Totò Merùmeni ovvero l’anti-dannunziano

Introduzione

Non è possibile parlare di Guido Gozzano senza fare riferimento a Gabriele D’Annunzio. A livello letterario come anche a livello biografico. Del resto, è lo stesso Gozzano a dichiararlo, quando, nella poesia A Massimo Bontempelli, scrive: «Troppo m’illuse il sogno di Sperelli» (III, v. 25), alludendo al celebre protagonista del Piacere (1889).

Le prime poesie di Gozzano, pubblicate in varie riviste, vanno proprio in questa direzione, ricalcano evidentemente e volutamente l’illustre modello dannunziano. Nella Via del rifugio (1907), ampia silloge che raccoglie tutta la precedente produzione poetica di Gozzano, si assiste a un importante cambiamento. I componimenti della Via del rifugio subiscono infatti pesanti modifiche rispetto alle prime redazioni, vengono depurati degli elementi dannunzianeggianti e, in un certo senso, si crepuscolarizzano. Gozzano inizia così quell’operazione di sliricizzazione della lirica italiana – l’espressione è di Sanguineti [1] – e di ribaltamento della fede e della titanica fierezza dannunziana nei confronti della propria arte, che culminerà nei Colloqui (1911) e in particolar modo in quei versi della Signorina Felicita ovvero la Felicità in cui Gozzano giunge addirittura a proclamare la propria vergogna di essere poeta: «Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!» (VI, vv. 17-18).

Nella Via del rifugio è un’evidente dimostrazione del cambiamento la poesia eponima. In essa, pubblicata due anni prima della raccolta, nel febbraio del 1905 sulla rivista «Piemonte», con il titolo dannunziano di Convalescente, Gozzano inserisce alcuni passi di una filastrocca infantile [2]. Si vedano le prime cinque strofe:

Trenta quaranta,
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…

Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.

Madama Colombina
s’affaccia alla finestra
con tre colombe in testa:
passan tre fanti…

Bella come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome,
bimbe di mia sorella!

…su tre cavalli bianchi:
bianca la sella
bianca la donzella
bianco il palafreno…[3]

Lo scarto rispetto al precedente modello è chiaro, significativo e anche piuttosto provocatorio.

Totò Merùmeni ovvero l’anti-dannunziano

Passando al testo in questione, Totò Meùmeni apre la terza e ultima sezione della raccolta I colloqui, pubblicata nel 1911. Sezione intitolata Il reduce, e che riflette «l’animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo», come dichiara lo stesso Gozzano in una lettera al direttore del quotidiano torinese «Il Momento». La poesia è suddivisa in cinque parti (che potremmo forse anche chiamare capitoli, visto l’andamento narrativo del testo) composte da quartine di doppi settenari – doppio settenario che corrisponde all’alessandrino, il verso egemone della tradizione poetica francese -. Le rime, varie e per lo più svalorizzanti, sono alternate, secondo lo schema prevalente ABABCDCD, eccezion fatta per due quartine (vv. 13-16 e 29-32) che seguono lo schema a rima incrociata ABBA.

Leggiamo.

I.

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si chiude cautamente
la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.

II.

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…»

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

III.

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…

IV.

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…

V.

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in se stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà [4].

Il nome del protagonista, che costituisce il titolo della poesia, è l’adattamento, in chiave evidentemente parodica, del titolo di una commedia di Terenzio del II secolo a.C., Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), in cui il vecchio protagonista (Menedemo) si punisce, con il duro lavoro nei campi, per aver costretto il figlio (Clinia) a partire soldato, con lo scopo di allontanarlo dalla giovane donna (Antifilia), bella ma povera, da lui amata. Il titolo era già stato ripreso letteralmente da Baudelaire nella poesia numero LXXXIII dei Fiori del Male (1857), nella quale, tra l’altro, l’ironia, elemento caratterizzante della poetica gozzaniana, è personificata [5]. Personalmente, credo che in questo testo la presenza di Baudelaire sia molto forte. Gozzano riprende infatti due aspetti peculiari della poetica di Baudelaire: l’alessandrino e le personificazioni, numerose in Totò Merùmeni (la villa pensante della seconda strofa della prima parte, le famiglie nobili e dell’alta borghesia piemontese della terza strofa sempre della prima parte, e poi la Vita, l’Amore, lo Spirito, il Tempo).

