e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari.
La poetica
Le prime raccolte di poesie di Salvatore Quasimodo (1901-1968), da quella d’esordio intitolata Acque e terre (1930) al volume Ed è subito sera (1942), si caratterizzano per una spiccata ed accurata ricerca, che fa del poeta siciliano probabilmente il maggior esponente dell’Ermetismo. Quasimodo si allontana dalla forma colloquiale propria di molta lirica italiana del Novecento (in questo senso, basti pensare ai crepuscolari, ma anche ad alcune produzioni ungarettiane e montaliane). La parola si argina, si serra, quasi si barrica, perdendo quella che forse è la sua qualità primaria e più naturale, la qualità comunicativa. La parola è allora un’entità assoluta, tendente ad una dimensione poetica astratta, indefinita, incorporea.
Al fine di enfatizzare il carattere sfuggente ed indeterminato della sua produzione, Quasimodo ricorre molto spesso all’analogia. Non solo, il periodo è aggrovigliato – sono infatti estremamente caotici i rapporti che ne legano gli elementi -, la sintassi quasi sempre nominale, i sostantivi slegati dai rispettivi articoli ed utilizzati nella loro forma plurale, l’aggettivazione lenta si affievolisce fino a svanire. Insomma, il poeta siciliano costruisce un’architettura poetica estremamente complessa ed indecifrabile.
Tra i temi ricorrenti spicca la nostalgia per la terra natìa, quella calorosa e splendente Sicilia abbandonata a diciannove anni, che attraverso il ricordo assume i tratti di un luogo fantastico, mitico. Non mancano ricorrenti riferimenti alla figura della madre, alla casa ed all’infanzia. Tali tematiche sono trattate in particolar modo nella raccolta Acque e terre, la prima di Quasimodo, venendo sfiorati dagli importanti influssi dannunziani e pascoliani, che caratterizzarono la formazione letteraria del poeta originario di Modica, al pari di Petrarca, Leopardi e dei massimi autori classici – Omero e Virgilio su tutti. In Acque e terre la parola incantata, allusiva e suggestiva media fra la realtà e l’intimità dell’autore, dando vita ad una forma di ermetismo assolutamente unica nel suo genere e per questo apprezzabilissima.
Tra i volumi di versi iniziali della produzione di Quasimodo, ed ai quali abbiamo fatto riferimento all’inizio, troviamo anche Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936). Nel primo si accentuano la mitizzazione e l’idealizzazione del passato – ed impietoso è il confronto con un presente tetro, vuoto ed insoddisfacente -, ed il linguaggio assume una musicalità che si fonda sull’attenta ricercatezza del lessico. Da sottolineare soprattutto gli intricati arabeschi metaforici, pregevoli e preziose manifestazioni poetiche della solitudine umana nella vita e nel suo dolore. Anche Erato e Apollion si caratterizza per una nitidezza classica ed una eleganza che strizza sempre l’occhio all’estetica, ma anche per un tentativo di ricondurre la parola alla sua assolutezza, dunque alla sua incontaminata purezza.
Nel secondo dopoguerra assistiamo ad un sostanziale mutamento poetico. Nelle raccolte Con il piede straniero sopra il cuore (1946), Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966) il verso assume consistenza e linearità, le tematiche si allargano gettando lo sguardo su una realtà ora concreta e non più astratta, segno e significato sono legati tra loro da relazioni più dirette, intuitive, e di conseguenza la forma ed il messaggio che si vuole comunicare si rendono più aperti e comprensibili, meno spigolosi e burberi, più socievoli, disponibili e gentili. Inoltre dalla sfera intima ed ovattata del suo essere, il poeta si apre verso la dimensione storica, venendo ispirato persino dalla cronaca. La poesia si fa quindi portavoce di idee politiche e dispute sociali, assumendo tratti propri del discorso e della narrativa. Quasimodo viene spinto in questa direzione dai terribili eventi bellici e dalla necessità, che caratterizza tutto il secondo dopoguerra, di un cambiamento politico-sociale che risollevi un paese spossato da anni di dittatura e bombe, ergo di cadaveri. Il poeta sente gravare su di sé impegni civili dai quali non può divincolarsi, prendere le distanze fregandosene.
