Il teatro marinettiano, come l’intera sua produzione del resto, è caratterizzato da una rottura totale, violenta, feroce con la tradizione. Una rottura futurista, ma soprattutto potentemente avanguardista. Una rottura, per questo motivo, tanto apprezzata ancora oggi dalla drammaturgia contemporanea.
Le battute sono ridotte al minimo, spesso attribuite ad un solo personaggio. A volte poi, si giunge addirittura all’eliminazione assoluta della parola. Il dialogo sparisce, una rivoluzione incredibile se si pensa a quanto fosse indispensabile allo stesso sviluppo dell’azione scenica, nel teatro tradizionale. Lo spazio è, diciamo così, armonizzato dalla presenza delle didascalie, che servono a spiegare nei dettagli gli effetti, siano essi di movimento, di luce oppure di suono, che animano lo spazio scenico.
L’uomo viene messo da parte. I veri protagonisti sono gli oggetti. Il dramma riguarda gli oggetti, sta a loro incarnare, rappresentare e quindi divulgare il pathos. L’emozione dello spettatore, necessariamente straniato, nasce dalle cose, non dagli attori. È come se, sul palcoscenico, avvenisse un’inversione dei ruoli. L’uomo si fa oggetto, soprammobile. La cosa prende vita ed emana sensazioni, trepidazioni, turbamenti. La materia trionfa, annientando la psicologia.
La scena è pervasa dall’assurdo e dal surreale, e qui risiede l’importanza del teatro di Marinetti. Egli è l’iniziatore di quel processo di minimizzazione teatrale che, molto probabilmente, raggiunge l’apice con la prima, avvenuta nel 1953, di Aspettando Godot, di Samuel Beckett.
Affinché possiate avere un’idea più chiara, completa di quel che abbiamo scritto, proponiamo due testi: Vengono ed Indecisione, entrambi tratti dal Teatro sintetico.
Vengono
Dramma d’oggetti
Sala signorile. – Sera. – Grande lampadario acceso. – Porta-finestra, aperta (in fondo a sinistra), che dà su un giardino. – A sinistra, lungo la parete ma staccata da questa, grande tavola rettangolare con tappeto. – Lungo la parete di destra (nella quale si apre una porta), una grandissima e alta poltrona, ai lati della quale sono allineate otto sedie, quattro a destra e quattro a sinistra (della poltrona).
Entrano dalla porta di sinistra un MAGGIORDOMO e due servi in frak.
IL MAGGIORDOMO Vengono. Preparate. (esce).
I servi, con grande fretta, dispongono le otto sedie a ferro di cavallo ai lati della poltrona, che rimane al posto di prima, come la tavola. Quando hanno finito, vanno a guardare dalla porta, voltando le spalle al pubblico. Lungo momento d’attesa. Il maggiordomo rientra, ansante.
IL MAGGIORDOMO Contrordine. Sono stanchissimi… Molti cuscini, molti sgabelli… (esce).
I servi escono dalla porta di destra e rientrano carichi di cuscini e di sgabelli. – Poi, prendono la poltrona, la mettono in mezzo alla sala, e dispongono le sedie (quattro da ciascun lato) colle spalliere rivolte alla poltrona. Indi, su ogni sedia, e sulla poltrona, mettono cuscini e, davanti a ogni sedia, sgabelli, come pure davanti alla poltrona.
I servi vanno di nuovo a guardare dalla porta-finestra. Lungo momento d’attesa.
IL MAGGIORDOMO (rientra dal giardino trafelato) Contrordine. hanno fame. Apparecchiate! (esce).
I servi trasportano la tavola in mezzo alla sala, dispongono intorno ad essa la poltrona (a capotavola) e le sedie; indi, rapidamente, uscendo e rientrando dalla porta di destra, apparecchiano la tavola. A un posto, un vaso di fiori; a un altro, molto pane; a un altro, otto bottiglie di vino. Agli altri posti, solo la posata. – Una sedia deve essere appoggiata alla tavola, colle gambe posteriori alzate, come si usa nei restaurants per indicare che un posto è riservato. – Quando hanno finito, i servi vanno di nuovo a guardar fuori. – Lungo momento d’attesa.
IL MAGGIORDOMO (rientra correndo) Briccatirakamèkamè! (esce).
Immediatamente i servi rimettono la tavola (che rimane apparecchiata) al posto che occupava all’alzarsi del sipario. Poi mettono la poltrona davanti alla porta-finestra, di sbieco, e dietro alla poltrona dispongono le otto sedie in fila indiana e in diagonale attraverso la scena. – Fatto ciò, spengono il lampadario. La scena rimane pallidamente rischiarata dal chiarore lunare che viene dalla porta-finestra.
Un riflettore invisibile proietta sul pavimento le ombre della poltrona e delle sedie. Ombre spiccatissime, che (spostandosi lentamente il riflettore) vanno visibilmente allungandosi verso la porta-finestra.
I servi, accoccolati in un angolo, aspettano tremanti, con angoscia evidente, che le sedie escano dalla sala.
F. T. Marinetti, Teatro, Vito Bianco, Roma 1960.
Ecco come l’autore spiega le sue intenzioni di questa originale, irreale, straniante ed angosciosa rappresentazione: «In Vengono ho voluto creare una sintesi d’oggetti animati. Tutte le persone sensibili ed immaginative hanno certo osservato molte volte gli atteggiamenti impressionanti e pieni di misteriose suggestioni che i mobili in genere, e in particolar modo le sedie e le poltrone, assumono in una stanza dove non ci sono esseri umani. Sono partito da questa osservazione per creare la mia sintesi. Le otto sedie e la grande poltrona, nei diversi mutamenti delle loro posizioni successivamente preparate per ricevere gli attesi, acquistano a poco a poco una strana vita fantastica. E alla fine lo spettatore, aiutato dal lento allungarsi delle ombre verso la porta, deve sentire che le sedie vivono veramente e si muovono da sole per uscire».
Indecisione
Sintesi tattile
Fondale grigio.
IL VESTITO DI BIANCO, ritto, immobile.
Da destra, un servo entra e depone su di un tavolino un fornello a spirito, acceso. (Suono di tromba interno). Da sinistra un servo entra e depone su di un altro tavolino una scodella piena d’acqua. (Suono di flauto interno).
IL VESTITO DI BIANCO si muove prima verso il fuoco del fornello, poi, indeciso, va verso la scodella.
Rimane nel centro, immobile, dubbioso. Un minuto. (Un SI tremolato di pianoforte). Estrae da una tasca un topo morto. Movimento di schifo. Butta via il topo. Estrae da un’altra tasca un’anguilla. Sembra finalmente deciso a far cuocere l’anguilla nella scodella piena di acqua. Ma si accorge di avere le mani viscide. Si butta l’anguilla sulla spalla, e si lava le mani nella scodella. Gesto di dispetto.
Cenno verso le quinte. Entra un SERVO, che prende la scodella ed esce, e poi rientra portando un’altra scodella con acqua pulita.
IL VESTITO DI BIANCO, soddisfatto, spegne il fornello. Si cerca nelle tasche i fiammiferi. Non li trova. Trova invece, in fondo, in fondo, una mascella di scheletro. La estrae, e la mostra al pubblico, con uno sguardo ingenuo.
F. T. Marinetti, Teatro, Vito Bianco, Roma 1960.