Storia del genere umano, dalle origini all’imperio della Verità – Parte II

Come abbiamo visto nell’articolo inaugurale [1], la prima delle quattro macro-età in cui Leopardi scandisce la storia del genere umano, si conclude con una «mutazione» irreversibile, che porta gli uomini alla perdita di ogni speranza e molti di loro al suicidio. Gli dei, incapaci di concepire come delle creature viventi possano anteporre, e dunque preferire, la morte alla vita, inorridiscono. Non solo, essi si meravigliano della noncuranza degli uomini nei confronti dei loro doni, «parendo», agli dei, «aver posta nel mondo tanta bontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella stanza avesse ad essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano formato con singolare studio a maravigliosa eccellenza» [2].

A questo punto gli dei, e Giove in testa, temendo che di questo passo il genere umano possa auto-estinguersi nel giro di poco tempo, decidono di intervenire. L’insoddisfazione degli uomini è dovuta principalmente al fatto che «le cose non fossero immense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e pressoché di una forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta, ma della matura, e della medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati nella fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita» [3]. Ma Giove stesso ha dei limiti, non può concedere agli uomini la perpetua fanciullezza, né trasmettere loro la propria infinità, così decide di intervenire per altre vie. Quella che segue è, come scrive Walter Binni, una pagina «alacre di motivi suggestivi e profondamente poetici» [4]. A ragion veduta si può parlare qui di prosa poetica.

«Ben gli parve conveniente di propagare i termini del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio, ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, acciocché, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i cammini, ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine dell’immensità. Nel qual tempo occuparono le nuove acque la terra Atlantide, non sola essa, ma insieme altri innumerabili e distesissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale, sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse, molti ricolmò suscitando i monti e le colline, cosperse la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura dell’aria, ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò più diversamente che per l’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli uomini in guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un medesimo tempo coll’altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale» [5].

I rimedi escogitati e attuati da Giove si dimostrano efficaci, risollevano «l’animo degli uomini», reintegrano «in ciascuno di loro la grazia e la carità della vita, non altrimenti che l’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’immensità delle cose terrene» [6]. Ma non basta, perché non può bastare. La novità diviene consuetudine, ed ecco che nel genere umano riaffiorano «il tedio e la disistima della vita». È in questo nuovo momento di totale disillusione che Leopardi immagina la nascita di riti che celebrano la morte e, al contrario, compiangono la nascita. «Cresce qui la profonda e dolente musica tipica di questa operetta» [7]:

«[…] si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto» [8].

Anche in questo caso, risultano particolarmente utili e illuminanti le parole di Binni, secondo cui Leopardi capovolge «richiami virilmente e orgogliosamente umanistici. La prima origine del congregarsi degli uomini nasce da occasioni ugualmente luttuose e rivelatrici dell’umana miseria, dato che ci si felicita e ci si congratula con l’estinto non perché questo va in un mondo migliore ma perché cessa per lui la pena del vivere, e si celebra con funerali e con lutti la nascita di un bambino sapendo che a lui si apre la pena del vivere» [9]. Doverosa la puntualizzazione riguardante la totale assenza, nelle intenzioni leopardiane, di un ipotetico aldilà: Giacomo Leopardi, qualora fosse necessario ricordarlo, ha un temperamento irriducibilmente ateo.

Gli uomini si volgono «all’empietà», e in quest’ultimo scorcio dell’operetta dedicato alla seconda macro-età della storia del genere umano, Leopardi proclama una nuova verità, del tutto contraria alle vulgate teorie del peccato originale:

«[…] s’ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro gli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità» [10].

Gli dei reagiscono, ancora una volta, ma in maniera diametralmente opposta rispetto alla prima. Non c’è più spazio per la pietà: Giove scatena il diluvio universale, stermina l’intero genere umano, eccezion fatta per Deucalione e Pirra, «ammoniti […] di riparare alla solitudine della terra […]» [11].

Ora, prima di concludere, ci tengo a sottolineare uno degli aspetti più rilevanti dell’operetta: la differenza che separa gli dei dagli uomini. Tra di loro esiste un’irriducibile incompatibilità che rende impossibile la comprensione dei secondi da parte dei primi. Incompatibilità dovuta, principalmente, alle due opposte nature: gli dei immortali, gli uomini mortali. Questa frattura insanabile fa sì che non possa esistere un punto d’incontro, e per tale motivo qualunque intervento divino immaginato da Leopardi risulta, come abbiamo visto, e risulterà, come vedremo, sempre e comunque vano. Superato il tempo dell’infanzia, l’uomo è destinato all’infelicità, e non c’è Giove che tenga.

NOTE

[1] Storia del genere umano, dalle origini all’imperio della Verità – Parte I.

[2] Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 493.

[3] Ivi, p. 494.

[4] Walter Binni, Leopardi. Scritti 1964-1967, p. 277.

[5] Leopardi, op. cit., p. 494.

[6] Ivi.

[7] Binni, op. cit., p. 277.

[8] Leopardi, op. cit., 494.

[9] Binni, op. cit., p. 278.

[10] Leopardi, op. cit., pp. 494-495.

[11] Ivi, p. 495.

In copertina: Pieter Paul Rubens, Deucalione e Pirra, 1636.

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