Ecco quel che scrive l’autore siciliano nel Discorso sulla poesia: «La posizione del poeta non può essere passiva nella società, egli modifica il mondo. Le sue immagini forti, quelle create battono sul cuore dell’uomo più che la filosofia e la storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione […]. Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente».
Quasimodo si riferisce a questi temi anche nel discorso Il poeta e il politico (1960), pronunciato l’anno precedente a Stoccolma, quando gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura, con questa motivazione: «Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi».
Con ardente classicità. Il poeta siciliano, come già accennato, amò sconfinatamente i classici – probabilmente fu la sua terra, l’infuocata e gravida di storia Sicilia a trasmettergli questa grande passione – tanto da tradurre svariati autori latini e greci, tra i quali Omero, Virgilio e Catullo. In questo senso celebri le traduzioni contenute nel volume Lirici greci, pubblicato nel 1940.
I versi
Volendo concentrare innanzitutto le nostre attenzioni sul Quasimodo ermetico, e dovendo scegliere delle liriche che ne esemplifichino la poetica, è necessario fare riferimento a quello che probabilmente è il componimento più celebre del premio Nobel, Ed è subito sera, contenuto in Acque e terre (1930), tanto emblematico della sua idea di poesia da dare il titolo alla successiva raccolta di versi del 1942. Leggiamo.
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
L’espressione è assolutamente breve, concentrata. Ogni parola ha un senso estremamente profondo e dunque arcano, orfico. Magnifico il primo verso, che comunica con disarmante efficacia tutta la solitudine dell’individuo il quale, trovandosi «sul cuor della terra», è posto da Quasimodo al centro delle cose. Il «raggio di sole» rappresenta certamente la luminosità, la luce, ma trafigge, facendosi anche arma che ferisce l’uomo. A giustificare questa chiave di lettura l’ultimo, celeberrimo verso. Si viene colpiti e si muore, tutt’attorno si fa immediatamente buio.
Il poeta riflette sulla condizione umana ed evidenzia dunque la labilità, la vacuità e la fragilità della vita, affiancandola alla già citata condizione di solitudine esistenziale propria dell’individuo, e lo fa in un modo sublime, ermetico certo, ma non per questo meno incisivo.
Altro splendido componimento esemplare della poetica di Quasimodo è Vento a Tindari, sempre contenuto nella raccolta Acque e terre. Di seguito il testo.
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Anche in questa lirica il poeta s’abbandona ad una riflessione sulla condizione umana raffigurandola, rispetto a Ed è subito sera, in maniera più esaustiva e completa. I versi si fanno più numerosi, fondandosi sulla vicenda autobiografica di chi li crea.
Tindari – frazione di Patti, comune in provincia di Messina – rappresenta il luogo ideale dell’infanzia, che rievoca una memoria lieta, spensierata, scevra dagli inutili affanni del presente. La terra madre si oppone alla caotica ed infestata città, nella quale il poeta si perde, invecchia, affonda. La poesia rappresenta l’unica via di conforto e sollievo. Conforto e sollievo che tuttavia non bastano ad estirpare dal cuore e dall’animo del poeta abbattuto, quel desiderio di morte che si alimenta con l’irreversibile perdita dell’«armonia».
Concludiamo l’articolo proponendo un altro pregevole e noto componimento di Quasimodo, Alle fronde dei salici, contenuto nel volume Giorno dopo giorno (1947). In questi versi assistiamo al mutamento poetico di cui abbiamo parlato sopra.
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
La lirica è caratterizzata da un lungo, lunghissimo quesito, che riguarda proprio la poesia, ed in particolar modo il suo significato, la sua accezione all’interno di una realtà devastata dal terribile scontro bellico. Negli ultimi tre versi compare una risposta desolante. Il poeta resta in silenzio, non è in grado né di dire né di scrivere nulla, e così si allinea al dolore comune dell’uomo, e così protesta contro le barbare violenze – esposte in questi versi da Quasimodo con disarmante ed al tempo stesso magnifica crudezza.
Il poeta abbandona le soluzioni ermetiche, pur non disdegnando l’uso dell’analogia, scopre la solidarietà e muta il linguaggio, volendo instaurare una chiara comunicazione con chi soffre.
Le poesie proposte sono tratte da S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1971.