Vincenzo Cardarelli – Fondere tradizione e modernità

Abbandonato dalla madre il piccolo, menomato Vincenzo Cardarelli (1887-1959), pseudonimo di Nazareno Caldarelli, visse nell’arroccata Tarquinia un’infanzia difficile ed estremamente melanconica. Lascia il paese natale dalle poche, pochissime possibilità probabilmente nel 1905, anno della morte del padre, e si trasferisce nella fervente e gravida Roma, in cerca di fortuna.

Sebbene sprovvisto di una salda istruzione – fu infatti tortuosa ed intermittente la sua formazione scolastica – entra da subito in contatto con gli ambienti socialisti, intraprendendo un’intensa attività giornalistica, che culminerà con la redazione  del giornale «Avanti!». Incontra Sibilla Aleramo (1876-1960), e con la scrittrice inizia un’importante storia d’amore che terminerà definitivamente nel 1912.

Letterariamente Cardarelli si forma da solo – è un autodidatta – leggendo molto, seppur confusamente. Esaurita l’esperienza socialista – troppo chimerici gli ideali – si avvicina alle più influenti e celebri riviste dell’epoca. In particolare, dal 1911 collabora con il «Marzocco». Nello stesso anno pubblica Metodo estetico, scritto nel quale critica apertamente Benedetto Croce, e le prime poesie.

Nel 1916 da alle stampe Prologhi, un volume di brevi prose autobiografiche caratterizzate da un pessimismo riflessivo, e lavora alla «Voce». In questo periodo prende corpo nel poeta laziale l’idea di un ritorno alla tradizione ed alla sua sistematicità. Idea concretizzata nella rivista «La Ronda», che vede la luce nel 1919. Cardarelli è tra i maggiori promotori e sostenitori del giornale romano, e lo dirige fino al 1923, quando termina le pubblicazioni.

Cardarelli è un cultore dello stile, della forma poetica, ed aspira ad unire il passato, la tradizione con le esigenze della contemporaneità. Tale ispirazione letteraria caratterizza le molte raccolte di prose che pubblica dagli anni Venti agli anni Cinquanta: Viaggi nel tempo (1920), Terra genitrice (1924), Favole e memorie (1925), Il sole a picco (1929), Parole all’orecchio Parliamo dell’Italia (1931), Il cielo sulle città (1939), Rimorsi (1944), Lettere non spedite (1946), Solitario in Arcadia (1947), Villa Tarantola (1948) e Viaggio di un poeta in Russia (1954), l’ultimo volume uscito prima della sua morte, che avviene a Roma nel 1959.

Focalizziamo ora la nostra attenzione sulla produzione poetica di Cardarelli. La prima raccolta di versi, intitolata Giorni in piena, viene pubblicata nel 1934, la seconda nel 1936, intitolata Poesie. La volontà di fondere classicismo e modernità nelle liriche si accentua, ed il poeta, pur utilizzando forme del tutto libere (rifiuta, ad esempio, il rituale della rima), crea un rapporto di continuità tra la contemporaneità e la tradizione. Così le poesie risultano sempre composte, ben organizzate, i versi soppesati ed i termini scelti con accuratezza. Cardarelli prende le distanze dal frammento, dal caos, dal realismo che descrive la realtà così com’è, con fedeltà, e dunque anche dal Crepuscolarismo. Egli guarda piuttosto con estremo interesse alle lezioni poetiche elevatissime di Petrarca e Leopardi, ed in particolare di quest’ultimo, modello lirico ineguagliabile da riproporre ed affinare nel XX secolo.

I componimenti del poeta di Tarquinia si fondano sul passato, ma non risultano estranei alla contemporaneità, poiché all’interno sono trattati temi cari all’uomo moderno. Tra questi l’incessante e perpetuo scorrere del tempo. Le stagioni simboleggiano le fasi dell’esistenza, così l’estate ricorda l’impeto vitale che di tanto in tanto invade il cuore e l’animo dell’uomo, mentre l’autunno, quando il paesaggio si impoverisce, le giornate si accorciano e le temperature si irrigidiscono, richiama la melanconia dell’individuo. Quella melanconia che caratterizzò la triste e solitaria infanzia in provincia di Cardarelli, quando non era ancora Vincenzo, bensì Nazareno.

Una lirica in grado di esemplificare efficacemente la poetica cardarelliana, è senza dubbio Sera di Gavinana, contenuta nella raccolta Poesie (1936), e che proponiamo di seguito.

Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s’affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
fa concerto e preghiera,
trema nell’aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell’ora che non ha un’altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l’inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l’anima vagabonda.

La poesia si caratterizza per un’alternanza tra il paesaggio descritto dal poeta, nel quale egli è immerso, e le sue riflessioni. Le voci umane si conciliano con quelle della natura, entrambe sono melodie armoniose che si sfiorano e si fondono senza scontrarsi. Sembrerebbe un istante idilliaco, sospeso fuori del tempo, ma non è così e Cardarelli ce lo ricorda nominando, al verso numero 15, un «camion» che passa, e rimanda alla modernità. Tuttavia neppure il rumore del mezzo turba l’armonia.

Il componimento è solido, costruito con precisione, attraverso settenari ed endecasillabi, metri tipici della canzone, leopardiana soprattutto, disposti alternativamente secondo quella libertà cardarelliana nella tradizione cui accennavamo sopra. Appare evidente come il poeta ponga al centro della sua idea di poesia, e dunque al centro della sua produzione, gli splendidi ed inarrivabili insegnamenti di Leopardi. Molteplici i riferimenti, presenti sia nella descrizione paesaggistica, e quindi della natura, sia negli spunti riflessivi, e quindi nei sentimenti dell’autore. Non mancano accenni pessimistici. Cardarelli rielabora il “pessimismo” leopardiano facendolo suo in un modo originale e conforme alla contemporaneità, ma egualmente intenso, raffinato e cupo.

Concludendo, riportiamo alcune delle poesie più intense e significative del poeta originario di Tarquinia, sempre tratte dalla raccolta Poesie (1936). Buona lettura.

ADOLESCENTE

Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

***

PASSATO

I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.

***

OTTOBRE

Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.

Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.

***

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

***

GABBIANI

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

***

ALLA MORTE

Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annùnciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.

***

AUTUNNO VENEZIANO

L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.

Così a Venezia le stagioni delirano.

Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.

In copertina: Vincenzo Cardarelli fotografato da Paolo Monti nel 1957.

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