Joseph Roth e Andreas Kartak, santi bevitori

La leggenda del santo bevitore (1939), uno degli ultimi doni di Joseph Roth (1894-1939) a Nostra Signora Letteratura, è un gioiellino, un preziosissimo gioiellino. In poche pagine – Roth è così, essenziale, nei suoi libri non troverete mai niente di superfluo, neppure una parola – l’autore ci racconta tutta la serie di miracoli, e «a nulla si abituano gli uomini più facilmente che ai miracoli», che, a partire da una sera di primavera del 1934, capitano in quel di Parigi al randagio Andreas Kartak, ex minatore ed ex galeotto originario, come il suo creatore, delle province orientali del decadente Impero asburgico (decadenza di cui Roth è uno dei più illustri e caustici cantori).

Andreas è un vagabondo e un alcolizzato, vive sotto i ponti della Senna, eppure, nonostante la sua disagevole situazione, complici i reiterati miracoli, tutto il racconto è pervaso da un’atmosfera di letizia. Al contrario di un altro straordinario esempio di letteratura randagia, il romanzo Fame (1890) del colpevolmente dimenticato Knut Hamsun (1859-1952), lungo incubo claustrofobico, che afferra il lettore alla gola impedendogli di respirare, nella Leggenda del santo bevitore tutto è lieto, conciliante, e persino la morte del protagonista, che Roth, nelle ultime parole del racconto, augura a tutti i bevitori come Andreas Kartak e dunque innanzitutto a se stesso: «Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella!».

Io sono certo che Dio, a Joseph Roth, bevitore non meno santo del suo Andreas, abbia concesso questo privilegio. Il privilegio di una morte lieve e bella, che giunge sorridendo e brandendo in aria un gustoso pernod.

Joseph Roth in un suo autoritratto datato novembre 1938. La didascalia recita: «Ecco quel che sono veramente; cattivo, sbronzo, ma in gamba».

C’è una paginetta dello scrittore tedesco Hermann Kesten (1900-1996) che ricorda l’ultimo incontro con Joseph Roth poche settimane prima della sua morte. Un racconto commovente, che contiene inoltre preziosi riferimenti proprio alla Leggenda del santo bevitore.

Al termine della lettura di questa paginetta, invito tutti coloro che ne hanno la possibilità a levare un brindisi – rigorosamente alcolico, mi raccomando – a Roth, e a tutto ciò che ci ha lasciato. Ne sarebbe felice.

«Volevo bene a Roth. Per dodici anni avevo passato con lui buona parte della mia vita. Sedevo tutto sobrio a scrivere accanto al Roth del mattino, che, quando scriveva, non beveva. E sedevo tutto sobrio accanto al Roth ubriaco della sera, che continuava a bere fino a notte inoltrata, e ascoltavo, divertito e commosso, la sua saggezza del giorno e la sua follia di mezzanotte, perché anche la sua follia aveva il sapore della poesia. Volevo bene a Roth, e subito dopo il mio arrivo a Parigi, nella primavera del 1939, andai da lui e lo ritrovai verso le undici della sera. I suoi soliti compagni, al tavolo del caffè, erano già andati via. C’erano soltanto, con lui, uno scrittore emigrato da Lipsia, un corrispondente jiddisch di Varsavia, un avvocato fuggito da Praga, che era in viaggio per raggiungere i parenti a New York, un ebreo convertito al cattolicesimo, una ex attrice di Francoforte, amata un tempo da Roth, e un viennese suo amico di gioventù.
Di fronte a Roth c’era un bicchiere o due con dentro una mistura giallo-verde, e una mezza dozzina di sottocoppe, che servono ai camerieri parigini per fare il conto di quel che i loro clienti hanno bevuto. Mi sedetti accanto a lui e parlai con gli altri.
Più tardi l’attrice, il letterato di Lipsia, l’amico di gioventù e gli altri emigrati se ne andarono via. Roth e io restammo soli, e “Che cosa scrive?” fu la mia domanda. Ed egli mi raccontò la sua ultima novella, La leggenda del santo bevitore, che aveva appena terminato di scrivere, me la raccontò come si usa fare tra scrittori, parlando più della tecnica che del contenuto, più dei riferimenti e degli artifici che dei ‘passi più belli’.
“Non è graziosa” mi chiese, e lisciò i piccoli baffi biondi e ispidi che s’era fatto crescere negli ultimi anni, mi guardò cordiale e malinconico con i suoi occhi azzurro cupo, mentre beveva lentamente, ripetendo: “Non è graziosa?”.
Io sorrisi e dissi: “Ehm! Un po’ Kleist, la storia del bevitore, e forse anche Tolstoj?”.
“Piuttosto Tolstoj!” egli disse con un tenerissimo sorriso di ubriaco. Poi: “La storia le piacerà”.
E mi porse il suo piccolo taccuino, una rubrica per gli indirizzi con le lettere dell’alfabeto, pregandomi di scriverci il mio albergo, perché mi voleva telefonare presto. Alla una e mezza del mattino il caffè si chiudeva, e io mi alzai per andare.
Con la sua incantevole e inappuntabile cortesia, Roth si alzò, mi accompagnò davanti alla porta del caffè ormai vuoto e mi tese la mano. La figura era un po’ curva, un po’ barcollante, il sorriso così pieno di malinconica intelligenza, e gli occhi azzurri stanchi e annebbiati, i piccoli baffi biondi e le belle mani, la voce già rauca e così cordiale… Il mio caro e vecchio amico Roth, a cui ho sempre voluto bene come a un fratello maggiore, sempre così vicino a me e così stranamente lontano, lo scrittore che amavo anche nelle sue cose più occasionali e la cui voce poetica conoscevo in ogni sua cadenza… Appariva così incrollabile, così durevolmente e affettuosamente abituale, nonostante tutte le tracce del dolore, come la stessa buona, dolce, cara vita, tanta era la tenerezza affettuosa con cui mi sorrideva.
Disse ancora: “Presto le telefonerò…”» (Hermann Kesten, Meine Freunde die Poeten, in Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore, traduzione di Chiara Colli Staude, Adelphi edizioni, Milano 1975, pp. 71-73).

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