All’inizio della poesia troviamo un riferimento alla secolare tradizione poetica del giardino e della villa, inaugurata nella letteratura italiana da Boccaccio e riportata in auge dal D’Annunzio del Poema paradisiaco (1893). Tradizione ripresa e sviluppata da numerosi poeti italiani nel primo Novecento [6]. La villa è un elemento ricorrente nella produzione poetica di Gozzano – indimenticabile la Vill’Amarena della Signorina Felicita ovvero la felicità – e questo perché la villa è il suo habitat naturale. I genitori ne possedevano tre ad Agliè: oltre alla già citata villa Amarena, la casa Mautino (raffigurata sulla copertina della raccolta La via del rifugio) e la villa Il Meleto, nella quale sono ambientate le Primavere romantiche (1924) [7]. Gozzano crea una cornice decadente. Il salone è vuoto, depredato dagli antiquari – cui probabilmente il protagonista si rivolge per garantirsi le sostanze necessarie all’auto-esilio -, alla «gorgòne» [8] non picchiano più le illustri casate nobiliare, ma «villosi forestieri» [9]. Ed è proprio all’interno di questa cornice degradata, fatiscente che vive Totò Merùmeni, «con una madre inferma, // una prozia canuta ed uno zio demente», relitti di una famiglia anch’essa, come la villa, in decadenza.

Prima di procedere nell’analisi, una piccola curiosità. Gozzano scrive «un automobile» (v. 11). Nei primi anni del Novecento si apre un vero e proprio dibattito sul genere del termine, e se Gozzano si schiera a favore del maschile, indovinate chi si schiera invece a favore del femminile? Ovviamente D’Annunzio, che in una lettera indirizzata a Giovanni Agnelli scrive:

«Mio caro Senatore, in questo momento ritorno dal mio campo di Desenzano, con la Sua macchina che mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza. Inclinata progreditur. Le sono riconoscentissimo di questo dono elegante e preciso. Ogni particolare è curato col più sicuro gusto, secondo la tradizione del vero artiere italiano. Per consacrare l’accertamento del genere masc. o fem., ormai determinato dalla novissima macchina, Mastro Paragon Coppella, orafo del Vittoriale, osa offerire alla Sua figliuola e alla Sua nuora questi infallibili talismani. Le stringo la mano.
Il Vittoriale. 18 febbraio 1920
Il Suo Gabriele d’Annunzio»

Insomma, Gozzano e D’Annunzio non sono d’accordo neppure sul genere di una parola.

Nella seconda parte della poesia troviamo il ritratto di Totò Merùmeni. Qui la demistificazione del modello dannunziano è evidente. Totò Merùmeni è l’esatto, quasi matematico opposto del superuomo. È un antieroe, un inetto – personaggi caratteristici della letteratura italiana ed europea dell’epoca -.

L’intertestualità ora si infittisce. Duplice è il riferimento a Dante, «tempra sdegnosa» ricorda l’«alma sdegnosa» (v. 44) dell’VIII canto dell’Inferno; l’espressione «che sarà bello tacere» rimanda invece al verso «parlando cose che ‘l tacere è bello» (v.104) del IV canto della medesima cantica. Sono inoltre presenti in questa seconda parte tre citazioni, due dichiarate, e non solo attraverso l’utilizzo delle virgolette, ma anche attraverso la diretta menzione degli autori, e una mascherata. La citazione mascherata è al verso 18, «opere d’inchiostro», tratta dal Proemio dell’Orlando furioso di Ariosto. La prima delle due citazioni dichiarate è invece al verso 21, «vender parolette», ed è tratta da Petrarca (Rime, CCCLX, vv. 80-81 [10]). Chiara è l’allusione, dispregiativa, alla professione dell’avvocato, per la quale Gozzano stesso aveva iniziato gli studi, interrotti in favore del corso di letteratura italiana tenuto alla facoltà di lettere da Arturo Graf. La seconda citazione dichiarata occupa invece due interi versi, 31 e 32, ed è tratta da Nietzsche. La rima interlinguistica «Nietzsche» / «dice» ricorda quella ben più celebre, stridente e provocatoria «camicie» / «Nietzsche», della Signorina Felicita ovvero la felicità [11]. Anche questo riferimento al filosofo tedesco rientra in quel sistematico piano di dissacrazione del modello dannunziano già ampiamente ricordato. Nietzsche giunge in Italia attraverso la lente di D’Annunzio, ed è quest’ultimo a coniare, nella prefazione al Trionfo della morte (1894), l’inesatto calco «superuomo» dall’originale «Übermensch» nietzschiano [12], e a fondare su di esso un’ingente porzione della propria poetica. La derisione del padre del superomismo è il diploma di anti-dannunzianesimo.

