“Uno sguardo verso Nord” è quello che un uomo in qualsiasi luogo volge in maniera del tutto ingenua verso un mondo quasi ignoto, poiché lontano dalla propria cultura, ma che getta un ponte per tentare di varcare l’argine utilizzando l’arte come zattera, in qualità ambasciatrice di quello che dovrebbe essere il Patrimonio storico e culturale di un luogo, e quindi la conoscenza del luogo stesso.
Il nostro sarà un viaggio attraverso i paesaggi, le luci, il tepore, il fumo dei camini e le debolezze dell’uomo, la resistenza della legna bagnata al fuoco e quella della neve ad un passo.
Ho pensato a lungo se inserire o meno all’interno del percorso di approfondimento dedicato ai pittori scandinavi il personaggio più ingombrante della saga, il più famoso della cultura occidentale: Edvard Munch.
Dopo un’iniziale esclusione, un po’ per paura di mettere in ombra altri artisti, un po’ per il desiderio di presentare pittori semi-sconosciuti, era stato estromesso dalla serie: oggi invece lo riabilitiamo, perché avremmo sbagliato ad oltrepassare il più grande genio scandinavo degli ultimi secoli, a far finta di nulla nonostante l’uragano artistico fosse passato di lì. Motivo ulteriore che ci ha spinto a non ometterlo è la sua estrema appartenenza a quei luoghi, nonostante i lunghi viaggi e le esperienze estere, la sua passione per quelle tematiche introspettive tipiche del buio inverno umano.
Siamo ad Oslo dunque, città che ha accolto e sconvolto il protagonista di oggi, praticamente sua città natale nonostante l’anagrafe indichi Løten come luogo di nascita, paesino che ha abbandonato a meno di un anno di vita. É il 12 dicembre 1863 quando l’inverno rigido norvegese lo accolse al mondo, dieci anni dopo la nascita del suo predecessore artistico Vincent van Gogh.
La sua infanzia, come universalmente risaputo, non fu delle più semplici: oltre alla prematura scomparsa della madre (1868) a causa della tubercolosi, venne a mancare anche l’amata sorella maggiore, Johanne Sophie, nel 1877 a causa della stessa malattia. Ad aggravare la situazione vi era una situazione economica precaria nonostante i sacrifici perenni del padre, Christian, che amorevolmente cercava di sopperire alle mancanze come poteva, tra un libro e un pennello, cercando di rattoppare la fame con la cultura.

Nel 1879 iniziò la formazione tecnica del giovane Edvard Munch dove, contrariamente a quanto si possa immaginare, risultò brillante nelle materie scientifiche. Fu in quegli anni che familiarizzò con il disegno e la prospettiva, cosicché maturò la decisione, malgrado il padre non volesse, di iscriversi alla Scuola di Arte di Oslo. Munch in quest’occasione ebbe Christian Krohg come insegnante, e dai suoi maestri fu sostenuto nella realizzazione di opere vicine al mondo pittorico che proveniva dalla scuola francese, da quell’impressionismo che smuoveva i circoli europei. Ma fu in altri circoli, quelli anarchici e tumultuosi della capitale scandinava che trovò lo spunto per intraprendere una strada nuova, personale.
La critica non lo sostenne, l’unico a spendere parole tenere nei suoi confronti fu lo stesso ex professore Krohg, il quale affermò: “Dipinge le cose, o piuttosto, le vede, in maniera diversa da altri artisti. Vede solo l’essenziale, che naturalmente è solo quello che dipinge. Proprio per questo motivo, le immagini di Munch sono in genere «incomplete», come le persone hanno già avuto modo di constatare da soli. Oh, sì che sono complete invece! […] Un’opera d’arte è completa solo quando l’artista riesce ad esprimere tutto quello che aveva in mente: è proprio questo che colloca Munch all’avanguardia rispetto alla sua generazione… Riesce veramente a mostrare i suoi sentimenti, le sue ossessioni, e a questo subordina tutto il resto.”

Quadro dopo quadro la sua personalità cominciò a prendere forma, pronta ad un’esperienza fondamentale: in occasione dell’esposizione universale parigina che presentò al mondo le meraviglie e i prodigi di cui era capace l’industria dell’acciaio, nel 1899 a Torre Eiffel già eretta il giovane Munch si trovò nella capitale dell’arte per studiare, apprendere ed esporre. Fu proprio durante il suo soggiorno che venne a sapere della scomparsa del padre, notizia che lo sconvolse portandolo alla decisione di abbandonare la capitale francese per raggiungere un sobborgo sulla Senna, Saint-Cloud.
L’esperienza francese era destinata a concludersi, vedendo il pittore di ritorno verso casa con un bagaglio pieno di nuove conoscenze e lezioni apprese dalle opere di Gauguin, van Gogh e i post-impressionisti.

Quello successivo fu probabilmente il periodo più florido della vita artistica, a partire dal 1893, anno in cui dipinge il più celebre dei suoi capolavori, l’icona, dal titolo “L’Urlo”. La genesi dell’opera è lo stesso Munch a raccontarla attraverso le pagine del suo diario personale, scrivendo: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
Il progetto successivo fu il famoso “Fregio della vita”, serie di opere visionarie capaci di approfondire temi fondamentali della vita come l’amore, la paura, la morte, la malinconia e l’ansia. La serie, frutto di un decennio di lavori, venne esposto per intero in occasione della Secessione berlinese del 1902 e suddivisa in questo modo:
- Seme dell’amore (con i dipinti: Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi, Danza sulla spiaggia, Il bacio, Madonna);
- Sviluppo e dissoluzione dell’amore (con i dipinti Ceneri, Vampiro, La danza della vita, Gelosia, La donna, Malinconia);
- Angoscia (con i dipinti Angoscia, Sera sul viale Karl Johan, Edera rossa, Golgota, L’urlo);
- Morte (con i dipinti Il letto di morte, La morte nella stanza della malata, Odore di morte, Metabolismo. La vita e la morte, La madre morta e la bambina)
La vita dissoluta e la dipendenza da alcol non migliorarono il suo stato psichico e nervoso, finché nel 1908 decise autonomamente di ricoverarsi per ricevere le cure necessarie. Uscì rigenerato dalle terapie del dottor Jacobsen, grazie al quale trovò anche un discreto benessere economico che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita, esistenza che si concluderà agiatamente.
Munch approfondisce, allo stesso modo con cui lo zio Peter Andreas Munch traduce “Fornaldarsögur” (“Storie dei tempi passati” o “Saghe leggendarie”), emozioni e storie arcaiche solo perché antiche, traducendole in maniera secca e pulsante ma fondamentalmente moderne nella loro universalità. Chiunque prova quella gamma di emozioni, dunque Munch le estremizza e le butta su una tela lasciandosi trascinare insieme al pennello dall’emozione, come una barca alla deriva.
Concluderei con una frase che sintetizza in maniera chiara il pensiero dell’arte munchiana:
« In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore. Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore »