosce limite, e nel momento in cui si manifesta insopportabile nelle membra del cosacco, egli non può che piegarsi, ed esclamare:

«”Bat’ko! Dove sei? Mi senti?” “Sento!” si levò nell’assoluto silenzio, e tutta quella moltitudine di gente trasalì nello stesso istante» (p. 151).

Al grido del vecchio cosacco la piazza si dipinge di terrore. I soldati, spaventati, si lanciano alla ricerca del nemico, ma di lui si perdono le tracce. Dov’è finito Taràs, colui che a differenza di Dio ha risposto al lamento del figlio?

«Si ritrovarono le tracce di Taràs. Centoventimila guerrieri cosacchi apparvero ai confini dell’Ucraina» (p. 152).

Una riapparizione straordinaria, in pieno stile cosacco, in pieno stile Bul’ba. Le ultime pagine del libro raccontano delle avventure scorrazzanti e violente dell’esercito cosacco, che per mesi e mesi mette a ferro e fuoco gran parte del territorio polacco. Taràs è un incubo. Con i suoi uomini travolge, distrugge, infuoca, uccide tutto quel che gli capita davanti. Nessuna pietà, né per donne, né per bambini. Fino al giorno in cui viene catturato, impalato ad un albero ed arso vivo. Nonostante le sofferenze causate dai chiodi e dalle fiamme, il vecchio guerriero riesce ad indicare ai compagni, ai fratelli una via di fuga. Un uomo incredibile, che anche in punto di morte, trova la forza per salvare molti, moltissimi dei suoi uomini. È la fine del romanzo, l’unica grande opera esistente in letteratura capace di rendere giustizia alla favolosa epica cosacca. In pieno stile Gogol’.

In copertina: Il’ja Efimovič Repin, I Cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al Sultano di Turchia, 1880-1891.

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