In conclusione della seconda parte si acuisce inoltre l’elemento grottesco, rappresentato prima dai parenti e rafforzato ora dagli animali, «compagni» di Totò Merùmeni: un uccello roco [13], un gatto e una scimmia, dotata persino di un nome (emblematicamente posto a fine verso, per sottolinearne così ancor di più la carica ironica).

Nella terza parte entriamo nell’intimità del protagonista, nella sua sfera sentimentale. Scopriamo che anche a Totò Merùmeni, proprio come al suo creatore, troppo lo illuse il sogno di Andrea Sperelli. In questi versi troviamo l’ennesimo attacco al modello dannunziano, che consiste nella caustica degradazione della femme fatale a «cuoca diciottenne». Svanita l’illusione di sciogliersi nell’abbraccio mortale di «donne rifatte sui romanzi» [14], Totò si accontenta di godere delle grazie di una «giovinetta» almeno autentica, che ogni notte si insinua nella sua stanza «fresca come una prugna al gelo mattutino».

Il «lento male indomo» a cui Gozzano fa riferimento nella quarta parte, potrebbe far subito pensare alla malattia dello stesso poeta torinese, quella tubercolosi che lo condurrà a una morte prematura. In realtà il male di Totò Merùmeni è frutto dell’intensa riflessione speculativa, critica, è quello stesso male che affligge l’avvocato della Signorina Felicita e che invece è ignoto alla signorina stessa, rendendola così appetibile agli occhi del protagonista [15]. È il male dell’eccessiva consapevolezza, è il male di chi è persuaso, e che divora come il fuoco, rendendo l’uomo una rovina, un’«anima riarsa». È in questi versi che Gozzano proclama la nuova, modesta funzione della poesia, consolazione privata e niente di più. Siamo lontani anni luce da Gabriele D’Annunzio.

Tutta la poesia è pervasa da un’atmosfera di pacata e serena accettazione della propria inadeguatezza rispetto alla società e alla letteratura dell’epoca. Accettazione che porta a una sottile letizia. Totò «quasi è felice», alterna lo studio della filosofia e la creazione poetica, avvoltolato in se stesso «medita, s’accresce, esplora», e inizia persino a comprendere certi valori spirituali (spirituali, non necessariamente religiosi) sconosciuti all’emulatore di quell’Andrea Sperelli tutto pregno di vana estetica, «legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale», fedele al patriarcale motto: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte» [16].
Il verso conclusivo, intriso di temporalità, è una traduzione quasi letterale del poeta simbolista francese Francis Jammes (1868-1938), tra gli autori prediletti di Gozzano. È come se il poeta torinese applicasse l’insegnamento di Eliot: «I poeti immaturi imitano; i maturi rubano» [17]. Ma è un furto che non resta impunito, anzi. Nei loro giudizi denigratori dei Colloqui, Palazzeschi e Papini ci tengono particolarmente a sottolineare proprio i plagi da Jammes, e ad essi si unisce Tozzi. Nella restante critica dell’epoca, tra gli scettici, ma con toni meno aspri, troviamo Borgese – l’ideatore della fortunata espressione “poesia crepuscolare” [18], della quale oggi Gozzano è considerato uno dei maggiori esponenti -, Cardarelli e Lucini. La raccolta ottiene invece recensioni positive da Cecchi e Slataper [19].

Conclusione

Totò Merùmeni è un componimento fortemente ironico, a livello contenutistico come anche a livello formale. All’interno di una struttura formale classica, tradizionale Gozzano fa urtare il registro alto, sublime e il registro basso, quotidiano (è questo uno degli aspetti più innovativi della poesia gozzaniana), generando quella stridente, provocatoria e originale collisione dell’«aulico col prosaico» tanto apprezzata da Montale [20]. Ironia profondamente legata all’autoironia, perché nella sistematica parodizzazione del modello dannunziano ad essere colpito non è solo il modello, ma anche chi, come Totò Merùmeni, come Gozzano stesso, in quel modello aveva creduto, e tanto fortemente da provare a metterlo in pratica non solo nella letteratura, ma anche nella vita. Poi però può accadere che la Vita si ritolga «tutte le sue promesse», e che il modello si mostri per quello che effettivamente è, una finzione e niente di più. Allora il disilluso, che invano ha sognato «pel suo martirio attrici e principesse», punisce se stesso – per la sua sciocca ingenuità, presumibilmente -, si auto-esilia, rinunzia, utilizzando l’emblematico titolo della raccolta di poesie del 1907 di Carlo Vallini, il caro amico di Gozzano ingiustamente dimenticato. È ciò che avviene a Totò Merùmeni, l’anti-dannunziano per eccellenza, campione d’inettitudine, altro che gentiluomini e artisti eleganti.

NOTE

[1] Edoardo Sanguineti, Introduzione a Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1971.

[2] Marziano Guglielminetti, Gozzano, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 58, 2002.

[3] Guido Gozzano, Tutte le poesie, a cura di Giacinto Spagnoletti, Newton Compton editori, Roma 1993.

[4] Ivi.

[5] «Ti colpirò senza collera / né odio, come un beccaio, / come Mosè la roccia! / Farò scaturire acque // di dolore dalla tua palpebra / per abbeverare il mio Sahara! / Il mio desiderio gonfio di speranza / nuoterà sulle tue lacrime salate // come un vascello verso il largo! / E come rulli di tamburo nella carica / echeggeranno i tuoi cari singhiozzi / nel mio cuore ubriaco! // Non sono io forse un falso accordo / nella divina sinfonia, / grazie all’Ironia vorace / che mi scuote e morde? // Sta nella mia voce, la strillona! / È tutto il mio sangue, quel nero veleno! / Sono lo specchio sinistro / dove si guarda la megera! // Sono la piaga e il coltello! / Sono lo schiaffo e la guancia! / Sono le membra e la ruota, / la vittima e il carnefice! // Sono il vampiro del mio cuore, / – uno di quei grandi abbandonati, / condannati al riso eterno / e che più non possono sorridere!». C. Baudelaire, L’Heautòntimorumenos, in C. Baudelaire, I Fiori del Male e tutte le poesie, a cura di Massimo Colesanti, traduzione di Claudio Rendina, Newton Compton editori, Roma 2006.

[6] Si ricordino, tra gli altri componimenti, Villa chiusa di Govoni, Il cancello di Palazzeschi, Sonetto della neve di Corazzini.

[7] Marziano Guglielminetti, Gozzano, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 58, 2002.

[8] «Il battaglio della porta, a testa di Gorgone, secondo il gusto liberty», come suggerisce Sanguineti.

[9] Per «villosi» Sanguineti intende «impellicciati, come solevano essere gli automobilisti del tempo». Tuttavia potrebbe anche essere inteso nel senso di selvaggi, in opposizione alla raffinata nobiltà passata.

[10] «Questi in sua prima età fu dato a l’arte / da vender parolette anzi menzogne».

[11] «Tu non fai versi. Tagli le camicie / per tuo padre. Hai fatta la seconda / classe, t’han detto che la Terra è tonda, / ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…» (vv. 308-311).

[12] Massimo Fanfani, Parole d’autore, Enciclopedia dell’italiano, 2011, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani.

[13] L’aggettivo, e non è forse un caso, compare anche ne La Signorina Felicita ovvero la felicità, riferito alla decrepita Maddalena, la donna di servizio: «Un richiamo s’alzò, querulo e rôco: / “È Maddalena inqueta che si tardi; / scendiamo; è l’ora della cena!”» (vv. 223-225).

[14] Guido Gozzano, La Signorina Felicita ovvero la felicità, v. 258.

[15]  «Tu ignori questo male che s’apprende / in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti, / tutta beata nelle tue faccende» (vv. 314-316).

[16] Gabriele D’Annunzio, Il piacere, a cura di Giansiro Ferrata, Mondadori, Milano 1989, pp. 18-19.

[17] Thomas Stearns Eliot, Saggi elisabettiani, traduzione di Alfredo Obertello, Bompiani, 1947.

[18] Il 10 settembre 1910 Borgese, sul quotidiano «La Stampa», nell’articolo Poesia crepuscolare, recensendo le raccolte Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, Poesie provinciali di Fausto Maria Martini e Sogno e ironia di Carlo Chiaves, parla di «una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne».

[19] Marziano Guglielminetti, Gozzano, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 58, 2002.

[20] Eugenio Montale, Gozzano, dopo trent’anni (1951), in Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1976.

In copertina: Karl Briullov, Ritratto dello scrittore A. N. Strugovshchikov, 1840.

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